Scoperte teca e croce sotto terra ma la reliquia gettata non si trova

Cerca cerca, e scava scava, la terra impregnata d’acqua restituisce – all’ora dell’Angelus – la teca giallo-oro che custodisce un frammento dell’abito del Beato Giovanni Paolo II imbevuto del sangue scaturito dal corpo del defunto pontefice il giorno dell’attentato in piazza San Pietro. Teca sparita dal santuario della Jenca ai piedi del Gran Sasso e ora ricomparsa, a pezzi, insieme al crocifisso rubato. Ma al poliziotto che scava all’ombra della Turris Eburnea – la cappelletta dai vetri spaccati dai vandali che domina la collina dell’ex ospedale psichiatrico di Collemaggio – e prende in mano il prezioso reperto tocca l’annuncio che il miracolo, stavolta, non c’è. O non c’è ancora. Il vetro è rotto, il frammento della reliquia ex sanguinis è da un’altra parte. Chissà dove. O forse è irrimediabilmente perduto. «Lo abbiamo gettato», dicono i tre sospettati. SOTTO TERRA. La cercano, da giorni, i carabinieri. Ma la teca distrutta la trovano i poliziotti. Anche se le veline diramate a sera parlano di «sinergica attività info-investigativa». In realtà le piste s’incrociano. La squadra Mobile diretta da Maurilio Grasso intercetta la teca nell’ambito di accertamenti su una rapina di alcuni giorni prima nella zona di Collemaggio. Sotto esame la posizione di due giovani, che poi diventano tre al termine di una frenetica giornata. Si tratta di Simone Scopano (assistito dall’avvocato Francesco Valentini), Davide Celletti (che ha nominato l’avvocato Giulio Agnelli) e di Alessandro Acierno (rappresentato dal legale Roberto Madama). Le responsabilità di ciascuno, precisano i legali, «potrebbero essere differenti», oppure «non esserci». Visto che qualcuno potrebbe aver fatto da palo. In due vengono interrogati per primi. E poi portati a Collemaggio, luogo da loro indicato come nascondiglio della refurtiva. Qui, in un anfratto coperto di rovi, si trova il reliquiario ridotto in pezzi. Nel luogo del ritrovamento arriva anche il pm David Mancini. Si cerca tra l’erba alta e i rami secchi. Vengono spostati i sassi, sollevata ogni foglia. Ma la reliquia non viene fuori. A quel punto le ricerche si spostano altrove. Infatti i due giovani, dopo un po’, raccontano un’altra puntata del giallo. Che la teca asportata è stata rotta in un altro punto, il parcheggio (e l’area circostante) del Progetto Case di Tempera, dove si spostano le ricerche. NELL’IMMONDIZIA. «L’abbiamo gettata», confessano i giovani sospettati, che restano in libertà in quanto il pm non ritiene sussistente il pericolo di fuga. E inoltre anche perché, con le loro dichiarazioni, indirizzano gli investigatori verso i luoghi da loro frequentati nei giorni dopo il furto. Vedendo un oggetto giallo protetto da una teca di cristallo lo credono d’oro. Vorrebbero rivenderlo. Allora, con una mazza di ferro, spaccano la vetrina e asportano il reliquiario. «La credevamo d’oro, non di latta», diranno, messi alle strette. Nessun pensiero, invece, per quel frammento di stoffa al centro di quello che per questi giovani è un «oggetto misterioso». Lo aprono, lo rompono. Poi la decisione di portare tutto in un dirupo a Collemaggio. Il frammento cade e forse finisce nell’immondizia oppure sotto una macchina oppure in una pozzanghera. Chi può dirlo? Al Progetto Case comincia una ricerca spasmodica, che coinvolge investigatori ma anche cittadini residenti nelle case antisismiche. Ogni cerotto, ogni pannetto bianco viene preso da terra e repertato. Chissà se è davvero quello giusto. Del resto, grande è la riprovazione, nell’opinione pubblica, per il gesto sacrilego. Il frammento non c’è, mentre spuntano altri pezzi tra cui un angioletto ritrovato nella casa di uno dei tre sospettati. Ci proveranno anche oggi, e domani, a cercare il cuore di quel reliquiario profanato. Ma con poche speranze. IL CANE MOLECOLARE. Oggi da Roma arriverà anche il cane «molecolare», insieme agli agenti della Scientifica che metteranno in campo tutte le tecniche per risalire al sacro frammento. Un «naso» in più, ritenuto in grado di fiutare tracce di sangue anche in condizioni proibitive. La vicenda, comunque, presenta ancora molti punti da chiarire. Dal satanismo al furto su commissione, dal dispetto di nemici locali del santuario e dei suoi custodi – ecclesiastici e non – alle beghe di paese. Essendosi detto di tutto, su questa vicenda, sarà necessario dipanare la matassa in maniera completa nelle prossime ore. La speranza di ritrovare la reliquia oggetto di venerazione per i fedeli è ridotta al lumicino. E mentre ci si interroga su modalità, tempistica ed eventuali leggerezze (o addirittura omissioni) che potrebbero aver, in qualche modo, favorito l’azione dei ladri, nel prudente silenzio della Chiesa sull’argomento, la parte dell’ecclesiastico la recita Pasquale Corriere che dal 1995 lavora all’idea del santuario. «Giovanni Paolo II ha perdonato chi gli ha sparato per ammazzarlo. E adesso perdonerà anche questi ragazzi».

Una giornata intensa, quella di ieri, per Pasquale Corriere, presidente dell’associazione culturale «San Pietro della Jenca», culminata con la notizia del ritrovamento di tre pezzi della teca che conteneva la reliquia di Giovanni Paolo II. A mancare all’appello, però, è quel minuscolo pezzo di stoffa, intriso di sangue, dell’abito che il defunto pontefice indossava il 13 maggio 1981, quando in piazza San Pietro subì l’attentato di Mehmet Ali Agca. Così Corriere racconta la sua convulsa giornata. La svolta nelle indagini si è avuta con il ritrovamento di tre pezzi del reliquiario. Tuttavia proseguiranno le ricerche della reliquia di Karol Wojtyla. È fiducioso in un esito positivo della vicenda? «Sono passati quattro giorni dal furto della reliquia a San Pietro della Jenca e, se come dicono i tre fermati, il pezzetto di stoffa con il sangue di Wojtyla è stato gettato via, temo possa essere andato perso. Sarà molto difficile ritrovarlo. Confido molto nel lavoro degli inquirenti, anche per capire come sono andati realmente i fatti. E perché i tre giovani hanno rubato la reliquia. Ho ancora il sospetto che il furto possa essere stato commissionato, dato che non sono state forzate le cassette delle offerte per prelevare i soldi». Come si sente adesso? «Un po’ più sereno, ma ancora turbato e sotto choc per quanto accaduto. La profanazione del luogo sacro a Giovanni Paolo II per me è un profondo dolore: un danno terribile per la comunità aquilana e dei fedeli». Eppure lei intravede in tutto ciò un segno divino. «L’Aquila è stata profondamente colpita dal sisma del 2009. Ha pagato un tributo altissimo di vittime ed è salita, per questo, agli onori delle cronache. A distanza di cinque anni accade un nuovo fatto sconvolgente con il furto della reliquia di Giovanni Paolo II. E si torna a parlare di questa città e del piccolo santuario sul Gran Sasso, che adesso tutto il mondo conosce. Spero che possa nascere, come da un seme gettato nella terra fertile, qualcosa di importante per il nostro territorio. Un nuovo stimolo per lo sviluppo del turismo religioso e per la diffusione del messaggio del Santo Padre nel mondo». Negli ultimi giorni intorno alla sua persona si sono addensate delle nubi: qualcuno ha parlato di “mossa architettata ad arte”. Cosa risponde? «Supposizioni che mi hanno addolorato. Niente di più falso e il lavoro degli inquirenti lo ha dimostrato. Continuerò ad operare perché la fama del santuario di Giovanni Paolo II, alle falde del Gran Sasso, possa crescere sempre più. E con essa possa diffondersi il messaggio di pace e riconciliazione del Santo Padre».

- da Il Centro -

-  video di TVUNO -

 
 



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