STORIA DEL 13 AGOSTO E ALTRI RICAMI

- di Fernando Acitelli -

 

«Ho più ricordi che se avessi mille anni…»
                                                 Charles Baudelaire



Dal belvedere sotto l’Orologio si raggiungeva con lo sguardo la terra della Baronessa, la Cesela, il bar, il capannone di Giacobbe, la statale 17 bis, quindi, nella valle, la casa di Sante Vitocco con i foratini a vista e la strada in salita che conduceva alla Piazza, e tutto era quiete in quel 13 agosto.

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Se qualche nonno se n’era volato in cielo, accadeva che un animo sensibile lo ricordava e questo sia che fosse a giocare a pallone e sia che stesse seduto di lato al fiume con i compagni e in quest’ultimo caso la rammemorazione era più intensa nel tratto compreso tra Rive e le Pernagnova, là dove un ponticello dichiarava l’esistenza della bellezza.

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Quel nonno volato in cielo tornava d’improvviso tra noi, ecco, accadeva questo, con quel ricordo sorto per chissà quale sommovimento dell’animo avevamo accanto quella cara figura e il ricordo ce lo restituiva con il suo completo da vecchio, ovvero nella divisa ufficiale del congedo negli attimi di serenità al pagliaio.

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Si osava una piccola sceneggiatura per quella cara figura e così dai gradini accanto al pagliaio lo vedevamo poi intento ad abborare l’asino (abborà gli asene) ed il percorso era verso la fonte all’Acona e in quel tragitto s’incontrava Colonneglie che era di vedetta ‘nanze l’ara de Fantine ed il saluto accadeva appena con lo sguardo.                             

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Era raro che i nonni partecipassero al film e alla musica in Piazza, d’altra parte era buio ed essi a quell’ora se steane a repassà u missale cant u foche ma avrebbero gioito l’indomani per la banda, oh quali virtuosismi tra Pupucc e la Foletta, tra la Port u Colle e Cristina Longa, e ammirata era la divisa, pur stentata, degli ultimi musicanti.
 
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Precisamente pensavo accadesse proprio questo con la banda in azione e cioè che un vecchio (o forse più d’uno) si mettesse a fissare il completo dei musicanti notando la differenza tra il rigore d’abito di chi era in testa (i clarinetti, le trombe) rispetto a coloro che chiudevano la banda (il suonatore di piatti, della grancassa), di solito sempre più approssimativi nella giacca e nei pantaloni a fior di caviglia e con i calzini alla vista.

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All’inizio del film come pure quando i cantanti spiccavano il volo, c’era forse qualcuno nella Piazza che pensava ai nonni rimasti a casa? Tanto mi domandavo ma non che questo significasse una distinzione, lo pensavo per me e i diversi ambienti di casa si combinavano di colpo con la cittadella del West e con le cosce d’una cantante sul palco.

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Il sopraggiungere della festa faceva sì che il linguaggio d’ogni persona si deformasse, divenisse ipertrofico e colorato in eccesso, e così tutti avevano la ricetta per fargliela alla vita, ma questa dolce sospensione durava il tempo esatto della festa, poi l’alluvione di parole ruzzolava via ed erano di nuovo tutti perplessi.

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Si sarebbe dovuto filmare quel tempo dell’attesa e quella gioia così a portata di mano, di sapore famigliare e che restituiva un po’ di sereno all’animo, e tutto era più bello su quel muretto del belvedere e spiccavano anche i gilet dei vecchi che sopra una camicia a quadratini colorati facevano un figurone anche nella consunta parte di raso, posteriormente.

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Il belvedere sotto l’Orologio (meglio conosciuto come gliu post na porta) era un luogo per soli uomini e le generazioni si mischiavano e le risate avevano accelerazioni notevoli e sembrava che il tempo scorresse meno crudelmente tra tutte le fantasticherie che si componevano, ma il richiamo alla realtà era il postale che da gliu Brigante s’annunciava.

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Impostati dietro quel parapetto e con tutta la natura davanti, gioivano anche i vecchi ed era un bene, pareva che si scordassero del peso degli anni e con la festa in arrivo c’era un motivo in più per rimandare le angosce e c’era chi poteva contare anche su quei prolungati silenzi al pagliaio mentre l’asino osservava con la coda dell’occhio.

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Vi sarebbero stati pranzi, cene, scampagnate al Vasto e a Montecristo quindi film in Piazza e poi cantanti, bande, bandisti acchiappa celli, insomma una prolungata allegria e così tutte le angosce avrebbero avuto dilazioni, rate più comode, e le faccende relative alle divisioni si sarebbero affrontate allo spegnersi di agosto, poco prima del viaggio di ritorno dei parenti nel luogo di residenza.

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In verità le opposte fazioni avrebbero pensato alla divisione delle robb anche durante la proiezione del film la sera del 13 agosto e poi  tra una pausa e un’altra delle canzoni sul palco nei due giorni seguenti, e quelle pause provocavano il ritorno alla realtà e così mentalmente si analizzavano di nuovo i cespiti, le carte, le contromosse, e la mente vagava.

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Ma le pause erano momenti di smarrimento anche per i cantanti e si trattava di vere quanto brevi crisi d’identità, l’oscuramento di sé per alcuni istanti, e questo lo si vedeva con chiarezza quando una cantante tornava a sedersi ed un cantante s’alzava per raggiungere la postazione, e lo sguardo della cantante era d’una tristezza tenuta a bada, truccata ad arte.

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Dal belvedere sotto l’Orologio s’avvistava sulla statale 17 bis il pulmino cinematografico (lo ricordo in più occasioni di colore rosso bordò) ed erano circa le 18 e quel mezzo conteneva al suo interno quella sublime diavoleria del proiettore e poi il contenitore argentato della pellicola (la cosiddetta pizza) e la festa iniziava con quell’avvistamento del pulmino al curvone della statale 17 bis.

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Il posizionamento del pulmino nella Piazza era di lato alla fontana (un po’ più avanti) ed era l’ennesimo tramonto felice dell’estate quando la gioventù era concentrata su mille cose e le grida festose giungevano dalla valle o s’ascoltavano sulle panchine e lungo il muretto e la vita sembrava senza fine e non si voleva far ritorno a casa.

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Il divertimento era fuori, in strada, e comunque si tornava a casa per cenare presto e uscire subito ma non a tutti interessava il film o i cantanti nei due giorni successivi e la scelta andava per la valle, di sicuro la location più gettonata, ma di punti strategici ve n’erano tanti e nel ricordo quei luoghi sarebbero stati come iscrizioni latine.

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La faccenda della cena veniva risolta all’istante e prevaleva il mordi e fuggi ed i commenti famigliari erano d’indulgenza ma in alcuni casi si sottolineava il tratto fuggitivo del ragazzo che resisteva a casa soltanto per i pasti e per dormire ma del resto anche l’età spensierata era fuggitiva e così lì dentro tutto si placava.

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In alcuni ragazzi sorgeva anche un sentimento triste ed esso s’accompagnava al fatto che, cenando accanto ai nonni prima di tornare in Piazza, essi valutassero la loro gioia e nello stesso tempo riflettessero sul tempo dei propri nonni i quali non sarebbero stati della festa se non marginalmente.

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La differenza tra il film del 13 agosto in piazza e le successive due serate con i cantanti consisteva in questo: nella proiezione ci si sentiva più vicini ai personaggi rispetto alla presenza ravvicinata dei cantanti e questo perché gli attori, risultando lontani e protetti nella pellicola,  forse erano ancora in vita, nei cantanti invece si vedevano da vicino segni e angosce.

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Gli attori probabilmente qualche problema relativo al vivere l’avevano risolto mentre la sensazione era che la vita dei cantanti dipendesse dal tour nei vari paesi: viaggio in corriera, arrivo, visione del paese, accenni di prove sul palco, sbadigli, pernottamento, ecco, tutto questo, mentre la lontananza degli attori non faceva pensare al peggio.

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Il santo patrono non interessava a nessuno, men che meno la chiesa d’epoca medievale e neppure le mura antiche che proteggevano quel paese al sommo della collina e così si scaricavano i bagagli, si notava ancora una volta come le custodie degli strumenti fossero lise mentre il clarinetto era il primo strumento ad essere provato e non necessitava del palco.

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La reticella degli altoparlanti era allo stremo e la si vedeva dopo che gli altoparlanti erano stati adagiati sul palco, dunque già s’individuava il cuore di quel marchingegno, un piccolo disastro era alla vista e in poche parole il tutto svelato provocava stupore in chi s’imbatteva in quelle piccole voragini, e allora il magico svaniva, come quello provato a suo tempo per l’inesistenza della Befana.

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I cantanti si sgranchivano le gambe, proprio così, una volta scesi dal pullman erano umani come noi e così qualcuno sbadigliava, qualche altro fissava il polso dove eccelleva la precarietà d’un orologio alla buona, qualcuno pensava al Disco d’Oro o al Cantagiro e poi c’era chi, voltandosi verso le montagne, in quel tramonto di già consistente tristezza, sussurrava: «Che ci faccio, qui?»

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Dell’arrivo dei cantanti i nostri nonni non sapevano nulla e per essi chi non era al pagliaio, a Licenna, a le Spinara o a casa a fà lo magnà, era come se non esistesse e allora attutivano il dolore degli anni divagando sulla concretezza, erano gli intransigenti del fare e l’arte non aveva molta accoglienza tra le pareti di casa.

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Era splendido quel mondo dei nonni, seguiva il ritmo delle stagioni e si sosteneva su traiettorie esatte e che non cambiavano mai, e le consuetudini ambivano a rendere immobile ogni cosa, a scolpire nel marmo gli affetti, a vedere la propria casa come il centro del mondo e nel non concepire tragitti fuori Assergi.

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I cantanti s’esibivano ogni sera in un cantuccio di mondo e anche la provincia era un cantuccio di mondo e ogni sera speravano che, all’improvviso, qualcosa nella loro voce migliorasse e che si finisse nell’ombra d’un uomo importante, ecco, e cantando attraversavano i sentimenti, cioè il tempo, e così l’arte era come un sistema difensivo.

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Tutti i nonni erano, a loro modo, degli artisti e si potrebbe azzardare artisti del silenzio e per me il vero capolavoro sarebbe stato disertare la Piazza con tanto di film e cantanti e mettermi ad occhieggiare (non visto) i nonni accanto al fuoco, ma tutte le volte che tentai una simile avventura fui risucchiato dal vortice della gioventù.

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La verità era che non volevo osservare i miei nonni perché non avevo intenzione di soffrire e quand’anche fossi finito in Piazza più tardi non sarebbe cambiato nulla e non mi sarei curato delle congetture che avrebbe fatto chi era in mia attesa, né avrei potuto spiegare le mie ragioni, del resto il brivido della vita è un evento incomunicabile.

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Abbandonare la Piazza, un gesto inaudito ma certamente con venature crepuscolari, e nel dolce bisbigliare, intimo dei miei nonni ci sarebbe stato lo svelamento dei loro giorni futuri e una parola sfuggita dalle labbra avrebbe definito l’affresco e a quel punto ci sarebbero state per me buone opportunità di soffrire.

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Avrei dovuto temere coloro che avevano scelto di rimanere a casa perché la mia collocazione per sentire i miei nonni sottovoce sarebbe potuta essere avvistata o da uno spiraglio di finestra o da chi s’era affacciato da ‘na cammera ‘ngima e a quel punto, al buio, la mia ombra senza identità avrebbe potuto allarmare i vicini.

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Vi era più narrazione in quei silenzi che se avessero intessuto un dialogo lì, di fronte al focolare, e la loro cena era stata all’insegna di poche cose già saggiamente conosciute, proprio così, e si voleva bene anche al tavolo, alla minestra, al pane e, se avessero preso ad accarezzare le pareti, avrei pianto.

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Immaginando tutto questo, componevo in me anche le scene in cui i nonni si sarebbero risolti al riposo e così sarei rimasto accucciato per vedere le loro mosse dell’alzarsi dalla sedia e guadagnare le scale per raggiungere il beato letto e tutte queste loro azioni accadevano senz’altro sotto la regia dell’animo.


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I miei nonni non avrebbero saputo niente del film in Piazza e neppure, le serate successive, i nomi dei cantanti, e quand’anche avessi mostrato loro dei piccoli manifesti con le storie di quegli artisti, avrebbero voltato lo sguardo verso la cucina, verso lo rame remonne, appiccate, esatto, non sapevano nulla di quel mondo fuori, erano sul serio al riparo.

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Per i miei nonni come per i nonni di tutto Assergi, almeno delle vecchie generazioni, valeva il sole, la pioggia, la neve, la terra, il grano, il pagliaio, il fienile, la tracenna, le gagline, la brenna, e poi frasi e parole che rincuoravano perché ripetute da gran tempo, frasi e parole come Chiuve le fineste ‘ngima che nnavè l’acqua dall’Acque San Franc, Toneta, Lia Lampa, Le Rott Glioia.

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Assistere all’arrivo dei cantanti e l’odore della nafta non consentiva di pensare ad una bella serata e quel mal’odore sembrava dilatare la tristezza, e inoltre, all’interno del pullman, la vista di stampelle con vestiti dondolanti come un armadio viaggiante, e tutt’intorno s’espandevano delle fragranze alla buona e si coglieva lo sbuffare di colei che sapeva di non essere Mina.

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Nel film vedevamo attori non intaccati dalla vita (o almeno solo nella finzione) perché al di dentro della pellicola ed essi erano ancora nel tempo delle riprese e dunque lontani dalle angosce dell’esistenza, esattamente, in altre parole si sarebbero mossi sempre in quel tempo chiuso del film e non dovevano penare e la loro vita era in salvo, e proprio questo donava il film ma se li avessimo cercati uno per uno quegli attori, forse nel dramma c’erano anche loro.

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Quando m’innamoravo d’un personaggio del film, andavo a pensare che forse costui era ancora vivo e magari si muoveva in uno scenario di spensieratezza o forse era in attesa d’un nuovo film oppure si lasciava vivere nella quiete del suo ranch, insomma poteva ancora ipotizzare tanti giorni di serenità.

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Ai nostri nonni non potevamo spiegare tutte queste cose, e cioè l’arrivo dei cantanti, le loro perplessità, l’odore della nafta dal pullman, la macchia del carburante sulla lamiera attorno al tappo, l’anello al mignolo dell’autista, la cantante un poco in carne che sbuffava, le fiancate del pullman tappezzate di manifesti del Tour.

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Se non ci fosse stata la banda e gli spari forse i nostri nonni avrebbero avuto un sentore ancora più lieve della festa e infatti erano questi due eventi, assieme alle funzioni, a tenerli vivi, e comunque la festa non era motivo di gioia per essi, era soltanto un rimandare lo stato d’avanzamento riguardo agli anni.

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Il sopraggiungere del fresco insidioso della sera a confine con la notte era come un richiamo all’ordine, il rispetto d’un codice famigliare e per molti lì presenti s’ innalzava anche la paura per i nonni rimasti a casa, cant ‘u foche…o già a letto, e così quel fresco insidioso nella Piazza diveniva un agguato per i vecchi a casa e questo pure se li si era visti sereni durante la cena.

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Già verso le undici, nel raccoglimento ancora vivo davanti alla pellicola, si sentiva un po’ ovunque il poderoso e affettuoso: «Méttete la mmaglia!» e questa frase in breve guadagnava tutta la Piazza e accentuava il sentimento del tempo innalzando involontariamente il valore supremo della salute.

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La sedia che s’era scelta per assistere alla proiezione era piccola, di quelle dove in cucina s’appisolavano i gatti, di lato al camino e, malgrado quella precarietà seduta, era notevole la partecipazione alle vicende del film, e se si doveva badare anche all’equilibrio la sensazione era che si fosse spostato un angolo della propria casa, lì, nella Piazza.

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Il film western decollava e nel saloon ci finivamo un po’ tutti e chi chiedeva una camera smuoveva nei presenti alla proiezione un desiderio di letto, e se ad un certo punto compariva una branda con lenzuola candide e un pistolero ci si buttava sopra, in molti nella Piazza s’identificavano in quel riposo e all’uomo tutti noi auguravamo in silenzio la buona notte.
                               
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Dalla Piazza di Assergi fin dentro al saloon, al bancone dove scivolavano bicchierini di whisky e poi vicino al pianoforte dove un vecchio uomo, piccolo e calvo e con un volto arrossato e degli occhialini argentei strimpellava la felicità e in quei momenti costui lo si considerava come un creatore di gioia, un sollevatore di immagini belle dentro il saloon ma anche tra noi, e chissà dove viveva nella vita quell’attore…

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In quei momenti una belloccia bionda scendeva dalle scale e bene s’inseriva in quelle note, e lei era l’appoggio ideale per lo strimpellatore dal volto arrossato, esatto, e la belloccia si mostrava con un sorriso largo, sensuale, e poco prima aveva aiutato un fuorilegge a fare il bagno dentro una tinozza, oh sì la scena era stata eloquente, e lei già l’amava quel pistolero!...

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Tra i due artisti, quello delle note al pianoforte e quello della rivoltella da poco uscito dalla tinozza, la belloccia optava decisamente per quest’ultimo, ma non era soltanto per lo scintillio della colt ricamata all’impugnatura quanto per la solita questione degli anni perché lo strimpellatore al pianoforte si muoveva con disinvoltura verso la settantina.

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Dalla Piazza di Assergi fin dentro al saloon, ai tavoli da poker dove il baro non sempre coincideva con il fuorilegge, vero, ed era comunque un tempo felice quello che si narrava dentro il saloon, un tempo protetto dove gli affetti non si laceravano ma i duelli non accadevano soltanto sulla strada e le pistole potevano crivellare anche molte allineate bottiglie di whisky.

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Lo star seduti in Piazza su una sedia piccola era un vero problema perché le gambe alla fine si dovevano allungare in avanti visto che s’erano anchilosate, proprio questo accadeva, e comunque si doveva prestare attenzione nel posizionarle in avanti perché, in equilibrio precario, si poteva cadere all’indietro.

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Quel mutare posizione sulla piccola sedia disponeva ad una improvvisa inquietudine colei vi stava seduta e in quegli istanti non s’era più dentro il film ma all’interno dei problemi di tutti i giorni, vero questo, pareva una cosa da nulla cambiare posizione sulla piccola sedia ma in realtà si tornava a quella vita che il film, benevolmente, aveva sospeso.

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I bimbi stracchi in braccio alle madri, i bimbi che erano arrivati in Piazza con mille buone intenzioni ma ad un certo punto erano stati sopraffatti dal sonno, un vero miracolo ammirare da vicino quell’affresco, ma i bimbi pagavano il gran lavoro svolto sin dal mattino, sin dal primissimo azzurro.

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Al sopraggiungere del primo buio che coincideva con l’inizio del film, quella bancarella delle noccioline collocata sotto la ringhiera di Flavio Tacca, de Piazzare, si quietava, e così la famiglia di Flavio poteva inoltrarsi nel sonno oppure occhieggiare, ogni tanto, sullo schermo del western.

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Se s’era scelta la branda, non poteva trattarsi d’un buon riposo per la famiglia di Flavio perché il film andava con sparatorie ed inseguimenti ed i dialoghi si avvertivano sin dal principio della strada ritta ma anche dai Frati e in quelle frasi si coglieva sempre la solita questione dei soprusi e delle ingiustizie.

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Immaginavo quel signore di Flavio che purtroppo non poteva risolversi al sonno, smaniava sotto le coperte imprecando con stile e così lo sognavo alzarsi dal letto, passeggiare avanti e indietro per casa e guardare di continuo l’orologio nella speranza che la mezzanotte giungesse al più presto.

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«Altri due giorni e poi tutto questo sarà finito…» doveva ripetere tra sé Flavio durante la proiezione passeggiando avanti e indietro, e quanto accadeva fuori era ciò che alterava la sua abituale quiete, il suo desiderio di non veder mutato il profilo del buio e anche quella confidenza visiva che egli aveva con la facciata della chiesa.

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Era anche possibile che Flavio avesse il letto proprio dietro la finestra, dunque in una posizione favorevole rispetto al telone dove si proiettava il film e in questo caso, immaginavo, egli poteva, da disteso, gustarsi la pellicola e, prima d’assopirsi, mandare a dire a quei quattro sciagurati del film che era ora di finirla.

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Forse tra il film e i cantanti, Flavio avrebbe preferito il film perché oltre alla musica e il fragore delle impennate rese dagli altoparlanti, egli avrebbe dovuto sopportare anche le luci del palco e quel microfono da cui giungeva una voce modificata, resa elettrica e proprio per questa più fastidiosa e irritante, e i monologhi di Flavio, al confine con le imprecazioni, sarebbero stati in quei momenti dei testi indimenticabili.

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Dietro gli scuri, intento a non farsi vedere, Flavio avrebbe poi anche osservato la partecipazione viva sotto il palco e si sarebbe chiesto il motivo di tanta passione per coloro che s’esibivano, eh, il fatto era che non riusciva a capirlo ma non poteva farci nulla e rimaneva con il suo codice morale ed il letto stava a breve distanza ma il risolversi al sonno prima del gran finale era impossibile e lui quasi benediva il film della sera precedente.

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A ben vedere, Flavio era uno dei più fortunati, infatti egli non avrebbe dovuto poi, a film finito, avviarsi con la sedia verso casa, no, era già in casa, e a quel punto, a parte le lungaggini dei saluti nella Piazza, la conta degli assenti e qualche schiamazzo di lieve entità, si sarebbe addormentato col sorriso.

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Riflettevo su tutto questo ma, al solito, tutti i miei pensieri erano affrescati di poesia, certamente, mi faceva piacere immaginare Flavio disteso sul letto e intento a centrare dal suo luogo il film ma, a dire il vero, alteravo la realtà per sentirmi bene, per vedere quell’uomo in balia della serenità.

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Mi domandavo se Flavio avesse una predisposizione verso i film, anche non western, se l’arte fosse un ritaglio anche minimo nel suo universo interiore e alla fine concludevo che il suo senso pratico della vita, la sua correttezza verso norme e rapporti interpersonali, lo portasse a considerare i film come mattetà ma certamente ad un livello inferiore rispetto ai cantanti.

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Purtroppo quel fragore in Piazza non sarebbe finito quella sera con la proiezione del film western, no, e nelle due sere successive vi sarebbe stata la musica amplificata e questa volta le note si sarebbero colte da ogni punto di Assergi e così immaginavo le notti di Flavio con tutto quel frastuono addosso, altro che mettersi a letto!...

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Ma questo problema si sarebbe potuto estendere anche a coloro che vivevano subito appresso a Flavio e così si poteva ricordare Ercolino e Ginetta e poi Laurino per continuare con Pippinella, Checco e Serafina e da ultimo, dopo la svolta, Costanza e De Luca, mentre l’approvazione sarebbe giunta da Lidia.

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Spesso mi domandavo quale sarebbe stata la reazione di Colonneglie, Antonio Mosca (Pirame), Antonio Scarcia e suo fratello Checco, la Cupella, Domenicuccia la muratora, zia Teresa delle Si Carlone, Franca Alloggia (Pitturina), Franciscone, Lucrezia e Giacinta se avessero per costoro allestito un piccolo palco ben protetto per assistere non al film ma all’esibizione dei cantanti.

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La Piazza gremita, le persone lì convenute che erano in preda ad uno stato di gioiosa esaltazione, lo smarrimento di coloro che erano stati accolti nel piccolo palco e quest’ultimi forse avrebbero resistito, oppure, più probabilmente, avrebbero battuto in ritirata dopo poche note inveendo sotto il cielo stellato, reclamando il letto e, a dire il vero, i fedelissimi sarebbero risultati soltanto Antonio e Checco Scarcia, loro sì ammiratori delle cantanti.

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Vi era poi anche il tempo del “dopo chiasso”, vale a dire quella mezz’ora buona dedicata allo smontare il telone, riavvolgere la pellicola nel pulmino da cui era partito il raggio luminoso, ammirare coloro che non si risolvevano a far ritorno a casa e che desideravano conversare con il cielo stellato.

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Era bellissima la festa che si disfaceva con gli “addetti ai lavori” che non avevano uno sguardo per la chiesa, per quelle pietre incastrate e con il muschio a decorarle, e non si volgevano neppure verso coloro che insistevano a rimanere lì, impauriti dalla vita che lentamente, malgrado il buio, riprendeva.
 
                                                ***

I vecchi che a casa dormivano erano una carezza sul cuore e i reduci dalla Piazza, rincasando, udivano ancora qualche voce qua e là, remota da un vicolo o soprelevata da un abbaino, e si trattava d’una parola scheggiata, una spiegazione tardiva e, spegnendosi la lampadina del piccolo bagno, si chiudeva l’ultimo contatto immaginario.

                                               ***

Una lucetta accesa nel piccolo bagno era quanto poteva sollevare gli inquieti e i vaganti sotto le stelle e a costoro quella lampadina sembrava una possibilità di dialogo, certamente, e dietro quella lucetta c’era un universo da interpretare, ma a chi e in che modo quella persona avrebbe raccontato la sua veglia?

                                               *** 

Un romanzo sarebbe stato visitare tutti quei vecchi che dormivano e per i quali quella sera era stata identica a tutte le altre ed essi, subito dopo la cena, s’erano risolti al letto e se si fosse finiti loro accanto (una lampadina a luce bassa, giallognola, rimaneva accesa tutta la notte), il viso sarebbe stato scolpito in una smorfia di dolore o anche, più semplicemente, di stupore.

                                               ***

Non avevo confidenza con Flavio e poi, all’epoca di questi pensieri, ero un adolescente e dunque non potevo domandargli che cosa, tra il film e le cantanti, egli considerasse meno fragoroso, e comunque sarebbe stato un evento per me sapere a che ora lui si risolveva al sonno, e l’affresco sotto le sue finestre era una bella fila di sedie.

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I muri della casa di Flavio s’impregnavano dell’odore di noccioline che venivano vendute in lunghi pacchetti di carta di colore rosso e blu, scricchiolanti, nitido il ricordo, ma io non volevo quelli già confezionati e desideravo le noccioline che si vedevano oltre l’oblò di quella diavoleria dietro la bancarella.

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La macchina delle noccioline con tutto l’armamentario era collocata lateralmente alla ringhiera e le scale della casa di Flavio e mai che costui volle esigere una distanza, semplicemente vide scorrere il tempo della festa, la banda, la processione, i larghi abbracci augurandosi subito il ripristino del silenzio. 

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La pistola a schizzo era di plastica trasparente e di colore verde fosforescente e un anno fu in mostra nella bancarella centrale della Piazza davanti agli alberi e quei venditori provenivano da Chieti, e la pistola a schizzo svelava tutta la sua intimità che era una sequenza di segmenti di plastica bianca ed era fantastico quel sistema idraulico in bella vista.

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Della pistola a schizzo non era da trascurare il tappo sollevando il quale si poteva immettere l’acqua riempiendo quel giocattolo e vedendolo sia colmo che a secco a seconda se s’era molto sparato, cioè schizzato verso nemici non immaginari e che finivano nel nostro campo visivo, e quel tappo, piccolo e cilindrico, era bianco, posto in alto, posteriormente, alla destra della pistola, e s’incastrava bene nel foro e non si perdeva perché un tutt’uno con un lembo la cui parte finale, oltre il foro, era divaricata.

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Ma Flavio non seppe mai nulla della pistola a schizzo, non rasentò mai le bancarelle né congetturò sui giocattoli della sua fanciullezza paragonandoli con quelli in mostra, e così gli rimase ignota la bellezza di quella pistola di plastica trasparente che si mostrava in tutta la sua nudità.


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Mi sforzavo di capire quale fosse la percezione della festa in Flavio e quanto era in lui di partecipazione o invece di sia pur lieve senso di fastidio, ecco qual’era il mio sentire, e abitare in Piazza era certamente un privilegio ma quella settimana di Ferragosto era rovente non per il sole ma per le adunate.

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In quei giorni Flavio doveva ripensare alle atmosfere autunnali, soprattutto pomeridiane, a quel proficuo vagare per casa, a quel silenzio in cui il conforto veniva dal sole e dalla Piazza deserta, da lievi figure che lì transitavano quasi scusandosi per come macchiavano quello scorcio di città ideale.

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Un silenzio meraviglioso che invece d’inquietare dispensava il sereno  e questo nei pomeriggi autunnali e anche d’inverno nella Piazza deserta ma anche in quel luogo con muretto di fronte alla casa di Gioconda e che precedeva l’arco dei Giacobbe, oh sì, erano quelli i luoghi di Assergi ad alto contenuto metafisico.

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Ad impostarmi in simili luoghi c’era il rischio di frantumare quel silenzio che s’era instaurato dal mattino, e forse lì non era transitato nessuno e anche la mia presenza provocava una mutazione e, pur rimanendo muto, quella quiete s’era scheggiata e a causare tutto questo erano stati i miei occhi.

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La gioia era stare in quei luoghi ma non incontrare nessuno perché era impossibile che potessi osare delle ricognizioni sugli assenti con qualcuno che passando di là m’avrebbe salutato, ed ero convinto che per vedere oltre si doveva pensare in solitaria, farsi male con delle riflessioni a oltranza.
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Rimanevo tranquillo sperando che l’assenza di persone lì continuasse e v’era tutt’intorno un’aria di minaccia che invitava a rimanere dentro casa e, al massimo, occhieggiare da dietro gli scuri e quel silenzio era fortificante e valutavo la differenza che c’era dai giorni di Ferragosto quando gli auguri erano in libera uscita.

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Scarna di parole l’aria in quei pomeriggi gelidi durante i quali guardare l’orologio sul camino equivaleva a stupirsi perché s’era ancora in vita e la vista dell’ora sollevava il concetto di identità che s’era un po’ assopito e il pranzo era terminato da poco ma l’odore degli stracci ammassati resisteva e invitava ad abbracciare i nonni.

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Più che comporre sospiri, i nonni non potevano fare ed era una melodia dolorosa ma a tratti donava tepore all’animo e si sarebbero voluti custodire quei silenzi accanto al camino e nello sguardo dei nonni c’era scolpita come una resa dei conti, proprio così, e gli stracci ammassati equivalevano a sentire il grazie degli antenati.

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Non esisteva per me un luogo più evocatore d’immagini come il muretto di fronte a Gioconda e prima dell’arco dei Giacobbe e questo sentimento lo coglievo soprattutto a Ferragosto quando le persone erano in esondazione d’auguri rispetto al silenzio autunnale, sì, ad agosto straparlavano per mancanza di argomenti.

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Quel silenzio me lo ricostruivo interiormente ed era in me anche al Ferragosto, anzi, in quei giorni della festa lavoravo interiormente per meglio ricostituire quell’affresco autunnale che era veramente una esemplare condizione dello spirito, un chiostro dove trovare riparo quando s’era esausti di tutto.

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In quei pomeriggi autunnali si stabiliva un contatto veramente intimo con le cose ed il paesaggio e, quanto alle persone, erano ancora più vive in me proprio perché lontane, al riparo, custodite in quelle mura che grondavano di ricordi e di coniugazioni al passato, in colloquio intimo con i propri morti, a parlar chiaro.

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Doveva restare tutto così e quell’affresco interiore sarebbe rimasto integro, senza la minima crepa, fino a che non sarebbe comparsa nello scenario una persona che, inconsapevolmente, avrebbe scheggiato tutta la mia intima rappresentazione ma quella persona non sapeva nulla di cosa io stessi elaborando e neppure perché fosse quello il mio luogo.

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In quel silenzio c’era di tutto, si riassumevano tutte le esistenze di Assergi ed in alcuni nomi ascoltati a casa da mia madre pulsava la mia anagrafe celeste comparendomi in mente Alberico Giacobbe,  Concetta Mosca (la maestrina), Domenica Scarcia (la Cupella) e l’adolescente Brigida Giusti, salita in cielo il 24 giugno del 1934.

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Alberico Giacobbe, fratello di mia nonna, morto attorno al 1930, era in me come se l’avessi conosciuto e mia madre lo ricordava appena, del resto a quel tempo era una bimba, proprio così, ed io con quel lirismo materno ascoltato, allestivo una piccola biografia di Alberico, senza dati, senza narrazioni ben distese ma soltanto con il sentimento.

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Così Alberico aveva il suo ovale a mezz’aria, un piccolo medaglione ed era proprio in quel luogo, dinanzi alla casa di Gioconda, che vedevo ondeggiare quel pendaglio, quanto ai tratti del suo viso provvedevo ad affrescarlo da solo come se fossi uscito dalla bottega del Verrocchio.


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Da tutto questo si capiva come avevo bisogno di solitudine e silenzio ed ogni persona che appariva, spuntando magari da un vicolo, era un danneggiamento a queste mie regole interiori, rimanendo chiaro comunque che avrei scambiato i saluti con il sopraggiungente e forse ci saremmo inoltrati anche in narrazioni.

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Ma il sopraggiungente ignorava il mio labirinto interiore del quale non che io andassi fiero ma che, ahimè, esisteva, con tutti i suoi effetti collaterali riferibili al pensare ossessivo e al ricongiungere esistenze e congetturare quindi su ipotesi metafisiche e già scegliere un luogo e sollevarlo sugli altri era un addolorarsi.

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Ed io arrivavo ad invidiare non poco l’aspetto pratico del sopraggiungente non ignorando affatto che costui potesse allestire pensieri profondi ma che non fosse (come me) un accanito perlustratore delle realtà che ci cadevano ogni giorno dinanzi, ecco, il suo dolore accadeva con più disinvoltura.

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Dunque il sopraggiungente mi distoglieva dalle ricognizioni, mi concedeva una pausa, un time out per riprendere fiato, riorganizzare le idee, comporre un sorriso, in verità egli era un puntello per il mio animo, un restauratore per me inquieto acchiappafarfalle, vagante con la testa, lì, sul muretto prima dell’arco dei Giacobbe.

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Il sopraggiungente chiedeva subito dei miei a casa, di quando eravamo arrivati e per quanto ci saremmo trattenuti ad Assergi, insomma mi voleva bene e questo non faceva altro che aggravare il mio sentimento perché con quelle parole per me lo avrei dovuto subito abbracciare.

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E abbracciarlo avrebbe significato custodirlo ovvero avere nitida la sua immagine in me e quel nitore non si sarebbe mai sbiadito ed anzi avrei dovuto osare per lui una manutenzione affettiva ed era probabile che il mio pensiero avrebbe riguardato quella persona anche fuori Assergi.


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E comunque il passeggiare in quel punto di Assergi chiariva molte cose riguardo al tempo dissolto e così, al sole sul muretto, corrispondeva l’ombra sotto l’arco dei Giacobbe e in quella doppia opportunità che mi offriva lo scenario, il pensiero s’affinava e potevo meglio organizzare il Dubbio.

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La tradizione orale aveva in me una ricaduta favorevole (quante ne avevo ascoltate di storie a casa e in certi angoli spettacolari) e si poteva ben dire che quelle parole ascoltate erano finite in buone mani, altrimenti con il tempo avrebbero ondeggiato in cantucci restaurati, in recuperi in pietra, insomma nel nitido nulla.

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A volte mi sentivo del tutto estraneo allo scenario e mi creavo arditamente immagini d’altri secoli in cui un naturalista o un acchiappafarfalle irrompevano in quel silenzio e finivano in storie di locande, in carrozze con cavalli, in scenari con avventurieri e fanciulle e così s’era nel XVIII secolo.

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E questo era vero, fantasticavo dunque, ma s’ha da essere onesti, di certe figure di Assergi mi sarei ricordato più io rispetto ad altri, nessun merito in verità, soltanto un più accentuato stato emotivo e  d’improvviso adesso mi si compone dentro un grande mosaico bizantino pieno di figure, ed è giunta, per così dire, la resa dei conti.

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Le immagini catalogate durante il Ferragosto apparivano ogni tanto con i giusti riferimenti mentre le professioni di fede ascoltate come pure gli auguri erano evaporati e così ciò che rimaneva era un volto, poi qualche parola colta al volo, un lento ritorno a casa, uno smarrimento alla fine ricomposto.

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Mentre io ero in contemplazione del muretto sul quale il sole aveva disteso il suo tepore, ecco che irrompeva nella mia mente chi viveva in America, in Australia, in Venezuela, in Canada, in Francia, persone che avevo rivisto ad agosto, ed il mio pensiero era cosa stessero facendo in quei precisi momenti nei loro paesi.

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Che giorni meravigliosi quelli passati in contemplazione senza nessuno in strada, in quell’ora pomeridiana che sapeva spesso di febbre dietro gli scuri, e le coste del mulino m’erano davanti e dovevo ubriacarmi d’immagini perché il mio soggiorno durava pochi giorni e in quel luogo vi andavo come in un pellegrinaggio privato.

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Se superavo l’arco dei Giacobbe, la Piazza sembrava avvolgermi nel suo abbraccio e così rimanevo al principio della discesa, vicino alla ringhiera, con la casa di Lidia sulla destra, e più giù, a breve distanza, ecco gli alberi, le panchine deserte, la fontana senza donne né conche, e allora s’immaginava la cucina di quelle case come un santuario a portata di mano.

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Potevano avermi visto poco prima poggiato sul muretto, era possibile che da dietro gli scuri qualcuno m’avesse ghermito con lo sguardo ma quella figura aveva optato per il silenzio forse perché sapeva che la mia contemplazione nei decenni avrebbe dato ottimi frutti, oppure, più semplicemente, sapeva che il silenzio era dispensatore di quiete.

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Si trattava indubbiamente di persone pratiche che non potevano pensare che vi fossero individui dediti alla contemplazione per mestiere, era tempo perso, e per loro io ero lì per accorgermi di qualcosa, studiare una certa situazione, lo spirituale poteva accadere anche a casa ma s’innalzava per lo più in chiesa.

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Un pomeriggio autunnale con il sole ed io che ero giunto ad Assergi e, una volta uscito di casa, avevo raggiunto quel muretto ma lì il silenzio era a volte lacerato da qualche macchina di un fuggitivo alla buona che per fortuna non mi conosceva oppure aveva fretta e malgrado quel fragore io ero rimasto con lo sguardo alle Cartiche dando sempre le spalle (ma per ragioni di paesaggio) alla casa di Gioconda.

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Quel luogo era un’opportunità di sereno ma doveva verificarsi anche il silenzio intorno e poi la mancanza di persone così che non si sarebbe scossa quella quiete, sublime condizione in cui tutto mi si chiariva dentro come possibilità di ricognizione, l’affastellarsi nitido di esistenze ma era con l’autunno e poi l’inverno che in quel luogo mi sentivo protetto come in uno scrigno.

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Pure se Maria dì mbò occhieggiava dall’uscio di casa, la sua presenza non scheggiava quel silenzio e forse anche lei in quell’ora pomeridiana valutava da seduta il valore della quiete ma le si illuminava il viso se sopraggiungeva qualcuno, ecco, quel qualcuno era la possibilità che lei aveva d’annunciarsi, di comunicare che faceva ancora parte del mondo.

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Quello sguardo dal basso (era seduta su un gradino interno) pareva confortarmi e Maria dì mbò era sempre al suo posto nell’ora pomeridiana che trasudava di avvenute partenze, lettere dall’America, scritture private, correzioni d’un testamento, muri a confine, fienili e pagliarucci contesi, liti sotto una tracenna o imprecazioni di lato ad un terreno d’erba medica.

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In quell’ora fatale tutto tornava in mente e i torti subiti venivano passati in rassegna con dolore e così in uno sguardo si poteva cogliere tutto questo, non era necessario esporre quanto subìto, si leggeva ogni fatto in quegli occhi increspati di pena, in quelle labbra serrate che erano sul confine del pianto.

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Ecco, dovevo valutare anche questi pensieri nel mentre ero solo sul muretto e guardavo le Cartiche, di fronte, e anche la strada in discesa che conduceva alla casa di Lidia e poi alla fontanella ricamata di muschio e incastrata sotto il muro della Piazza di fronte alla casa di Orlando Medoro e poi alla proprietà di Cesare di Piripacchio.

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A proposito della casa di Orlando Medoro, mi chiedevo spesso quali grandi opportunità di silenzio essa offrisse vista la sua eccellente posizione, ecco, dalle finestre verso la valle si potevano cogliere mirabilmente le Cartiche, le Coste del Mulino e poi abbracciare il percorso del fiume, risalirlo, e così da Rive alle Pernagnova, da Piè le Vigne alla Sbota fino alla Casa Latina, oh sì, per me quella casa era fantastica per sognare.

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Quella casa di Orlando Medoro si trovava lungo la stessa traiettoria del muretto di fronte alla casa di Gioconda, quindi, collocarsi dietro quelle finestre, sarebbe stato per me motivo di serenità perché avrei ripetuto quelle azioni del riflettere e del fantasticare ma bene al chiuso e con il silenzio a dominare la scena e senza nessuno in strada che avrebbe potuto scheggiare quella mia condizione di quiete e forse mi sarei potuto anche sedere in poltrona o distendermi sul letto e avviare così tutte le ricognizioni interiori da una finestra spalancata sul silenzio.

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Pensare, pensare che quei luoghi a me favorevoli iniziavano dalla casa di Cristina Longa e dal muretto di fronte la casa di Gioconda e proseguivano in giù verso la casa di Lidia e poi la casa di Orlando Medoro e quindi di Cesare di Piripacchio, ed era come una dorsale del silenzio quella che inseguivo con una lievissima melodia che sorgeva da quella piccola fonte a vasche colme e ricamate in ogni loro punto dal muschio che, a tratti, staccandosi da una parete, costituiva degli isolotti di natura.


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Il getto fluente dalla fontana nella Piazza e il gocciolio dal grosso sbocco nella piccola fontana sotto il muro, ed era questa la vera metafora sul silenzio e dunque quelle case sotto la Piazza s’accordavano a quel ritmo benevolo e a me pareva che quel muro costituisse un confine tra il rumore e la quiete e a notte fonda sarebbe stato bellissimo da un uscio di Orlando Medoro valutare quel suono diverso tra le due fontane, ed avrei sempre optato per il gocciolio.

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Era a salvarmi quell’idea che alla fine tutto si sarebbe ricongiunto, con questo mi pacificavo e con quel silenzio che m’avrebbe poi condotto dinanzi a case abbandonate con porte malsicure viste le assi allentate e la serratura lesionata ed i miei occhi che potevano finire in quell’intimità per la gioia del cuore.

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