Racconti fantastici dal cratere aquilano PAESAGGI - Il mare sulle porte di Roio...

- di Luigi Fiammata - La nebbia di marzo era appoggiata sul mattino. Grigia, di cristalli ghiacciati, in basso, vicino ai piedi, e, via via più luminosa mentre s’avvicinava al cielo. Quasi gialla, del sole che aspettava il vento. L’acqua del mare sembrava quasi sudare vapore nell’aria, mentre, leggermente, continuava a portare sabbia sulla riva. Sul prato verde, che, prima del terremoto, era ai piedi di Monte Luco.
 
Col sisma del sei aprile, il mare, dal Tirreno napoletano, s’era scavato un lunghissimo fiordo, fino a portare sale ed alghe, sulle porte di Santa Rufina e di Poggio di Roio. Negli ultimi anni, iniziava a formarsi una spiaggia, placida quasi come un lago; era raro, infatti,  che arrivasse un vento di maestrale a sollevare onde alte, dall’isola di Capri, fino alle vecchia via Mariana, trasformata ormai in un belvedere che si arrotolava sul ciglio del golfo aperto nella piana.
 
E, un po’ ovunque, quasi in cerchio, tenendosi le colline alle spalle, e il mare davanti, erano sorte palafitte di legno, alte, con i pali di fondazione confitti nel mare. Erano piccole casette, che servivano ad accogliere i bagnanti d’estate. Per indossare i costumi da bagno senza essere visti, o conservare all’ombra, l’acqua e il cibo.  Alcune delle palafitte erano tra lorocollegate con ponticelli di legno, sui quali ci si poteva stendere a prendere il sole, o sedere per chiacchierare, tra famiglie diverse.
 
Già s’erano attaccati i molluschi, sui pali, in acqua. E fili d’alga verde leggera, viscida al tatto, si arrampicavano verso l’alto, segnando, con la loro presenza sul legno, il mutare di livello delle maree. Era freddissimo, il mattino di marzo.
 
Guardando dal mare verso il Gran Sasso, si scorgevano le montagne colme di neve, le cime ancora nascoste dalla nebbia, stanca sulle rocce. Incerta se trasformarsi in nuvola bianca, compatta. Il cielo era  blu come occhi profondi dei pensieri di donna, scintillante di sole e gelo; aspettava ore più calde per farsi vedere. I rami degli alberi, ancora secchi d’inverno, tesi in alto, come a pregare  luce.
 
Lucia si avvicinava all’acqua, camminando cauta, con il suo secchio vuoto in mano. Portava ai piedi vecchi stivali di plastica lucida. E cercava di non bagnarli, nell’acqua salata. Si fermava, sul confine arcuato delle onde inghiottite dalla terra e si sporgeva, col bordo del secchio poggiato a terra, aspettando che l’acqua, con la risacca, entrasse dentro da sola. Attenta a non farsi toccare dal mare. Neanche una goccia.
 
Poi si rialzava, e camminava fino all’asfalto della strada che andava verso Genzano di Sassa, e lì svuotava il secchio. Doveva asciugare il mare, Lucia. Far ritornare i fienili e la stalla ormai sommersi. I ciuffi di cardo spinoso, le cicorie selvatiche, e gli olaci, a secondo delle stagioni. Tutto sepolto sotto le onde di un mare salato ed estraneo. Ma si poteva svuotare, il mare.
 
Lucia non prendeva il sole, d’estate. E non faceva il bagno, perché non aveva mai imparato a nuotare. Lucia voleva tornare a camminare nella piana, immaginando di poter volare sulla cima del monte, svalicare, e arrivare a Lucoli. Lucia ogni giorno, per qualche ora al mattino, svuotava il mare. E, certi giorni, le sembrava di vedere che la spiaggia si fosse ristretta; che tornasse indietro. Le sembrava di vedere qualche germoglio d’erba verde, nella terra insabbiata. Dove la terra ancora rossa contendeva spazio alla sabbia.
 
Restava in silenzio, Lucia. Restava sempre in silenzio, Lucia. Mentre svuotava il mare. Per conservare il fiato, andando avanti, e poi indietro, e poi ancora avanti, e indietro, sino a perdere il conto dei passi. Ma sicura che l’acqua diminuisse.
 
In paese, dopo i primi mesi in cui qualcuno aveva provato a spiegarle che non sarebbe mai riuscita a svuotare il mare, l’avevano lasciata fare. Qualche volta, soprattutto d’estate, quando non c’era scuola, qualche bambino la inseguiva strillando, facendo il tifo per lei, incitandola. E Lucia sorrideva, consapevole che il futuro del mondo desiderasse riavere i suoi pascoli, li, e non le onde azzurre del mare, nato lontano, e arrivato vicino. In quei momenti, riusciva a sentirsi addosso ancora l’odore di pecora e fieno caldo, come da bambina.
 
Quel mattino, Claudio scendeva in auto da Roio verso L’Aquila. Vide Lucia, col suo secchio in mano. E la seguì nello specchietto retrovisore, mentre s’allontanava. I capelli biondi che le ricadevano liberi sulle spalle. Se la lasciò dietro come una domanda senza risposta. Correva piano le curve che, dalla pineta, arrivavano fino al ponte dove c’era il vecchio stabilimento del ghiaccio, poi diventato consorzio agrario, e ora negozio di semi, piantine, attrezzi agricoli… emporio.
 
Fino ad arrivare alle mura della Rivera, puntellate. Come fossero appena passate sotto i bombardamenti dell’otto dicembre del 1943. Claudio parcheggiò la macchina nei pressi della stazione ferroviaria. E, di lì, iniziò a percorrere a piedi la strada in salita fino a via XX Settembre. Camminava guardando i propri passi. Lo sguardo a terra. Come se, solo l’asfalto, conservasse traccia dell’unico mondo che voleva ancora vedere. Arrivò infine al cantiere.
 
Del palazzo, era rimasto solo un quarto di parete, che si alzava per cinque piani. Come una fetta di panettone rimasta nel piatto, strappata da un coltello inesperto. Le stanze pendevano nel vuoto. Qualche scaffale sbilenco ancora attaccato alle pareti. Tubi di conduttura arrotolati nell’aria, vuoti, come braccia che cercano un appiglio, precipitando.
 
Tutto intorno, reti di plastica arancione e lastre di compensato, a chiudere ogni varco di ingresso. E, dentro al recinto, l’enorme braccio meccanico, che terminava con una chela di granchio. D’acciaio, lucido d’attrito e d’uso. Aveva già iniziato, dall’alto, il suo lavoro, la pinza che s’apriva e chiudeva, torcendo le finestre affacciate sul nulla. Spaccando i travi di cemento, crepati dall’onda del sisma. Riducendo in polvere intonaci e porte, ormai di legno morto, per il succedersi di neve, pioggia, sole, di questi anni, da allora.
 
Claudio guardava il cielo farsi spazio, dietro il palazzo che crollava, pezzo dopo pezzo. Mormorava tra sé, Claudio.
-    Dov’era com’era. Dov’era com’era. Dov’era
com’era. Dov’era com’era. Dov’era com’era. –
 
Ad ogni pietra caduta a terra. Ad ogni mattone raccolto dalla ruspa e buttato nel cassone del camion in attesa. Ad ogni getto d’acqua per soffocare la polvere. Ad ogni schianto di soffitti inghiottiti.
 
-    Dov’era com’era. Dov’era com’era. Dov’era
com’era. Dov’era com’era. Dov’era com’era. –
 
Ma Ana Iulia, non c’era più in quel palazzo. Era scomparsa anche lei, tra le stanze di quel palazzo. Era volata via col vento notturno. Lei, non era più, dove era, e non sarebbe stata più, come era.  Anche se, per Claudio, lei era lì. Lei era dove doveva essere ancora, ed era ancora come lui la ricordava.
 
Claudio stringeva tra le dita, in tasca,  il pennarello nero che si era portato da casa. Avrebbe voluto dare un numero ad ogni singolo mattone. Per poter ricostruire tutto, lì. Dov’era e come era. Per poter ritrovare, anche il profumo, di quel palazzo, e i suoi angoli, e il glicine che d’estate ne colorava le pareti interne. E invece s’accorgeva, guardando, che i mattoni diventavano polvere, che non avrebbe potuto numerare mai, con nessun pennarello i frammenti di pietra diventati coriandoli senza festa.
 
Improvvisamente, allora, sentì addosso tutta la fatica dei muscoli. La tensione del tempo mai sciolto. Il dolore dei tendini troppo tesi. Nelle tempie, avvertiva, dopo tanto tempo, il cuore battere forte. Un ritmo potente, di fiume in piena. E le orecchie soffiavano un vento più alto, del rumore dei motori, del puzzo di gas di scarico, delle pareti spezzate nello schianto con la terra.
 
 Distolse lo sguardo, Claudio. Prese il pennarello nero dalla tasca, lo guardò, un istante, e lo gettò via a terra, vicino ad uno scolo fognario. Voltò le spalle al palazzo. E tornò indietro, verso l’auto. Lo stomaco e i polmoni svuotati. Come quando il sangue salga tutto al cervello, alla testa, e inondi i pensieri. Di rosso. Di equilibrio caduto. Tornò verso Roio, Claudio.
 
E, sulla strada rivide Lucia, che, ancora, svuotava acqua di mare. Allora, si fermò e lasciò l’auto sul bordo della carreggiata. Le chiavi ancora infilate sotto il volante, e lo sportello semiaperto.  Scese, e si diresse verso di lei. Le prese delicatamente il braccio, mentre stava voltandosi per tornare al mare. E la guardò negli occhi, mentre lei, istintivamente li abbassava. Una pressione della mano, leggermente più forte sul braccio, le fece rialzare lo sguardo. Claudio lasciò la presa. E, delicatamente, asciugò con le dita, quell’unica lacrima rimasta ferma negli occhi di Lucia. Come una ruggine antica.
 
Lucia fece un grande respiro, come se l’aria fosse diventata improvvisamente più dolce e indispensabile. Come se si fosse aperta una finestra dentro una stanza sempre buia e chiusa, in attesa di ospiti che mai sarebbero arrivati. Non disse nulla Claudio. E neanche Lucia, rispose nulla.
 
Claudio la prese per mano. Guardando verso il prossimo tramonto, iniziarono a camminare, mano nella mano. In silenzio. Con la mano libera, ciascuno, scuoteva la polvere rimasta sui propri abiti. Mentre i passi diventavano via via più vigorosi e sicuri, quasi una danza saltellante, verso l’orizzonte. Sulla strada, il vecchio manifesto di un circo, si gonfiava col vento, scivolando via, come a chiudere il sipario.






 



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