la memoria - Il mondo dell’irrigazione

 

 

 

Il vecchio non ancora vecchio (allora alle soglie dei sessanta si era vecchi) era chino sulla sua zappa. A petto nudo nello splendido orto verdeggiante di fresco la mattina del 10 giugno, festa di San Massimo, patrono della città. “Vuoi venire con me a fare la guardia quest’estate?” “Ingegne’ aspetta, fammi finire di “riare” (irrigare n.d.a.). Poi ci facciamo un bicchiere e ne parliamo” L’ingegnere, che poi era geometra (ma allora nelle campagne suonava male dire “geo!”) aveva il compito di assicurare l’irrigazione dei campi dell’arsa valle estiva, dove la poca acqua del fiume non bastava per tutti. Si dovevano “mettere i turni” per l’irrigazione: prima un campo poi l’altro. Se ti “fregavano” l’acqua, nel senso che qualcuno faceva il furbo e la sera “ti sturava l’abbotto” (lo sbarramento nel canale per creare il rigurgito sul prato a lato) passavi il turno e l’orto si seccava. Così ci volevano “le guardie”, vale a dire i “guardiani dell’acqua”, a volte guardie giurate vere e proprie con tesserino rilasciato dal Prefetto, che potevano anche “fare le contravvenzioni” a chi non si atteneva “al manifesto” delle colture irrigue. E “l’ingegnere”, che dalla campagna veniva e la conosceva bene, le “guardie” le sceglieva tra i contadini migliori, perché potessero capire quelli con cui avevano a che fare. Stava ben attento a che una volta “messo il cappello in testa”, non se la montassero la testa e si mettessero a fare i gradassi con coloro cui fino ad allora erano andati “alla cantina” (il bar dei paeselli) insieme. Quello con l’orto pulito e verdeggiante era uno di questi: onesto, bravo, ma non fesso. “Se provavi a fregarlo” con l’irrigazione ti sgamava. Così, appena “riato”, prese posto nel sedile anteriore di quella Renault sportiva guidata a mo’ di jeep per le strade polverose dei campi. “Ecco, vedi la situazione dei canali quest’anno? Quello non è stato ripulito; quell’altro ha ceduto nella sponda “sotto caprino”; l’altro là, guarda, non lo caricare troppo….”. L’ingegnere conosceva il territorio palmo a palmo: se c’era un buco nel canale “terziario” dietro le “svolte” lo sapeva. Dal sedile posteriore di quella Renault rombante sulle buche e pattinante sui prati un bambino osservava la scena. Non aveva paura quel bambino, che pur temeva financo i cani, delle bisce d’acqua che scivolavano sull’argine, infittito a selva, quasi ad ogni passo dell’ingegnere e della guardia. Non aveva avuto mai paura delle bisce. Ne avrebbe viste tante quella ed altre estati di moltissimi anni fa, di bisce. Era uno spaccato di un mondo: il mondo dell’irrigazione! Che non si sa se per male o per bene non esiste più. Come tante altre cose. (l’ingegnere di cui si parla nel testo è Carmine Centi, papà dell’autore, scomparso di recente ndr)

- Ugo Centi -

 



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