Domani al Gran Sasso Science Institute: “L'orizzonte degli eventi” di Daniele Vicari

Nella sala rossa del Gran Sasso science institute continua la rassegna “La vie Lumière”. Il prossimo appuntamento per la rassegna è per mercoledì 1 aprile, ore 20.30 con: “L'orizzonte degli eventi” di Daniele Vicari (Italia, 2005) 115’ Interventi: Stefano Ragazzi (direttore LNGS), Daniele Vicari (regista). Il film è stato girato sul Gran Sasso e nei Laboratori Nazionali del Gran Sasso.

l film racconta di due mondi, diversi e paralleli, che convivono nello stesso territorio: il Gran Sasso d'Italia. Il contatto tra le due realtà avviene attraverso i personaggi di Max (Mastandrea), ricercatore di fisica nucleare che lavora senza sosta nel laboratorio situato nel ventre della montagna, e del pastore Bajram (Lulzim Zeqja). Di fatto il pastore cammina sulla testa del fisico ma nessuno dei due lo sa. Dentro il laboratorio si sviluppa il mestiere più avanzato dell'umanità, sopra la montagna invece ci sono gli immigrati poveri che fanno il lavoro più antico del mondo. IL Gran sasso è, secondo il regista, l'immagine sintetica della globalizzazione.

Max, fisico nucleare, lavora ad un importante esperimento chiamato Helios nel laboratorio di fisica situato dentro il Gran Sasso: all’improvviso ne viene nominato responsabile dal suo professore. L’uomo ha una relazione con la scienziata francese Anais che non esita a metterlo con le spalle al muro: si è accorta che Max ha falsificato i risultati dell'esperimento. In preda al terrore di essere svergognato pubblicamente, Max ha un incidente e si ritrova catapultato sulla montagna al cui interno si sta svolgendo l’esperimento: in superficie solo rocce e pecore. E’ la mandria di Bajram, un giovane pastore macedone, vittima del racket albanese.

Il bel controverso ritratto di ricercatore, che nel film ha il volto spiritualmente affusolato di Valerio Mastandrea, continua a riportare a galla frammenti di visione del film. Sono grappoli di immagini potenti e arcane. Forse dipende dal fatto che la macchina da presa di Daniele Vicari si esibisce spesso in movimenti non giustificati dal contesto narrativo, ponendosi come presenza spettrale, come quando indugia sul corpo seminudo della scienziata Anais. La regia dilata spazio e tempo dell’azione anche con false soggettive del protagonista, Max, che invece rivelano la presenza perentoria dello stile vigoroso di Vicari, distogliendo e distaccando lo spettatore dall’ipnosi della visione. C’è una dichiarata ascendenza antonioniana in questo film.

 

Valerio Mastandrea e Gwenaelle Simon
Valerio Mastandrea e Gwenaelle Simon

 

Tornano prepotenti le immagini della seconda parte, girata sulle cime del Gran Sasso, terra desolata presidiata dagli albanesi, in cui si avverte un’eco dei pensieri inespressi del protagonista. Quando si posa sugli orizzonti disabitati della montagna, lo sguardo di Vicari comincia a volare alto per tentare di tradurre in immagini l’affanno della mente. Fuori dal laboratorio e dalle truffe del sapere, il fisico continua a cercare il senso smarrito della propria esistenza nel mistero dei fenomeni naturali (il dolore fisico, la notte e il giorno, la scoperta di una sorgente, il temporale). Ma anche da quella nuova prospettiva presumibilmente non continua a vedere altro che neutrini in movimento nell’acqua cristallina. Non riesce a uscire dal suo isolamento.

Quando alla fine del film Vicari abbandona il personaggio dentro una storia che continua a scriversi ma che noi non vediamo, chi è – ci si chiede – quest’uomo intento a interrogare l’universo e al tempo stesso incapace di dare un disegno coerente alla propria esistenza? 

 

Valerio Mastandrea e Lulzim Zeqja
Valerio Mastandrea e Lulzim Zeqja


Altezzoso, scontroso e sopraffatto dal riserbo, Mastandrea carica Max di una forza magnetica profondamente interiorizzata, come se recitasse un sottotesto di cui il testo è andato perduto: ne è rimasta solo un’eco, un’emozione profonda. L’unico gesto veramente violento, in questo film dalla forza trattenuta, coincide con un momento costruito ad arte, una lampada spaventosamente rovesciata nel mezzo del diverbio cruciale. Mastandrea sceglie con massima oculatezza il momento propizio per liberare la tensione accumulata, e così procede all’unisono con le improvvise fughe ottiche di Vicari, come in una complessa partitura più mani. Quando cammina sul Gran Sasso incerto sulle gambe, indossando le scarpe scomode di un morto, sembra ricreare un tempo astratto di guerra, fra la No Man’s Land dei balcani e la Grande Guerra di quando il cinema italiano ai suoi personaggi tragicomici sapeva ancora conferire una statura eroica. Mastandrea e Vicari disegnano invece un uomo estenuato, prosciugato eppure tracotante: sul piano umano il pastore extracomunitario, perseguitato dalla ferinità brutale del clan albanese, si rivela più generoso di lui.

Francesca Inaudi
Francesca Inaudi


Nell’orizzonte di Vicari appaiono eventi cupi, come il rumore di fondo che muove dalle viscere della terra per diffondersi e straripare in correnti di sonorità ossessive, ma anche frammenti di bellezza, come la grandiosa visione dall’interno della sfera Helios inondata di luce. Il laboratorio ricreato negli studi di Papigno è un autentico mostro: l’inconoscibile non è più l’evento impossibile da misurare ma semplicemente l’evento che non si verifica. E’ un nulla che si vuol rendere significativo e di cui invece sfugge il senso. Anche il vecchio professore possiede un sapere difettoso, non conosceva davvero l’allievo prediletto a cui ha affidato l’esperimento  - avrebbe dovuto lasciarlo condurre dalla scienziata francese, altro volto della globalizzazione speculare a quello del pastore: una donna fiera e autentica. Dietro la porta che si chiude, e da cui la cinepresa si allontana, è implicita la sua rivincita.



Condividi

    



Commenta L'Articolo