Aquilani in corteo: «Il terremoto siamo noi»

(DA Il Centro) - Volti bagnati. Lacrime e pioggia. Tre e trentadue. L’orologio del Duomo ancora fermo. Sotto, una piazza piena piena che ammutolisce nel ricordo di chi, stasera, non può esserci. Ma che grida forte al mondo: «L’Aquila va ricostruita senza cricche né sciacalli». In ventimila (13mila secondo i dati della questura), sotto una pioggia battente e impietosa, si riprendono la città ferita. E firmano la legge per L’Aquila. Nuovo scatto d’orgoglio, 19 mesi dopo il sisma. Un grido che sale dalla sfilata pacifica e senza incidenti della mobilitazione nazionale «L’Aquila chiama Italia».
 DI NERO E DI VERDE. Il nero del lutto e il verde della speranza mettono insieme ancora una volta gente di destra e di sinistra. Già, perché se alcuni sindaci targati Pdl disertano l’adunata cittadina in aperto dissenso coi promotori, c’è ancora chi pensa con la propria testa e alla sfilata ci va lo stesso. Compresi elettori, amministratori ed ex di area filo-governativa. Gente di destra che marcia con quelli di sinistra. Tutti uniti, col supporto di delegazioni nazionali, da Terzigno e Boscoreale a Vicenza, da San Giuliano di Puglia alla Val di Susa, per dire che le «macerie di democrazia» sono da rimuovere. Qui in piazza ci sono braccia e menti pronte a ricostruire, ma ci vogliono pure gli strumenti, come si affanna a ripetere il sindaco Massimo Cialente, fascia tricolore e bandiera neroverde al collo. Dell’Aquila c’è il gonfalone. Bianco e inzuppato. Ci sono anche quelli dei Comuni del cratere. Da piazza d’Armi, nel luogo che fu della più grossa tendopoli, a piazza Duomo, cuore di un centro che non batte più dal 6 aprile 2009. Fili da riannodare. È per questo che, 19 mesi dopo, il tam-tam riporta tutti qui. E poco importa se la pioggia, dopo una mattinata di sole beffardo, comincia a rigare i volti quando il corteo muove i primi passi lasciandosi a destra il vecchio tribunale.
 LA VIA CRUCIS. Entrare all’Aquila da via XX Settembre vuol dire immergersi subito nell’epicentro del dolore. Gli aquilani lo sanno bene. Ma è questo camminare fianco a fianco, con gli ombrelli che s’incastrano a formare un’unica immensa tettoia, che fa capire subito a chi viene da fuori che quei palazzi coi buchi grossi così dietro alla vecchia Anas non furono bombardati, quella notte. La prima sosta è davanti al vuoto di via XX Settembre 123. Cinque morti. Un minuto di silenzio. Quelle rose bianche e rosse che i parenti delle vittime stringono nelle mani finiscono attaccate a quelle cancellate gelide. Da lì, se guardi a destra, noti via Poggio Santa Maria. Anche lì la vita s’è fermata, quella notte. Due donne spuntano da dietro ai vetri nella casa di fronte al vecchio convento di San Bernardo. Sembra dicano: «Ci siamo anche noi». C’è gente anche sul ponte di Belvedere. Sono lì per srotolare lo striscione: «Riprendiamoci le città». La strada si restringe, in salita. La pioggia non molla un attimo mentre c’è la seconda sosta, davanti alla casa dello studente e di fronte a via XX Settembre 79, la casa della famiglia Cora. Qui la sosta è più lunga, più intensa. Silenzi e segni di croce. Rose bianche incastrate sotto alle foto degli otto ragazzi che riempiono il vuoto del palazzo che non c’è più. Poi si prosegue verso la Villa.
 L’ATTESA. Il corteo s’infoltisce a ogni passo. In tanti si uniscono lungo il percorso. Anziani e bambini. In corso Federico II c’è tanta gente sotto i portici. Poi tutti in piazza, sotto al palco. Chi in cerca di un bagno e chi di un posto riparato, foss’anche una cabina telefonica. Militari? Neppure l’ombra. Oggi le camionette se ne stanno a distanza. Pure quelle del reparto Mobile parcheggiate nel piazzale di una palestra a Pile. Poliziotti e carabinieri ci sono lo stesso, ma in borghese. Anzi, quando una parte del corteo decide di trasgredire lo fa tagliando su per Fontesecco ed entrando in piazza Duomo dal Vicolaccio, via Sallustio. I vigili urbani non oppongono la minima resistenza. La zona è rossa è violata ma senza danni per nessuno. In piazza, poi, compagna la pioggia, a incitare la piazza ecco le parole del viareggino Mario Monicelli che appare sul maxischermo. «Siete aquilani, porca miseria, siete abruzzesi; allora ce la dovete fare!», e giù un applauso.
 LE CAMPANE. Non c’è traccia dei vescovi Molinari e D’Ercole. Al primo (della serie occhio per occhio...), che dice di vedere in giro parecchi «mostriciattoli», verrà riservato uno striscione al vetriolo: «Il mostro sei tu». La «vendetta» è lo scampanìo delle Anime Sante che copre le voci, ma la colpa è dell’orologio. Critiche bipartisan. Anche a sinistra si beccano fischi. Ne sa qualcosa la deputata Livia Turco, che paga ancora un’assenza in aula, da lei pure più volte giustificata, al momento del voto su tasse e decreto Abruzzo. Gliene dicono quattro, in via XX Settembre. Ma lei non si scompone più di tanto. E cammina, con gli altri. In tanti s’infilano nei vicoli e saltano le transenne. Un tour tra i sassi che per molti è un rito d’iniziazione. O un esorcismo del buio e della paura. «Guarda, io abitavo lì», dice Francesco, giovane ciociaro.
 VERITÀ E GIUSTIZIA. Salgono sul palco le «mamme vulcaniche» di Terzigno, eppoi gli anti Tav, i No Dal Molin e il comitato vittime di Viareggio. Vincenzo Vittorini (Fondazione 6 aprile per la vita) si stacca dallo striscione nero «Per loro, per tutti» e scandisce al microfono: «Vi lascio due messaggi: la mancata prevenzione e le omissioni hanno concorso a causare la strage del 6 aprile, per la quale vogliamo verità e giustizia. Questa città va rifatta in sicurezza. Si parla di tutto meno che di ricostruzione sicura. Basta stragi frutto dell’ignavia e dell’ingordigia degli uomini». Parole come pietre. Altre pietre. A sera la piazza è dei giovani. Sotto i portici della Banca d’Italia si balla con le percussioni. «Attenzione/concentrazione/Il ritmo è/vitalità».


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