LA CHIESA DI ASSERGI TRA STORIA ED ARTE

- di Giuseppe Lalli -
 

 

   La chiesa parrocchiale di Assergi, intitolata a Santa Maria Assunta, sorge sullo sfondo di una leggiadra piazza dalle reminiscenze leopardiane.
   Poteva accadere nei primi secoli dell’era cristiana, all’inizio di quell’affascinante stagione della storia che è il Medioevo, che in questi luoghi remoti e solitari dell’Appennino alcuni giovani, magari provenienti da famiglie gentilizie come San Benedetto da Norcia, giovani  assetati di assoluto, sentissero il bisogno di unirsi per poter menare vita comune nella pratica della nuova religione del Dio incarnato; e fondavano un monastero. Più tardi, attorno al monastero cominciavano a stabilire le loro dimore i montanari dei dintorni, e si iniziava a disboscare e dissodare le terre circostanti. E la chiesa diventava punto di aggregazione comunitaria, liturgica e civica, tempio e municipio di quell’uomo medievale che era unitario, non schizofrenico come l’uomo  moderno.
   Per una di quelle singolari circostanze che si osservano nella storia, e che  i credenti dovrebbero chiamare non ‘coincidenze’ ma “Dio-incidenze”, in uno stesso periodo è potuto nascere un castello, una chiesa (che non a caso ad Assergi  sorge su uno sperone roccioso, in una posizione di difesa strategica e che coincide con uno dei bastioni delle mura di cinta del castello stesso) e un uomo, il futuro San Franco, un monaco benedettino che verrà in queste montagne spinto da una vocazione cristiana più radicale, destinato ad incrociare il suo destino con questo borgo e con questo tempio.
   Assergi, come è noto, fu uno dei castelli, e tra i più fiorenti, che fondarono la città dell’Aquila. L’atto di battesimo della chiesa è del 1150 (come risulta da un documento ritrovato in seguito alla demolizione dell’altare di Sant’Egidio, primo protettore del villaggio prima di San Franco), ma viene costruita (o ricostruita) sicuramente su di una precedente pieve, con tutta probabilità di tipo monasteriale camaldolese (cfr. O. Antonini, Chiese ‘extra moenia’ del Comune dell’Aquila  prima e dopo il sisma, p. 134) intitolata a S. Maria in silice (con riferimento al Silex-Gran Sasso più che alla natura rocciosa del terreno su cui sorge), o ad silicem, da cui Assilico, Asserice...fino ad arrivare ad Assergi (etimologia che possiamo riscontrare anche in nomi come Monselice). Di questa primitiva chiesa era sicuramente parte l’attuale vetusta cripta. Il tempio, dapprima ad una sola navata, assumerà l’attuale forma basilicale, con le sue larghe navate laterali, già a partire dalla metà del secolo successivo, poco dopo la morte dell’eremita, perché si tratterà di dare ai resti mortali del santo una degna dimora, e perché si vuole incrementare un pellegrinaggio che è già iniziato. Ed è per questo che diventerà, già a partire dal XIV° secolo, una chiesa collegiata particolare: collegiata, in quanto il villaggio, come gran parte dei castelli fondatori della città dell’Aquila, avrà la sua chiesa di riferimento entro le mura cittadine (nel caso di Assergi nel quarto di Santa Maria); particolare, perché, a differenza delle chiese degli altri castelli, dal momento che è un santuario e registra la presenza di monaci, non sarà soggetta alla chiesa aquilana, ma, al contrario, eserciterà su di essa il suo governo. E sarà inoltre assai presto una chiesa capitolare, vale a dire retta da un preposto e da quattro canonici. La nomina del preposto, come ci ricorda Nicola Tomei (1718-1792) in quello che è da considerare il primo scritto organico sulla storia di Assergi e sul culto di San Franco, dovrà essere ratificata dal papa.
  Dal punto di vista artistico, la chiesa mostra una felice convivenza di stili, ravvisabile sia all’esterno che all’interno. Un grande architetto e storico dell’arte che la visitò nel 1899, la apprezzò molto e scrisse, tra l’altro, che essa parlava molte lingue: quella rinascimentale sulla facciata, la barocca all’interno, e sotto, riferendosi alla cripta, scrisse che parlava « l’oscuro linguaggio del Medioevo ». Oggi, dopo i decisivi - e discussi - restauri del secolo scorso, non c’è più traccia di barocco.
   Nella facciata, realizzata tra la fine del XIV° secolo e l’inizio del XV°, un elegante portale tardo-romanico (in tutto simile a quello di Santa Maria del Guasto, ora non più esistente e a quello della chiesa aquilana di Sant’Agnese, non più visibile in quanto inglobata dall’ospedale San Salvatore), convive con un leggiadro rosone tipicamente gotico, perfetta replica di quello che si ammira sopra il portale di sinistra della basilica di Collemaggio all’Aquila. In omaggio a quella interessante commistione tra sacro e profano che spesso si ravvisa nelle nostre chiese antiche, nel ricco architrave è scolpita la vite, simbolo liturgico per eccellenza presente anche nell’Antico Testamento, nonché pianta evocatrice di vita e di convivialità. Nel rosone, sempre per rimanere sullo stesso tema, figurano dodici raggi: dodici come gli apostoli, come le tribù di Israele, come i mesi dell’anno, ad indicare la pienezza del tempo.
   Ma ci sono anche all’interno esempi di questa felice combinazione di stili. Il primo è quello messo in evidenza dal quel restauro dei primi anni ‘70 del secolo scorso, che, dovendo riparare ai guasti prodotti in età tardo-barocca (tra il 1746 e il 1784) e poi nel 1871, quando era stata innalzata la volta, richiuse cappelle e finestre, riquadrate le colonne e seppellito gli affreschi con disinvolte manate di stucco, ha riscoperto, oltre a tutto il resto, un manto pittorico davvero delicato, anche se a tratti frammentario, con affreschi che vanno dal XIV° secolo (qualcuno anche più antico) al XVI°, alcuni dei quali attribuiti a Saturnino Gatti e a Francesco da Montereale, due grandi protagonisti del Rinascimento aquilano.
   I caratteri del primo gotico, ravvisabili nelle luci (in particolare nella monofora sopra l’abside) e nell’involucro murario, in questa chiesa, a differenza di altri edifici sacri cirstercensi del territorio forconese come Santa Maria ad Criptas a Fossa o Santo Spirito ad Ocre, cui questa chiesa si può legittimamente rapportare, mentre impreziosiscono l’ambiente, non compromettono l’originaria struttura romanica, che resiste sia nella forma delle colonne, pesanti e a tutto sesto, che nell’abside, semicircolare e di piccola dimensione.
   Il secondo esempio lo troviamo nel tabernacolo a sinistra dell’altare per chi guarda, pezzo davvero unico, dove l’eleganza rinascimentale dei due pilastrini si sposa con il raffinato gotico dell’archetto cuspidato. Il tutto poi ad incorniciare una suggestiva pietà, opera di Francesco da Montereale, che è realistica ed intuitiva rappresentazione del mistero eucaristico.
   E c’è poi la stupenda cripta, antichissima, dove questa combinazione si presenta sotto altra forma ma in maniera non meno affascinante : una scarna architettura romanica,  che un restauro del 1966 ha riscoperto nella sua nuda e mistica bellezza, fa da cornice ad una pregevole gotica espressione scultorea lignea. Dolcemente adagiata su un cassone di noce che funge da reliquiario, si ammira una misteriosa donna coronata sulla quale è fiorito attraverso i secoli un affascinante racconto popolare (regina del Cielo o regina della Terra ?), diretta erede, quanto a stile, della cosiddetta scuola ‘Ile de France’, e che potrebbe da sola giustificare un’intera sala museale.
   Bastino questi brevi cenni a dare l’idea che ci troviamo di fronte ad una tra le più belle chiese del territorio aquilano, in uno tra i più suggestivi angoli di questo nostro Abruzzo magico e misterioso.

   Un illustre figlio di Assergi, Silvio Lalli, direttore didattico e poeta tra le due guerre, volle dedicare alla sua chiesa il seguente sonetto:


DAVANTI ALLA CHIESA DI ASSERGI

Commosso un canto a l’arte tua vetusta
scioglier vuole un tuo figlio, bella chiesa
sorgente dalla roccia: il tempo resa
t’ha ognor più sacra e ognora più venusta.

Nei secoli, di gloria fosti onusta
e meta di fedeli: a tua difesa
sorser le mura del Castel che offesa
non permisero a tua grandezza augusta.

Passar generazioni in pia preghiera
fra le svelte tue tre, ampie navate
che cantici ascoltaro e nenie tristi.

Qual madre, il giorno e nella bruna sera
accogli ancor le genti affaticate:
alle ingiufrie dei secoli resisti.

    ( S. Lalli, Assergi, luglio 1931

 



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