GRAN SASSO/ Cercatori di “stelle” nel cuore della montagna

- Francesco Brignoli - “Ci sono dei pazzi che si infilano nel fondo delle miniere per osservare le stelle del cielo”. Chissà cosa aveva in mente Plinio il Vecchio quando scrisse questa frase, eppure è proprio quello che accade oggi.
I protagonisti di questa “pazzia” sono gli scienziati dei Laboratori Nazionali del Gran Sasso (LNGS) che, nelle profondità della montagna regina dei nostri Appennini, hanno costruito il loro regno sotterraneo; e dalla fine degli anni ’80 lo popolano di esperimenti, con i quali cercano di scoprire la natura delle particelle fondamentali che compongono la materia: sia quella che vediamo, sia quella che ancora ci è “oscura”, nell’Universo.
L’occasione per conoscere questo mondo per un gruppo di studenti di Fisica dell’Università degli Studi di Milano è stata la visita ai LNGS, da loro organizzata nei giorni scorsi insieme al prof. Gianpaolo Bellini, con il sostegno dell’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare) e dell’Università stessa. Bellini lavora alla frontiera della ricerca scientifica da oltre 50 anni.
“Feci la mia tesi di laurea – racconta – in una “baracca” a 2600 metri d’altezza: cercavo i raggi cosmici che, dalle profondità del cielo, interagiscono con l’atmosfera terrestre. Erano gli ultimi anni in cui in fisica delle particelle si potevano ancora fare esperimenti utilizzando dei piccoli apparati sperimentali”.
Dagli anni ’60 in avanti, infatti, lo scenario inizia a cambiare rapidamente: si apre l’era dei grandi acceleratori di particelle, con una nuova serie di scoperte e di domande a cui gli scienziati vogliono provare a rispondere.
“È verso la metà degli anni ’70 che un esperimento americano rivela un flusso di neutrini provenienti dal Sole molto inferiore a quello previsto dal modello teorico di cui ci si fidava. I casi erano due: o la teoria era imprecisa, o l’esperimento era sbagliato”.
È il cosiddetto “problema del neutrino solare”, la cui soluzione ha scatenato anni di ricerche su nuovi esperimenti e tecnologie di indagine per molti gruppi di ricerca del mondo. Fra questi, anche quello di Bellini, che ha realizzato l’esperimento Borexino, oggi sotto i duemilasettecento metri di roccia del Gran Sasso.
“L’idea è nata nel 1990, poi sono seguiti cinque anni di ricerca e sviluppo tecnologico: progettazione, creazione di prototipi, ricerca dei materiali più adeguati”.
Tutto questo per rilevare la presenza di neutrini solari. Problema per niente facile, perché i neutrini non si fanno catturare facilmente e sono “nascosti” dalla presenza di molte altre particelle.
“È per questo che andiamo sottoterra: la montagna scherma parte degli elementi di disturbo, come i raggi cosmici. Ma rimane sempre la radioattività naturale ed è per questo che con Borexino abbiamo ricercato materiali e tecnologie che emettessero la minor radioattività possibile”.


Dopo i test svolti con un esperimento in scala ridotta, è venuta la realizzazione dello strumento vero e proprio.
“La presa dati è partita nel 2007. Ricordo che quando chiudemmo il rivelatore di neutrini mi chiesi se avremmo effettivamente trovato quello che cercavamo.
E invece dopo pochi mesi già potevamo presentare i primi risultati”.
Borexino ha potuto così estendere lo studio delle oscillazioni del neutrino ad energie mai esplorate prima e confermare anche quanto altri esperimenti in Canada e in Giappone stavano osservando come soluzione del problema del neutrino solare: il fenomeno delle “oscillazioni di neutrino”.
“La teoria non era sbagliata, e neanche gli esperimenti. Mancava solo un pezzo: si è trovato che i neutrini durante il tragitto dal Sole alla Terra possono “oscillare” da un tipo all’altro.
Gli esperimenti rivelavano solo quelli di un tipo, ed ecco perché si osservava un flusso minore di neutrini”. Un successo, dunque. Ma il bello è che la storia non si ferma qui.
“Abbiamo ottenuto vari risultati – conclude il professore – anche su neutrini provenienti dalle profondità della Terra, che hanno fornito informazioni inedite sull’interno del nostro pianeta.
Nei prossimi anni vogliamo migliorare ulteriormente Borexino, per ottenere nuove informazioni sui neutrini solari; e anche esplorare nascenti frontiere di ricerca, come quella dell’ipotetico “quarto neutrino”, che alcuni esperimenti indicano come più di un’ipotesi”.
Ma sotto il Gran Sasso sono in corso anche altre ricerche e molti altri scienziati cercano di strappare alla natura gli infiniti segreti che anno dopo anno ci mette davanti. Tra questi, Cresst e Dark Side cercano di rilevare la cosiddetta “materia oscura”, che da quasi ottant’anni è invocata a gran voce dagli astrofisici per poter spiegare quello che vedono nelle galassie, ma che non è mai stata catturata direttamente.
Oppure Cuore, che prenderà i primi dati nel 2015, e cercherà di scoprire se neutrino e antineutrino siano la stessa particella, informazione ancora sconosciuta.
E c’è anche spazio per lo sviluppo di nuovi strumenti come Icarus, l’innovativo detector di neutrini capace di ricostruire in 3D il “viaggio” delle particelle all’interno del rivelatore.
Non bastano di certo una visita di una giornata e queste poche righe per rendere giustizia alla quantità di ricerche che sono condotte nel cuore del Gran Sasso.
Quegli studenti però sono tornati a casa con un’idea più ampia di cosa possa voler dire fare scienza e con l’intuizione che non sia da “pazzi” scendere nel cuore delle montagne per osservare eventi rari, sfuggenti, o di cui addirittura non è certa l’esistenza.
Bastava guardare la faccia del professor Bellini.


 



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