Un elzeviro dedicato a personaggi aquilani “con un pizzico di follia”

   Bella l’idea propositiva della Tombola Agnesina nata all’interno della Confraternita dei devoti di Sant’Agnese che verrà presentata prossimamente in città. Nomi e personaggi dai soprannomi o titoli curiosi ripercorrono la storia dell’Aquila di una volta, quando tutti si conoscevano e trasmessi di generazione in generazione con un passa parola.
   Allora è doveroso un contributo di memoria offerto dalla nostra scrittrice Laudomia Bonanni che ebbe a scrivere nel lontano 1963 un elzeviro dedicato a personaggi aquilani “con un pizzico di follia”. Un articolo esemplare derivato da una profonda conoscenza di una comunità alla quale la stessa scrittrice apparteneva e narrata in moltissime terze pagine dei quotidiani.
   Per ora, così la vogliamo ricordare nella ricorrenza dei 110 anni della sua nascita (8 dicembre 1907).
                                                                                        Gianfranco Giustizieri
                                                                     
 
                                                                                              I pazzarelli
 
 
   Una volta vidi cadere una donna. Mi camminava davanti per la strada. Era magrissima, le vesti molto corte, diede un piccolo guizzo sulle gambe sottili, che s’impigliarono, come travolta da un vento improvviso, e andò giù con vuota leggerezza dei corpi inanimati. Un fascetto di paglia, che so, legno cavo. Fu strano e impressionante. Mi precipitai. Guardando di sotto in su a occhi bianchi, e rifiutando l’aiuto disse: «Volevo dormire. Mi sono stesa». Tutto riacquistò naturalezza, sebbene intorno mancasse una dimensione. O forse ce n’era una di più, non saprei. 
   Dopo ho imparato a riconoscerli. La mia città è piena di pazzerelli (ma del resto n’è pieno il mondo e non è a dire che non lo si sappia). Nei vicoli i bambini li rincorrono con gridi, la gente del vicinato si fa sugli usci. Pazzerelli è il nome popolaresco che esprime una sorta di fatua allegria, un che di estremamente librato, un’innocenza primordiale. Per le strade del centro o nei viali fuori mano, la piccola pazzia va libera tranquilla e indisturbata, quasi senza alone, a riconoscerla ci vuole occhio. Chi guardi molto il suo prossimo, chi - avendo, supponiamo necessità di camminare e meditare - frequenti vie solitarie, finirà in una città piccola per incontrarli e identificarli tutti.  
   In primo luogo si ravvisano al taglio dei capelli: lungo gli uomini, cortissimo le donne. E smozzicato. Non c’è cosa più sensibile del capello, confitto innumerevolmente nella testa, che punge dentro; dei capelli (o della testa) sono gelosi, e se li taglieranno da sé a caute sforbiciate. Poi c’è in ognuno qualcosa di sempre uguale, di assolutamente immutabile - un’abitudine, un gesto, un tratto - che manifesta la fissazione.
   Per esempio, la signorina Z., nobile titolata, porta invariabilmente, quasi facesse parte del proprio corpo, o contenesse ogni suo avere, ben serrato, un pacchetto, un involtino di carta di giornale. Possiede, sembra, ormai tutto per sé, l’avito palazzo con stemma, di cui abita un basso scuro, tenendo chiuso il resto. È sola. Esce di continuo, va rapida e dignitosa col suo pacchetto, per i negozi, per gli uffici, indaffaratissima, entra nelle librerie o in biblioteca, sfoglia risfoglia consulta grandi volumi, li esige sempre molto grandi. Una volta lasciò il pacchetto in una bottega. Tornò affannata a ricercarlo, ma l’avevano già buttato via. Era pieno d’immondizie.
   Un uomo serio magro nasuto, col passo lento e uguale, l’avrò visto per anni senza capire. A occhio ci si conosce tutti. Anche me lo ricordavo vagamente da giovane, con certe sue sorelle brutte e lussuose (poi scomparse). Alla medesima ora serotina, l’incontravo risalire il corso tra il flusso della pacifica gente a passeggio. Le mani indietro, vestito di scuro, mezzo toscano spento tra le labbra, giù il capo, col gran naso a picco, senza guardare né di qua né di là. Un forastico, si capiva, non altro. Attraverso gli anni, quel vestito eternamente uguale, il cappello via via più calzato e cencio, le scarpe sformate, e ridotto a un mozzicone il sigaro spento. C’è un decoro agli estremi che sembra tenersi a un filo. Codest’uomo comincio poi a incontrarlo per la strada di circonvallazione, e la sua figura si profila nell’ombra acciaccata, tetro il gran naso, nero come un buco quel succhiatoio di tabacco, i calzoni stranamente corti che infine cominciavano a mostrare sfilacci lunghi come frange.
   C’è un’edicola dove la strada immette in città, e lì una volta me lo trovo a fianco. Ho preso il giornale, ho armeggiato nella borsa per cercare gli spiccioli. Lui restava fermo. La giornalaia, una donnetta sempre intirizzita, gli ha teso brusca due monetine. 
   «È l’ultima volta, eh?».
   Se n’è andato in silenzio come un’ombra. «Ma guarda - ha detto la donna - che capita a una poverella». Capitava di tanto in tanto il signore con la cicca a chiederle quel prestito di quindici o venti lire, che mai si rivedeva indietro.
   I ragazzi è altra cosa, essi comunque inseguono la vita. Il brunetto si vede fra gli studenti, fanno cerchio, lo chiamano e ridono. Sarà stato studente anche lui. Veste bene, con cura, delle volte ha enormi guanti di pelle che pare gli tengano le mani scostate dal corpo, e i capelli neri sono madidi di brillantina. Si ingolfa con impeto, all’uscita del liceo, nel folto delle ragazze, talune scappano, ma in genere non gli fanno caso. Va a spasso lungo, pesante, sciamannato, con la faccia pustolosa in aria e gli occhi stretti. Sembra rincorrere il proprio naso. Allo stesso modo di corsa e sbilenco, parlottando fra sé, l’incontro per vie solitarie, sempre a mento levato, come un cieco, a percepire e inseguire vaghi odori femminili.
   Ultima apparsa è la «fanciulla». In determinati giorni, a una certa ora animata, si mostra al corso. È incredibile come la gente non badi, non si volti, forse la gente è buona e riguardosa, o magari la piccola pazzia è uno stato non troppo diverso dalla condizione umana. (Che ci colgano amore, odio, paura, dolore: e siamo subito fuor di noi). Nessuno dunque si volge a guardarla. Sta, addossata a una colonna dei portici, con una lunga gamba in su, poggiando il piede arcuato al basamento, e dondolandosi. Porta calzini bianchi al malleolo, da bimba, arricciata e chiara la sottana, due nastri alle trecciole. La prima volta non la vidi, o meglio fu questo che vidi. Passavano gli uomini, ed essa girava il capo e sorrideva. Ma del resto non vale aver poi guardato bene: le stecchite gambe nude, le treccioline grigie (una più corta), il riso senza denti: è una fanciulla lo stesso, tale carica di illusione mette nel suo atteggiarsi grazioso e flessibile.
   Nel pacato andamento cittadino, svaria qua e là il pizzico di follia. (Questo grano di sale mancante, questo venerdì in vacanza, che sembra staccare un ormeggio alla pesantezza della vita). Fra gli orari d’ufficio, i percorsi brevi obbligati, le preoccupazioni sempre uguali, le domeniche monotone, passano liberamente gl’irregolari. Taluni a bandiera spiegata, altri dissimulandosi. Sono ometti ilari, ragazzi svaniti, vecchie donne saltellanti e sorridenti, inguaribili vagabondi, le fanciulle di quarant’anni, gl’infingardi costituzionali, gl’innocenti di nascita.
   Di giorno stanno coi savi, fanno vita in comune. Ma al calar del sole si liberano dai vicoli schiamazzanti, dal centro affollato, dalle strade in luce, e raggiungono i viali periferici più lontani, oltre la zona marginale frequentata dalle coppie. È a quell’ora che inseguono la propria solitudine.
 
                                                                                              Laudomia Bonanni
 «Gazzetta del Popolo», Torino, 27 aprile 1963
 
 



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