Jeanpaul Moscardi, dalla Francia, un orecchio e un cuore attento alle cose d’Italia

La foto, è forse di fine ottocento o inizio novecento, dell’autore A. Sperandio, probabilmente originario di Paganica, che raffigura il luogo “Madonna D’Appari” come da dichiarata inte-stazione. Trovata nel Web, mi è stata inviata da Jeanpaul Moscardi, che sempre ha un occhio, un orecchio e un cuore, perché ne possiede due, attento alle cose d’Italia e, più in particolare, a quelle del nostro paese, che è il paese d’origine dei nonni materni, della madre, il padre, in-vece di Camarda. Postandomela la proponeva come il nostro Far-West. Tale sembra. Alta la vicinanza estetica con i luoghi conosciuti con l’epopea cinematografica. La povertà, abbatte  distanze e democratizza le somiglianze, dico miseramente io. Miseramente al confronto con l’incipit di “Anna Carenina” dove Tolstoi, afferma che “ Tutte le famiglie felici si assomigliano tra loro; ogni famiglia disgraziata, invece, è disgraziata a modo suo”.  Il voluto disaccordo letterario con Tolstoi,  non è poi così antipode, come sembra. Perché più alta è la povertà, più cose mancano, più alta è la convergenza, se non altro estetica. Dietro la parvenza, poi, entro i cuori e l’anima chi sa dire. Eppure l’uomo, nonostante la rivoluzione delle artificiosità, la prestanza protesica di tutti gli esorbitanti strumenti che affrancano, in fondo è sempre lo stesso. Tornando alla foto, se ogni foto è inchiodare il tempo, in questa, come tutte quelle datate, sembra che il fotografo abbia fatto poca fatica a fermarlo, a rarefarlo sindonicamente su pellicola, il tempo, per quanto gli si presentasse, già rallentato, ai suoi occhi di contemporaneo. In questa foto sembra che trovi oggettivazione la preoccupazione di Kafka, il quale, in un suo surreale racconto, si sor-prendeva come la vita potesse bastare a un viandante per raggiungere un vicino villaggio.  Tanto più se si ha a che fare con attese dolorose, quando, il tempo lo si vorrebbe cavalcare come un cavallo di razza e frustarlo con veemenza di nerbo, a spronarne il galoppo, suppo-nendo l’attesa ansiosa, da un capezzale, del calesse sotto l’arco di roccia, del probabile medi-co condotto (Forse un Moscardi, lontano parente dell’estensore della foto), il quale s’impone-va celerità, anzi il paziente, ancor più ne aveva necessità. Ma, anche i dolori, allora avevano più tempo per incarnarsi e rivendicare comprensione. Se sussurrati, inascoltati; solo nelle e-splosioni, rivendicavano attenzione. Tutto sembra arreso, comunque ad un pathos naturale, ad una gravità misurata; il fiume, alla gravità geodetica, il resto a gravità più domestiche e forse più dominabili. Compresa la gravità della povertà. Che s’oggettiva anche con un occasionale, sommario confronto, con i tempi attuali, lasciandosi colpire dall’assenza totale degli alberi e dei lanosi pioppi, lungo il Raiale, oggi schiavi di un male diverso: l’incuria. La evidente ca-renza, di allora, sempre riconducibile alla povertà? All’indotto coatto uso, che doveva farsi, degli alberi, per vari scopi?  Anche mobiliari: l’accezione “arte povera”  fa appunto riferi-mento al mobilio di pioppo, Il vile pioppo, vile per le costitutive qualità organolettiche del suo legno, temente confronti, il quale, nel vernacolo, non era riuscito, nemmeno ad avocarsi un nome specifico proprio, se non quello generico di “albero”, quasi fosse l’albero primordiale, archetipico, uno dei primi alberi, venuto così alla buona, ancora da locupletare dalla selezione naturale, al quale si dette il nome che li comprendeva tutti, gli alberi, quando si cominciò a elencarli e attribuirgli i nomi: Semplicemente albero, forse per la sua condizione ubiquitaria, per il suo rapido accrescimento, la facile riproducibilità, la facile dominazione, con ferri grossolani. La sua vacanza, da questa foto, e da quei tempi, oltre che da questo uso da falegnameria, deve ritenersi anche legato alle qualità prestevoli, della sua pasta, con tenero cuore, pronto alla infiammazione, e al facile uso per catechizzare e mitigare il duro cuore del-le interminabili invernate, quando il freddo, non era remunerata invenzione giornalistica. Se monumento deve “inalberarsi” a tale essenza vegetale, non manchi alla sua magnificazione, la considerazione riguardo le sue tenere carni cellulosiche, che ha permesso l’invenzione della carta, a cui l’uomo ha affidato pletore di neumi fabulativi, della sua  narrazione storica e let-teraria e, quando ciò accadde, non è narrabile l’immenso sollievo che ebbero le pecore, che non dovettero più subire dolorosi spellamenti, ed essere denudate, per fornire carta pecora, per l’autocompiacente vizio dell’uomo, a perpetrare e sancire, per iscritto, il potere e il dominio degli uomini sugli uomini. Il tunnel, nella foto ha la nobile forma primigenia e consistenza calcarea di roccia, purtroppo ora ignobilmente alterata, sia nella forma che nella cementifica-zione, perché il politico di turno, che non conosce le vene delle ruditi sieniti e lutiti, la scala di durezza di mohs e forse non sa ancora soppesare il peso del risentimento di chi conosce il valore delle cose, si sentisse orgoglioso di avere appeso il suo nome alla storia. Con tutte le debite relatività occorrenti, ogni misero, anche se ha trovato aperta qualche porta della storia, sempre misero resta e prova di miseria ha dato.
 

Giacomo Sansoni
 



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