Ju calenne, la magia di un rito antico

- di Vincenzo Battista* - Ju calenne di Tornimparte, la magia della notte e soprattutto il suo rito segreto. Un appuntamento eversivo, sedizioso, contro natura, potrebbe apparire così, ma proveremo a scoprirlo, decodificarlo, mentre si consuma nella notte enigmatica del 30 aprile, che avvolge l’oscurità e l’anonimato degli uomini “trasformati” al chiarore della luna. Complice sempre la notte, appunto, di uno stallo temporale dove tutto si ferma, uno standby, voluto dai censori del “sacrificio del bosco”, che cercano, si muovono come ombre, bisbigliano e si scambiano silenziosi cenni, oramai divenuti codici. La “natura di maggio”. E’ in questa che loro si recano, furtivi, vi entrano per poche ore, appena trascorsa la mezzanotte, dissimulando i comportamenti, si danno convegno per il rituale magico in quella natura che, nel suo ciclo, porta a compimento, in questo periodo dell’anno, il suo massimo appuntamento di risveglio, di fioritura e di rinnovamento, con tutti i suoi significati e simboli rivelatori: dall’antichità classica ( i giorni di maggio di Cibele, venerata come Grande Madre) alla religione cristiana ( la Madonna del Canneto di Avezzano), ricordava l’antropologo Alfonso Di Nola. Ma così non sarà. Quella natura matrigna da secoli ha “nutrito”, con uno stretto legame, indissolubile, la comunità locale di Tornimparte ( carbonai, tagliatori di legna, artigiani del legno e pastori con gli oggetti d’uso ricavati dai faggi, un tempo), è stata custodita gelosamente nei boschi che avvolgono le diciotto frazioni. Quella natura matrigna ha bisogno, adesso, di un suo scalpo, “spezzata”, deve essere “incisa” di un segno desueto, distintivo, in una necessità quasi ancestrale di un lontano passato dalle esigue tracce storiche: il taglio di un albero, il più bello (abortito nella sua inflorescenza); il più alto (spezzato e diventato altro); il più rigoglioso(destrutturato dalle sue funzioni), che possa sorprendere, meravigliare, stupire e, lo vedremo, molte ore dopo, alle prime luci del 1° maggio. Ma viene prima la notte di sudore, di fatiche e di imprecazioni per l’albero che verrà potato , sfrondato dalle chiome, portato a spalla, attraverserà il bosco e il retaggio culturale del suo ordine primigenio, legato alla tradizione popolare delle fiabe e delle storie mitiche; diverrà irriconoscibile, l’albero, con un laconico ciuffo di foglie all’estremità, quasi a “tracciare” la sua provenienza, come un totem, non steli di pietre che guardano la calotta stellare della necropoli di Fossa ( IX sec. a. C – I sec. d. C.) , ma un lungo palo di legno piantumato artificialmente in un foro, davanti al sagrato della chiesa di San Panfilo di Villagrande, prima che faccia luce. Resterà lì, ju calenne, la sfida decretata, per molti giorni, davanti all’edificio religioso espropriato, per un periodo dell’anno, dei suoi significati liturgici, declinati a favore di una “divinità” partorita dalla notte e fatta di irruenza, ma convivente con qualcosa che, pur non appartenendo al luogo di culto cristiano, è lì, accettata, quasi a sancire, nella diversità, due “religioni” che si incontrano, coabitano, vengono rese parallele. Poi lentamente, la gente, la comunità, si raccoglierà intorno al calenne, lo guarderà, muto simulacro, insieme al proprietario del prezioso albero tagliato, di cui, forse, non conosceremo mai il nome: lui accetterà il verdetto, così è da sempre. Il mito ha attraversato il tempo, stupirà ancora nella sua semplicità e nel suo rigore, in quella allegoria dalla scenica rappresentazione, chiusa dentro la comunità locale, continuerà a sorprendere, a tramandarsi, inarrestabile, nel corso dei decenni passati, divenuto oggi appuntamento calendariale: un “originale” protetto dalle contaminazioni esterne, un protocollo di antropologia culturale che arriva a noi direttamente dal ventre della terra.” Il prima e il dopo” è sancito dal calenne. Il passaggio. L’investitura. Una nuova stagione a cui affacciarsi. Propiziatoria, forse, lettura di un archetipo che scandisce il tempo che verrà e proietta su Tornimparte presentimenti, simbolismi di un mondo altro, reso immateriale dall’ epistolario collettivo, la fonte orale, tramandata di generazione in generazione, divenuta Bene culturale tracciato, però, nella sua “natura morta” ( ritrarre in pittura oggetti inanimati) , difeso in un telaio celebrativo che, nella Conca aquilana, potrebbe aggregare, in un” Expo” permanente, genti, forme rituali di altri borghi, riunite, ma, in modo diverso da come siamo stati abituati a pensare. Ci vorrà, forse, ancora tempo per far emergere i Patrimoni dalle sagre onnipresenti, per “liberare” i Giacimenti culturali, le forme della memoria e le dinamiche identitarie, spesso blandite, che abbiamo scaraventato lontano, ma che danno sostanza, profilo, valore paesaggistico e, perché no, anche leggenda, a questa parte dell’ Appennino interno, per ripartire, dinanzi al depauperamento del territorio causato dal sisma. Forse, provocatoriamente, abbiamo bisogno di un nuovo Federico II, per riunire ancora una volta il nostro passato dalle tante brillanti sfaccettature e superare, infine, il localismo di “ville e i castelli”. *docente e scrittore
 



Condividi

    



Commenta L'Articolo