Sapete quante vite hanno salvato i fisici delle particelle?

- di Fernando Ferroni (Presidente INFN) - Chi ha provato a raccontare la scoperta del bosone di Higgs lo sa. Sa che a un certo punto, al di là di quanto siano brillanti le sue spiegazioni, l’interlocutore gli rivolgerà la domanda fatidica: ma a cosa ci serve?

È una domanda legittima da parte di chi contribuisce con i soldi pubblici a finanziare lo sforzo di conoscenza degli scienziati e delle grandi imprese scientifiche internazionali, come quella dell’acceleratore LHC del CERN, che ci ha portato alla scoperta del bosone. È una domanda a cui è doveroso rispondere, tanto più che la ricerca fondamentale, oltre che alla curiosità inesauribile degli scienziati, serve alla società, eccome.

È un po’ sospetto, però, quando domande dello stesso tenore sono poste dai ricercatori di altri campi, più legati alle cosiddette «applicazioni» della conoscenza. Ci si chiede se i fondi dati alla ricerca del bosone non sarebbero stati spesi meglio altrove, per studiare, ad esempio, i cambiamenti climatici o l’erosione della biodiversità o qualche altra seria emergenza che attanaglia il pianeta.

E si finge così di non sapere, o peggio si ignora, che la conoscenza scientifica non procede in modo lineare e che, per quanto le risorse siano necessarie, non bastano da sole a garantire un avanzamento delle conoscenze e dei risultati in un determinato campo.

Si dà per scontato, poi, che le conoscenze e le capacità tecnologiche raggiunte da una parte non influenzino i progressi di altri settori, come se questi seguissero strade parallele e non comunicanti. È vero piuttosto il contrario e gli esempi non mancano. Per restare al caso della fisica si pensi alla rivoluzione per la scienza, e poi per la società e l’economia, rappresentata dal Web. Lo strumento software, che ha reso possibile questa rivoluzione, nacque 25 anni fa proprio al Cern dall’esigenza dei fisici di trasmettere e comunicare in modo più efficiente dati e informazioni. E qualcosa di analogo sta accadendo di nuovo, se è vero che la rete di calcolo parallelo Grid, immaginata per distribuire e analizzare i dati di LHC, è già usata anche per simulare l’effetto di nuovi farmaci, studiare i cambiamenti climatici o le fluttuazioni dei mercati. È cioè uno strumento potentissimo per fronteggiare emergenze e problemi che si ritengono prioritari. Lo avremmo oggi a disposizione se non avessimo investito nella ricerca del bosone?

Ma l’esempio eclatante di travaso di conoscenze e tecnologie è quello che avviene da oltre un secolo tra la fisica nucleare e la medicina. Quasi tutte le tecniche avanzate di diagnosi, con cui ogni giorno negli ospedali monitoriamo il corpo umano – dai raggi X alla risonanza magnetica, dalla Pet alla Tac – sono nate prima e per altri scopi nei laboratori di fisica.

Passando dalla diagnosi alla cura, nel mondo ci sono oggi circa 25 mila piccoli acceleratori lineari per bombardare i tumori: messi tutti assieme, questi cugini minori di Lhc raggiungono la lunghezza del gigante del CERN. In Italia, a Pavia, l’acceleratore del Cnao (il Centro Nazionale di Adroterapia Oncologica) è 100 volte più piccolo di Lhc e utilizza i protoni e gli ioni pesanti, per tentare di curare quel 3% di tumori che non sappiamo trattare diversamente. Se ci fossimo posti unicamente l’obiettivo di curare il cancro, non saremmo mai arrivati nemmeno a concepire una terapia del genere. Sarebbe stata semplicemente impensabile, poiché non si sarebbero formati gli uomini, le conoscenze e le innovazioni tecnologiche che ci hanno permesso di immaginarla prima ancora che di realizzarla.

Questo naturalmente non riguarda la sola fisica, lo stesso si potrebbe dire per l’esplorazione dello spazio o il sequenziamento del genoma. La verità è che il modello della «Big Science», innescato dalle grandi domande della scienza, funziona tremendamente bene per far avanzare le conoscenze in tutti i settori, al punto da cancellare il confine – se mai vi è stato – tra ricerca fondamentale e applicazioni. I fisici delle particelle hanno cominciato ad organizzarsi con questo modello più di 50 anni fa e oggi l’Europa ha capito quanto sia vincente per la ricerca.

Si ispira, ad esempio, a questa idea lo Human Brain Project, che cercherà di ricostruire in laboratorio la complessità del cervello ed è stato finanziato con 1 miliardo dal programma Fet (Future and Emerging Technologies) dell’Ue: ça va sans dire che queste sfide si possono affrontare solo con collaborazioni internazionali che superano qualche volta anche i confini dei blocchi continentali normalmente in competizione (Stati Uniti, Europa, Cina).

Né è difficile immaginare che imprese simili creano un indotto economico significativo, qualificano dal punto di vista dell’innovazione e della tecnologia le aziende coinvolte, promuovono il merito. E l’Italia, protagonista dei grandi progetti di fisica, ma non solo, ne ha giustamente giovato. L’ha spiegato Luciano Maiani su «Internazionale» in risposta alle perplessità dell’ecologo Ferdinando Boero. Capire cos’è il bosone è complicato, molto meno, però, accorgersi di quanto sia utile averlo cercato.

Pubblicato orginariamente su La Stampa

 



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