"L'Aquila prima, durante e dopo"

Cari assergesi nel mondo, vi riportiamo un articolo di Emanuela Medoro che come sapete è di origine assergese,  è la promotrice della realizzazione del "Museo dell'emigrante".

(nella foto Emanuela Medoro nella casa di Assergi)

L'inizio fu al mese di gennaio, quando si incominciò a parlare di scosse  di terremoto, un genere particolare detto sciame sismico,  scossette ripetute, continue, ma non sempre avvertite o  avvertibili dalla popolazione, specialmente se avevano luogo durante il giorno, quando ci si trova all'aperto. Quelle non le avvertii mai, con la grande consolazione di riuscire ad evitare degli spaventi che  accelerano il battito cardiaco. Lo sciame sismico mi sembrò un fatto insolito, espressi a qualcuno i miei timori, e fui caldamente rassicurata, perchè sì, il terremoto deve esserci, L'Aquila è notoriamente zona sismica, si scarica l'energia accumulata chissà dove, meglio che ciò avvenga piano piano. Non ero affatto convinta della spiegazione, consideravo questo sciame come l'inizio di un fatto serio, ma la presi per buona, il pensiero di una catastrofe imminente che si realizzerà in data ed ora  ignoti, non è buona compagnia per vivere.

Poi ci fu la scossa del 30 marzo, verso le 4 del pomeriggio. Quella sì che fu avvertita da tutti, e fu preceduta da un boato che non avevo mai sentito, nuovo ai miei sensi, eppure di terremoti ne avevo vissuti parecchi.  Con l'udito, i nervi e tutta me stessa avvertii una specie di esplosione sotterranea, un buuum!, sordo e diffuso, poi il tremore che scosse mura e mobilia, fece tintinnare armadi ed aprire sportelli.Qualcuno disse che si era trattato di un'esplosione di gas, solo chiacchiere da strada, però confermarono la mia percezione di quel suono. Da quel momento cominciai a pensare agli ultimi giorni di Pompei, prima tanti terremoti, poi esplosioni, ed infine l'apocalisse di quelle popolazioni, costruzioni e cultura. Fui turbata parecchio da questo pensiero, incominciarono brutti sogni in cui mi vedevo in luoghi ignoti circondata da facce ignote. I risvegli del mattino in quella settimana erano l'inizio di un giorno in cui mi auguravo soltanto che tutto andasse bene, vivevo come un'automa, succube  di oscure impressioni che non potevano diventare pensieri chiari e distinti. Usando la Ragione e la cultura scientifica, quella diffusa e condivisa, come potevo credere che qualcosa di orribile era veramente imminente? Apparentemente tutto si svolgeva come prima, però i giornali cominciarono a scrivere di terremoti, qualcuno cominciò a prevedere scosse disastrose a tempi brevi e fu tacitato con minacce serie, per aver turbato l'ordine e la pace della gente. Passai allegramente il weekend di quella settimana in pieno centro città, nella distribuzione e vendita delle pizze di Pasqua della C.R.I. E la domenica mi detti un appuntamento con  un'altra volontaria per l'indomani mattina, quando saremmo dovute andare a venderne ancora vicino al Palazzo delle Regione, nella zona di  Pettino.

Venne la scossa delle undici in quella nottata del 5 aprile, mi ero appena messa a letto quando la avvertii, mi alzai e siccome vivo sola andai a bussare alle porte dei mei vicini al secondo piano, perchè pensavo di scendere ed andare a dormire fuori con loro, avrei voluto compagnia, avevo paura di andare fuori di notte da sola. Fui rassicurata e calmata dalla paura, e tornammo  tutti a dormire nei nostri letti. Lasciai accesa la luce della cucina, non si sa mai, meglio vederci un po'. E mi addormentai. Fino al risveglio nel sussulto impazzito di tutte le cose, nel rumore assordante che penetrò nel corpo e nella mente, e vi rimarrà a lungo. Era buio, persi l'orientamento nella mia camera, andai verso l'armadio per prendere un cappotto, sbagliai direzione, percepivo con le mani tessuti leggeri mentre  volevo roba pesante, seguitavo a tastare a vuoto nel buio, non trovavo quello cui avevo bisogno. In piedi, quasi priva di sensi, subivo la scossa più violenta. Poi ci fu luce, all'improvviso, non ricordo come, e vidi tutta  la roba dell'armadio per terra,  presi la prima cosa che mi venne in mano,  un impermeabile. Presi la chiave di casa, ed attraversai il soggiorno, libri a terra, oggettini di percellana, stupidini ed amatissimi, in frantumi sul pavimento. Afferrai due   portafotografie  con le foto dei miei figli, ed uscii sul pianerottolo, scesi le scale, e vidi che il portone d'ingresso non si poteva aprire con la chiave. Si era incastrato tutto, qualcuno stava tentando di rompere le vetrate infrangibili. Veramente infrangibili, per aprire un varco ci volle tanto tempo, e finalmente uscimmo carponi, badando di non ferirci con i vetri in frantumi. Trovai rifugio in una delle macchine dei vicini, parcheggiata su un prato poco più su di casa mia, e lì aspettammo che si facesse giorno. E fu l'inizio dell'odissea del poi. Cominciarono ad arrivare notizie frammentarie, qualche telefonata  comunicò che anche a Pescara stavano tutti fuori ad aspettare che uscisse il sole. Quando si fece giorno, con le facce spettrali per la luce grigia dell'alba ed il terrore negli occhi, cominciammo a sentire notiziari radio.

Fu comunicata l'intensità della scossa, 5.8 della scala Richter. E si incominciò a parlare di morti, di crolli, di centro storico dissolto in macerie. Uscì il sole, ed intorno a me, nella zona Torrione vicina alla caserma dei Vigili Urbani sembrava tutto a posto, impossibile credere che poco più in là ci fossero macerie, morte e distruzione. Dopo una provvidenziale tazzina di caffè offerta da una vicina di casa operosa e generosa, mi ricordai dei farmaci che mi sono necessari e che erano restati a casa.Tornai a casa, e aiutata da un vicino, rientrai nel mio appartamento. In quel momento non mi resi conto del fatto che sarebbero passati parecchi giorni prima di entrarci di nuovo, e presi solo ciò di cui avevo bisogno immediato: i farmaci, un paio di pullover, un cappotto, le chiavi della macchina, il telefonino con il cavetto della ricarica elettrica, le agendine con i numeri telefonici, e altre foto dei miei figli. Le chiavi della macchina furono la mia salvezza, la mia 600 FIAT è stata casa e rifugio per due giorni e due notti ancora, all'aperto. Una su un prato in mezzo a sconosciuti, un'altra accanto alla Casa Madre dell' Istituto della Dottrina Cristiana. Sono stati  giorni in cui lentamente  ho preso coscienza della gravità della situazione, con il suono continuo di sirene di ambulanze, mezzi dei vigili del fuoco, motori di elicotteri e camion che portavano soccorsi, strade in entrata verso L'Aquila bloccate, gente in fuga verso destinazioni più sicure con macchine cariche di bagagli. Ma non potevo credere che i fabbricati che hanno segnato con la loro solida presenza il mio quotidiano, non esistevano più, semplicemente. L'ho capito non quando l'ho sentito raccontare da persone o alla radio, ma quando ho incominciato a vedere le immagini in TV.  Cosa tristissima,  che mi annienta: il numero dei morti cresceva di ora in ora. Qualcuno ha scritto su un giornale nazionale che la città dell'Aquila è diventata la Pompei della montagna. Ma che fine faranno le macerie della città? Ho visto un camion carico di macerie partire veloce per una destinazione ignota, ho pensato che quella non è roba da discarica, è roba da usare per costruire la memoria di chi verrà dopo di noi. Materiale di ieri,  una mistura di frammenti di mattoni, calce, sabbia, ferro, cemento, vetri, cristalli, carta, mobili, fotografie, suppellettili, plastica e legno, puzzle di ricordi e vissuto di una città intera che non sarà mai più la stessa, materiale unico e speciale  per segnare la storia di domani. Propongo di farne l'uso più appropriato: costruire con questo materiale un monumento a memoria dell'avvenimento, su cui conservare, incisi nella pietra, i nomi dei deceduti del terremoto del 6 aprile 2009, ore 3.32.



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