Fine di un regime, Vespa racconta l'epilogo

Vittorio Emanuele III era riuscito a decidere l'arresto di Mussolini senza che i tedeschi ne sapessero niente. Hitler impazzì di rabbia e ordinò di liberare il Duce, che peraltro cambiò otto destinazioni (di cui due senza pernottamento) per sfuggire a ogni eventuale inseguimento.
Identificato l'ultimo luogo di detenzione, la missione decisiva fu affidata a uno straordinario maggiore dei paracadutisti, Harald Mors, anche se si attribuì la paternità dell'impresa a scopo propagandistico il capitano austriaco delle ss Otto Skorzeny. Quando videro gli alianti ondeggiare nel cielo sereno, gli agenti di custodia del Duce pensarono che fossero americani. Tuttavia, quando scoprirono che erano tedeschi non opposero resistenza. Mors si presentò a Mussolini, che gli disse: «Ero certo che il mio amico Hitler non mi avrebbe abbandonato», ma non siamo affatto sicuri che l'abbia detto con grande convinzione.
In realtà, potendo scegliere, Mussolini avrebbe forse preferito che le «cicogne» fossero americane. Sapeva bene che la guerra era perduta, e che la sua resistenza non avrebbe avuto un esito felice. Da quel momento, dopo una breve «visita» al Führer a Monaco, il Duce cambiò soltanto carceriere e fu spedito sul lago di Garda, a metà strada tra la Lombardia e il Veneto, per vendicare l'alleanza tradita da Vittorio Emanuele III con l'armistizio dell'8 settembre e, soprattutto, per nascondere dietro il paravento della Repubblica di Salò la brutalità dell'occupazione tedesca e rallentare per quanto possibile l'avanzata degli Alleati verso Nord.
In Germania il Duce aveva trovato, oltre a Rachele e ai figli, tre gerarchi che avevano sempre rappresentato l'ala più dura e filonazista del fascismo: Roberto Farinacci, Alessandro Pavolini e quel Giovanni Preziosi che fin dal 1920 era stato l'ideologo (allora quasi isolato) del razzismo italiano chiamando a collaborare, in forma anonima, alla rivista La vita italiana lo stesso Adolf Hitler. Si capiva, dunque, sotto quale marchio sarebbe nata la nuova Repubblica.
Nella politica economica, Mussolini cercò di tornare al primo fascismo d'ispirazione socialista, caratterizzato da una forte spinta verso il mondo del lavoro, che però non riuscì a scaldare un'opinione pubblica stremata dalla guerra e assai scettica sulla possibilità di riscossa. La resa dei conti interna al regime portò, nel gennaio 1944, al processo di Verona e all'esecuzione dei gerarchi che avevano contribuito alla caduta del regime. La vittima più illustre fu Galeazzo Ciano, il genero di Mussolini, condannato a morte come tutti gli altri (tranne Tullio Cianetti). Il Duce visse un dramma personale, stretto tra la moglie Rachele, che voleva la morte del genero («È Bruto che ha pugnalato Cesare»), e la figlia Edda, che voleva salvare la vita del marito e cercò di barattarla con la consegna ai tedeschi dei Diari. Ma Hitler non ne volle sapere. I condannati chiesero al Duce la grazia, ma lui negò di aver mai ricevuto la petizione.
PERSECUZIONI Salò è una vicenda complessa: soltanto negli ultimi vent'anni storici frettolosamente definiti «revisionisti» hanno cominciato ad analizzarne i chiaroscuri. Migliaia di giovani si arruolarono per non sentirsi corresponsabili del tradimento dell'alleanza con la Germania. Erano in buona fede e spesso andarono a cercare la «bella morte». Altri, richiamati alle armi, disertarono ingrossando le file dei partigiani. La persecuzione degli ebrei, prevista dallo statuto del nuovo Partito fascista, fu folle e spietata. Particolarmente spietata al Nord, sotto la guida di Preziosi, dopo l'8 settembre la caccia all'ebreo fu praticata in tutta Italia. Migliaia di innocenti vennero deportati nel campo di concentramento di Fossoli, in provincia di Modena, per poi essere trasferiti nei lager tedeschi.
Il 26 settembre 1943 il comandante delle SS di Roma, Herbert Kappler, disse ai dirigenti della comunità ebraica che, se volevano evitare la deportazione, dovevano consegnargli entro 36 ore 50 chili d'oro. Cominciò così una ricerca disperata, che ebbe buon esito. Ma il 16 ottobre i tedeschi circondarono ugualmente il ghetto ebraico della capitale e, in otto ore e mezzo, catturarono 1.007 persone, subito spedite nei campi di sterminio. Ne sopravvissero soltanto 16 (15 uomini e una donna). Complessivamente, in due anni gli ebrei romani deportati furono 2091. Le ultime ricerche di Valeria Galimi e colleghi Dalle leggi antiebraiche alla Shoah) parlano di 6.806 ebrei italiani deportati, ai quali ne andrebbero aggiunti un migliaio di cui non si conosce l'identità, e di soli 837 superstiti. Quasi 9 ebrei deportati su 10 furono uccisi.
Nel suo libro Le stragi nascoste, Mimmo Franzinelli afferma che nella Repubblica sociale il governo fascista non disponeva di un'effettiva sovranità sulle questioni fondamentali, e che la supremazia nazista si manifestò in piena autonomia. Ci furono tra gli stessi tedeschi comandanti umanamente più comprensivi e autentiche belve, come vedremo nel prossimo capitolo. La stessa cosa avvenne tra i fascisti. Ma alcune bande di camicie nere si distinsero per ferocia.
KOCH Nell'elenco degli spietati si è guadagnato un posto d'onore Pietro Koch: il ministro dell'Interno di Salò, Guido Buffarini Guidi, gli mise a disposizione somme enormi per arruolare informatori e sicari. La sua specialità erano le torture, che Koch trasformava in spettacoli per amici esaltati come gli attori Luisa Ferida e Osvaldo Valenti, fucilati il 30 aprile 1945 in corso Sempione a Milano (Koch lo sarebbe stato il 5 giugno a Roma.)
Un altro famigerato torturatore fascista fu Mario Carità, fanatico fiancheggiatore delle SS, che prima terrorizzò Firenze minacciando anche i fascisti meno sfegatati, poi salì tra Padova e Verona dove s'infiltrò tra i partigiani per reclutare nuove vittime. La sua disumanità lo indusse a coinvolgere nelle torture le due giovanissime figlie. Carità fu ucciso in Alto Adige. Mussolini, l'oggettivo responsabile di quanto accadeva, cercava di frenare i più sanguinari tra i suoi e di limitare per quanto possibile le stesse rappresaglie dei tedeschi. Dopo la strage di Marzabotto, di cui ci occuperemo nel prossimo capitolo, scrisse a Hitler che la ferocia di quel massacro gli impediva di denunciare quello compiuto dai sovietici a Katyn, dove furono uccisi migliaia di ufficiali polacchi.



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