IL FICCANASO, ALLA SCOPERTA DI CAMPANA FRAZIONE DI FAGNANO

 

 

 

 

 - dal sito del Comune di Fagnano - Dalla strada provinciale subequana, Campana si raggiunge imboccando il bivio presso Vallecupa; si scende nella conca, si supera il passaggio a livello e si attraversa un ponte.

Questo  risale all’epoca dell’imperatore Claudio il quale, oltre alle molteplici opere pubbliche, alle due vie insignite del suo nome, la Claudio Valeria e la Claudio Nova, volle aggiungere “niente meno che” 43 ponti sull’Aterno. Nell’angusta valle di Acciano, sebbene lunga soltanto 11 miglia, ne furono costruiti 12 e questo di Campana è il primo. Posto ai piedi di un ampio piano erboso, dolcemente inclinato, segna la fine della conca aquilana e fa da porta alla valle Subequana. In origine era composto da 4 arcate a tutto sesto e tre taglia acque;  era lungo 130 palmi e largo poco meno di 12 tra i parapetti laterali, dei quali, quello a monte, aveva le due estremità  spioventi ed alquanto ricurve per meglio ricevere la quantità di acqua che specie d’inverno sboccava. Nella parte sovrastante, a metà ponte, c’erano due edicole affrescate, coperte da un piccolo tetto, “a scampo di piogge e per devozione de’ fedeli.”

Fino alla metà dell’ottocento, a distanza di 18 secoli dalla costruzione, esso, come tutti gli altri ponti, mostrava ancora la sua stabilità. Gli antichi lo avevano costruito “ad perpetuitatem”, usando un doppio metodo: con una fluida calcina stringevano tenacemente migliaia e migliaia di sassolini tanto da costituire un solo masso impenetrabile all’acqua e non frantumabile se non con reiterati e violentissimi colpi; davano poi ai macigni di pietra varie ma regolari forme di cubo, parallelepipedo, pentagono, prisma, ancora visibili, che combinavano a secco senza nessun mezzo se non la connessione e ciò non permetteva ai massi di muoversi né di poter essere divelti.

La situazione attuale  del ponte è molto diversa, i cambiamenti sono notevoli !

Non abbiamo documenti attestanti le modifiche effettuate in epoca medievale e moderna, ma abbiamo precise notizie su particolari rimaneggiamenti che il ponte ha subito nell’agosto del 1869, nel luglio del 1879 e nel settembre del 1881. Alle 4 arcate a tutto sesto ne furono aggiunte altre due: una sull’argine di destra e un’altra su quello di sinistra di m.3,60 ciascuna;  la copertura del tetto fu allargata di 2 metri di larghezza e di 1 di altezza sia per il ricovero dei passeggeri sorpresi dalla pioggia  sia per facilitare il transito delle vetture cariche dei prodotti della campagna.

Nei tempi più vicini a noi del ponte è stata rimaneggiata, in particolare, la parte superiore: le edicole, con i relativi affreschi, sono stati ricoperti dal cemento; il tetto è stato abbattuto per dare la possibilità ad una trebbiatrice di transitare. Quanto alla pavimentazione sono stati utilizzati sampietrini sulla copertura esistente con il conseguente innalzamento del livello della strada ed abbassamento dei parapetti sui quali sono state poi poste delle moderne ringhiere di ferro!!

Attualmente il ponte ha perduto, in parte, la sua struttura originaria e la sua sobria bellezza. Di certo non era stato costruito per motivi estetici ma per scopi ben più seri e pratici: testimoniava il progetto di sviluppo della viabilità a cui Roma dette impulso per promuovere contatti economici e culturali nella penisola.

Secondo Benedetto Orsatti, il ponte di Campana, anche se non particolarmente bello  ed ardito, “era ubicato in una posizione chiave”. La sua importanza era dovuta al fatto che permetteva di allacciare due grandi arterie viarie romane: la Claudio Nova e la via Poplica Campana. La prima, costruita dall’imperatore Claudio nel 47 d.C., partendo da Roma, entrava nel territorio Vestino. Qui, biforcandosi più volte, formava la “Via della media valle dell’Aterno”. Il tracciato che portava a Campana è ancora evidente nei resti di muri campestri lungo la base di colle Prutto; esso, superato il ponte, per una via secondaria tra i boschi, la valle dell’Olmo, si ricongiungeva presso Fruntenias (Fontavignone), con la seconda grande via romana, la Poplica Campana che, dall’Altopiano delle Rocche, portava ad Alba  Fucens e di lì in Campania.
La chiesa di San Giovanni Evangelista

Non si hanno notizie certe sul tempo di edificazione della chiesa parrocchiale di Campana come non se ne hanno sull’ideatore e sull’origine del paese stesso, forse vico vestino.

Alcune informazioni si possono comunque trarre da diverse fonti: nella relazione della visita pastorale dell’arcivescovo Turchi del 6 aprile 1920 si legge che “la sua origine è antichissima”; negli Annali dello storico  Antinori si dice che nel 1360 Campana aveva tre chiese e una di esse era dedicata a S. Giovanni; nelle date 1571 e 1702 rispettivamente incise nella cornice della facciata e  sull’architrave esterno destro della chiesa stessa; nei documenti della raccolta de Nardis presso l’Archivio di Stato di L’Aquila  si fa riferimento al  restauro e alle modifiche in essa apportate nel 1700.

Se difficile risulta stabilire la data di origine, è più facile, al contrario, tracciare la sua storia.

La chiesa dovette essere legata alle città di Aveia, di Forcona e di Farfa; nel 988 passò, secondo il resoconto dell’abate Giovanni Terzo del monastero di Farfa, alla diocesi di Valva, ceduta a Teudino, figlio di Berardo di Valva.  Vi rimase  fino al 1424 quando, dopo una annosa lite ed un lungo processo canonico tra il vescovo di Sulmona e quello di  L’Aquila, fu incorporata nella diocesi di quest’ultimo.

Fu soggetta all’Ordine  Gerosolimitano come attestano un documento del 1334 in cui Campana è annoverata tra i “bona stabilia” della “domus aquilana” e tutti i Cabrei della Commenda.  Alle sue  dipendenze rimase per secoli tanto che, alla fine del 1700, il Commendatore Giuseppe Rogadeo, la fece restaurare  seguendo il progetto dell’architetto Leomporri.

La decisione dell’intervento non fu semplice nonostante la chiesa fosse ridotta in pessimo stato; fu necessario l’interessamento della Real Camera e della Regia Università di L’Aquila per dare inizio ai lavori considerati “troppo onerosi.”

I cavalieri di Malta, sotto il governo napoleonico, rimasero privi dei  loro beni; in seguito, non volendo concorrere alla ricostituzione della dotazione, a norma del Diritto Canonico, perdettero definitamente il loro patronato. Le chiese di loro proprietà furono incamerate dallo stato e quindi  in parte vendute e sconsacrate, in parte adibite all’uso secolare; la chiesa di S. Giovanni sopravvisse come chiesa parrocchiale ed  il vescovo di L’Aquila che prima la visitava  solo come delegato apostolico, tornò a gestirla.

L’attuale aspetto della chiesa risale ai  lavori del 1700 ed è molto diverso da quello originale.

L’esterno appare una struttura complessa: dal semplice e basso volume della chiesa primitiva si erge, con effetto singolarissimo, la parte barocca a forma di prisma ottagonale con gli spigoli rafforzati da contrafforti cilindrici.

Le fasi storiche, pur distinte, risultano però armonicamente intonate: accanto al barocco sono presenti il portale laterale destro, anteriore ai lavori del 1700, alcuni elementi cinquecenteschi e le finestrine a sesto acuto tipiche di una chiesa medievale lungo il fianco sinistro.

L’interno è a navata unica rispetto alle tre originali; entrando, a sinistra, funge da acquasantiera un antico fonte battesimale sorretto da una colonna scolpita; le due cappelle laterali, separate da un setto inquadrato da una sola parasta e dalla loggia dell’organo, dal profilo sinuoso, retta da due colonne, sono dedicate a S. Tommaso apostolo e a Giovanni Battista quelle a destra, a  Sant’Antonio da Padova e alla Madonna del Rosario quelle a sinistra e  sono abbellite da preziose tele raffiguranti i  santi. Una  suggestiva Deposizione è posta in alto, sulla parete di fondo dell’altare maggiore. Questo ultimo, di pregio artistico perché fatto di travertino e marmi pregiati, è posto più in alto rispetto al pavimento, su tre gradini di pietra ed è separato dalla parete da un esiguo dietro altare. Ai suoi lati  sono posti due stendardi di seta: uno roso con l’immagine di S.Giovanni e l’altro celeste con quello della Madonna. Essi fanno parte dell’attuale “tesoro” della chiesa insieme con: una  sedia di noce a braccioli  stile 1400, baldacchini di seta gialla e cerulea per processioni, candelieri, piccole croci da altare, paramenti sacri, una deposizione in gesso, un crocifisso, un gonfalone dei “Piccoli amici di S.Giovanni”, due statue lignee ( S. Giovanni Battista e  S.Giovanni Evangelita) e altre quattro ( S. Giovanni Evangelista, la Madonna,  S.Filomena e l’Addolorata) sostenute internamente da una struttura di legno e modellate con tela imbevuta nel gesso.  Tesoro modesto se confrontato con quanto si desume dall’inventario del 29 ottobre 1929 che tra gli oggetti preziosi annoverava antiche croci processionali e molte carte gloria. Due altari sono particolari: quello della Madonna del Rosario conserva lo stemma della famiglia Dragonetti e quello di S.Tommaso della famiglia Galeota  che un tempo avevano le rispettive Cappellanie.

Sempre nell’interno, l’alta e gonfiante cupola semiellittica presenta le 4 lunette delle finestre e gli archi dell’ingresso e del presbiterio.  

La chiesa,  nel tempo, ha subito  riparazioni, quelli del 1919 sono eternati con una lapide a sinistra dell’ingresso. Consistettero nel “rintoppo” delle lesioni antiche e nuove prodotte dal terremoto del 1915 e in decorazioni. Fu Giovanni Lentisco, allievo del celebre Teofilo Patini ad eseguire  queste ultime. Rispettando verosimilmente la trama decorativa originaria, realizzò “con arte squisita” le figure, ancora oggi evidenti, simboleggianti la Speranza, la Carità,  la Vittoria e,  nella inquadratura centrale del soffitto, il Protettore S. Giovanni.

Negli anni più vicini a noi si è intervenuti sul tetto e ultimamente si è provveduto al consolidamento della cantoria; in fase di progettazione è il ripristino del pregevole organo settecentesco.

La Fontana

Chi arriva nella piazza di Campana nota subito una graziosa fontana: un abbeveratoio ovale poggia su uno zoccolo di pietra; al centro un pilastro quadrangolare, recante la data 1908, è coperto da un cappello in pietra dai bordi sporgenti ed ondulati;  su di esso è inserito un fregio in ferro di circa due metri di altezza; ad ogni lato del pilastro compare un mascherone di bronzo ed una coppia di sbarre di ferro va a poggiarsi sul bordo, utili un tempo per sorreggere le conche da riempire di acqua.

La fontana non presenta ricercati ornamenti né pregiati  lavori architettonici, è un monumento snello e sobrio che ben si adatta al semplice ambiente circostante. Ma se non rappresenta un grande vanto artistico, costituisce invece un’importante testimonianza storica del paese.

Progettata dall’ing. Donato Ricci nel 1899 in seguito alle richieste che gli abitanti della frazione avevano inoltrato tre anni prima, fu portata a termine dall’appaltatore E. Leli solo nel 1908. Lungaggini burocratiche, analisi batteriologiche dell’acqua più volte ripetute, richieste di mutuo, aste di appalto, espropri delle terre necessarie per il transito delle tubature, ritardarono l’opera. Tuttavia le braccia, la tenacia e la caparbietà di 38 capo famiglia nei lavori degli scavi, l’impegno e la volontà delle autorità riuscirono a far superare queste difficoltà.

Per anni la fontana ha dissetato uomini ed animali, consentito di lavare panni e cereali ma nel tempo si sono più volte verificate frane nella sorgente le Fontanelle, abbassamenti di falde acquifere, infiltrazioni, rottura di conduttura ed oggi, purtroppo,  i quattro mascheroni non versano più acqua.

 



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