Mary, l’americana di Paganica e quel sogno chiamato Italia

di TIZIANA PASETTI - da Il Centro -  “Mia madre si chiamava Aurora. Mio padre Giovanni. Un giorno di quasi un secolo fa sono saliti su una grande nave. Insieme a loro c’erano i miei due fratelli, Eugenio e Matteo. Insieme a loro c’era una speranza. Partire, un sacrificio di dieci anni, non di più, e poi tornare a casa. I sogni aiutano ad andare avanti. Anche se conosci la verità, i sogni aiutano». Mary Petricca è nata il 12 agosto 1927 a Burgettstown, contea di Washington, mezz’ora di macchina da Pittsburgh, Pennsylvania. Uno degli Stati Uniti d’America, a nord-est. «Mamma e papà vivevano a Paganica, in Abruzzo. Mio padre era già stato qui, ma era tornato in Italia per sposare Aurora. Quando era partito la guerra, la prima, non era ancora scoppiata. Il precipitare degli eventi li ha trattenuti. Nella grande casa in pietra sono diventati marito e moglie e sono nati i miei due fratelli.

LA PARTENZA. Racconta mia madre che il giorno della partenza c’era il sole, ottobre non aveva ancora dimenticato che all’estate si può fare il verso anche in autunno. Sulla tavola di legno era stata stesa la grande tovaglia di lino bianca, quella delle grandi occasioni, del Natale, della Pasqua, del giorno del santo protettore. C’era il pane, c’era il vino, c’erano le ferratelle. Il latte. La ricotta. C’erano troppo mani che tremavano e che tradivano i sorrisi di circostanza e raccontavano lacrime trattenute. Quell’ultima mattina mia madre si era svegliata molto presto, era uscita di casa senza fare rumore. Ogni sguardo, una fotografia. E una corsa verso il santuario della Madonna d’Appari, a pregare per il lungo viaggio e per tutto quello che stava lasciando».

L’ARRIVO. Sono arrivata a Burgettstown una sera di settembre. Il mio, di viaggio, non è durato venti giorni come quello di Aurora e Giovanni. Non ho dovuto mostrare mani e denti a Ellis Island, non ho dovuto tossire e neanche tirare fuori la lingua. Non ho dovuto abbassare gli occhi, non mi hanno frugato tra i capelli alla ricerca di pidocchi e non sono stata trattata come un topo. È bastato alzare le braccia, guardare dritto in una telecamera, lasciare le impronte digitali. «Benvenuta, bella italiana», mi ha detto il ragazzo ispanico strizzando l’occhio. Sono un’ospite gradita, oggi. Vengo da un Paese che non ha più fame anche se in molti hanno cominciato ad andare via, di nuovo.

L’AMERICA DI PROVINCIA. L’America, quella che non è Los Angeles o New York, quella che si allontana di un passo dalla città, è buia e silenziosa. Le strade immense illuminate di rado. E dove c’è una luce, c’è una bandiera a stelle e strisce. Non ci sono recinzioni e non ci sono cancelli a delimitare la proprietà. C’è una casa, migliaia di case sparse, il verde intorno. Miglia e miglia, atomi, verde, daini e cerbiatti che attraversano la strada, marmotte, un essere umano no, mai. Solo macchine e camion, solo qualche piccolo bar ristorante cristallizzato in un quadro di Edward Hopper. La grande solitudine di un continente infinito. Ma la bandiera è illuminata e, mossa dal vento, accarezza il cielo. La grande promessa è scritta: Life, liberty and the pursuit of happiness. Vita, libertà e la ricerca della felicità, diritti inalienabili della Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti. L’OGGI. Mary ha 88 anni e una mente sveglia, reattiva. È rimasta vedova due anni fa, dopo 65 anni di matrimonio con Lloyd, sangue irlandese e «un amore che continuerà altrove, lo so». La vita non l’ha risparmiata, sono passati quattordici anni ma sembra ieri «il giorno in cui vennero delle amiche a bussare. Correte, ci dissero. Gary, nostro figlio. Morto con un infarto secco a poco più di 40 anni. Anche in quegli anni tremendi, di dolore sordo e impossibile da digerire, il ricordo degli insegnamenti dei miei genitori è stato un faro. Il ricordo di tutto il fiele che hanno ingoiato. Del sorriso che a tavola non mancava mai, per me e per i miei fratelli». Il suo italiano è il dialetto della valle che i suoi genitori hanno portato via con loro, quella mattina di sole, insieme ad un piccolo baule: dentro, tre rosari, un libro, una sciarpa di lana, una bustina di canfora, due pezze da cucina filate a mano e un piccolo asciugamano di lino con due lettere ricamate, due iniziali. «Raffaella era la sorella di mia madre, aveva il cuore che non andava. Morì poco dopo la partenza dei miei genitori. Questo suo dono è stato sempre accanto al letto di mamma, oggi è accanto al mio. Mamma diceva sempre che la famiglia resta unita anche se ti separa un Oceano. Lo diceva con le lacrime agli occhi e quelle corone del rosario strette tra le mani».

I RICORDI. Aurora aveva 40 anni quando si accorse di aspettare Mary. Era convinta si trattasse della menopausa. Oppure dello sfinimento. L’America era stata possibilità di vita ma ogni giorno cominciava e finiva con una fatica disumana, Giovanni in miniera e lei a lavare e cucinare per i minatori, a crescere i figli, a mungere le mucche. «Andarono da un medico, a Pittsburgh. Poi però si guardarono e accettarono il mio arrivo. Per quel pensiero mia madre mi ha chiesto scusa fino al giorno della sua morte. È stata bravissima, coraggiosa. Non ha mai dimenticato le sue radici ma ha curato questa terra come se fosse la sua. Ricordo quando in estate provava a descriverci la differenza di luce, la grandezza del sole, e come sbocciavano i fiori. Poi ci riuniva tutti in cucina e prendeva farina, uova e acqua. Impastava e cantava e raccontava.

L’INFANZIA. Le storie della sua infanzia, la magia della grande città, L’Aquila. Poi arrivava papà, nero di carbone dalla testa ai piedi, e la pasta veniva gettata in pentola. Lo sguardo che si scambiavano era sempre lo stesso. Assaggiavano la pasta, partiva una smorfia, è l’acqua. La colpa è dell’acqua, dicevano. Io e i miei fratelli non l’abbiamo mai capita, la differenza. Ma quando dopo cena papà ci faceva sedere accanto a lui e tirava fuori quel libro che si era portato, la grammatica italiana, insieme alle vocali, al suono diverso, alla scrittura, ai verbi, ci descriveva quest’acqua che scendeva da una grande montagna e che non aveva peso, che scorreva gelida e deliziosa. Le favole della nostra buonanotte avevano il suono dolce di questa lingua così pacata e nessun castello, nessuna principessa. Le favole della nostra buonanotte erano impasti di malinconia e nostalgia, erano un regno semplice e ideale, erano sussurri d’amore».

LA NUOVA TERRA. Quando Giovanni e Aurora arrivarono in America, quasi un secolo fa, trovarono ad attenderli una Terra da costruire, da fare. Non c’erano strade, non c’erano grandi macerie a raccontare fasti del passato. Non c’erano più mani amiche da stringere. Ci sono tramonti di fuoco, nel cielo immenso di Burgettstown. Tramonti sfacciati. «Mamma e papà uscivano fuori da quelle quattro assi con le quali era costruita la nostra prima casa e tenendosi per mano recitavano l’Angelus. Poi rientravano e si sedevano vicino al fuoco. Lì nominavano tutti, genitori, fratelli, tutti. Uno ad uno. Erano abbracci e nodi in gola. E mamma che sussurrava “Giovanni, Giovanni mio, ti ricordi i nostri tramonti rosa?”». Della famiglia di Aurora Rossi e Giovanni Petricca è rimasta solo Mary. Mary che tutte le mattine saluta la sua bandiera bianca rossa e blu e che poi rientra in casa. Mary che sogna un luogo lontano, che non ha mai visto, e un tramonto. Rosa.

 



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