I MIRACOLI DELLA MEMORIA

                         Il buon senso ci dice che le cose della terra
                         durano poco, e che la vera realtà si trova soltanto
                         nei sogni.


                     Charles Baudelaire

- di Fernando Acitelli -

Tenni sempre a mente Maria Antonia Corrieri. Quando d’estate tornavo ad Assergi succedeva questo: dopo un paio di giorni mi relazionavo su tutti coloro che avevo incontrato e poi stilavo la lista dei cosiddetti “assenti”, cioè di coloro con i quali ancora non mi ero rivisto. Non che mi mettessi nei pressi del loro uscio in attesa che costoro uscissero di casa, no, semplicemente attendevo sapendo che prima o poi anche quella casella sarebbe stata riempita. Una volta rivisti tutti, la gioia sopraggiungeva ed anche la festa in arrivo sarebbe stata più bella. A quel punto avrei ripetuto a me stesso che regnava la quiete ovunque e tutto questo era rassicurante. Si rinnovava dunque quella lieta malinconia che già allora mi accompagnava. Quando m’imbattevo in Mariuccia (così nel ricordo mi piace nominarla) ero contento e con il passare degli anni la considerai, intimamente, come una persona di famiglia. Un’immagine favorevole: nel mio scenario emotivo c’era anche lei. Era il suo sguardo mite, buono, spesso rassegnato a farmela sentire accanto e mi era sufficiente il suo saluto per far sì che io l’avvertissi in salute e con l’animo sereno. Anche il semplice saluto sa spesso spiegare l’intimo delle persone e chi s’aggira invece nelle regioni dell’angoscia difficilmente saluta in strada, beninteso non per mancanza d’educazione ma per le turbolenze dell’animo. Ora c’è da chiedersi il perché certe persone ci rimangono dentro ed altre, invece, pur rammentandole, non ci provocano un coinvolgimento. È un discorso, credo, legato alla Memoria (con l’iniziale maiuscola perché luogo universale e non semplice archivio dei ricordi). Naturalmente devo parlare di me e delle sollecitazioni che sento interiormente. Che la Memoria abbia degli effetti collaterali, è noto. È inoltre noto come la sua perdita, in caso di vecchiaia ed anche con l’agguato di malattie degenerative, confini l’individuo che viene aggredito in un vicolo cieco dove non soltanto non c’è luce ma dove costui non può più rapportarsi ai suoi affetti e dunque al filmato di tutti i suoi vissuti. Ci si trova dunque di fronte a due malattie: una dell’anima e un’altra degli emisferi cerebrali. Si può dunque dire che anche una Memoria integra “non sempre è un dono” perché il ricordare frenetico è anche dolore, e a lungo andare sfianca. Per scordarsi del dolore dell’esistenza si può finire nel cosiddetto “oblio dell’Essere” e quasi comporre un elogio della dimenticanza. E quando si sente dire: «Ah, quella persona ha più di novant’anni ma conserva una mente lucidissima.» - ebbene, tutto questo in noi risuona come una salvezza per quei giorni che dovranno in futuro riguardarci. Dunque, sapendo che quella persona ha una mente ancora lucidissima siamo contenti e quell’esempio è per noi fortificante e se per caso si tratta d’un nostro parente, ricostruiamo tutto l’albero genealogico dove, naturalmente, pure noi siamo compresi, anche come genetica. E a quel punto gli «Evviva!» e gli «Osanna!» si librano nel cielo ma ricadono immediatamente al suolo come i residui dei fuochi di artificio. Tutto questo per dire che la Memoria (in questo articolo si vede come Mariuccia sia uno dei tanti tasselli del mosaico) è la malattia dell’anima – il dolore per il divenire - e contro di essa c’è ben poco da fare. Uno nasce con un simile affresco interiore e se lo porta dietro fino all’ultimo giorno. Di fatto tutti gli archivi della mente vengono esaminati come accade agli studiosi nelle grandi ricostruzioni storiche; soltanto che gli storici devono analizzare i fatti, le epoche e poi tutto quanto accadde in un determinato periodo ma essi - per la loro professione - non sono addentro al dolore e alla disperazione e questi sentimenti non fanno parte del loro lavoro. Beninteso tutto il dolore – quello vero, quello che li riguarda - lo proveranno in privato, cioè nel frenetico dispiegarsi delle ore e dei giorni. Dunque, nella penombra, anche per essi partirà il lungo filmato che riguarda la loro esistenza. Al contrario ci sono persone che “vivono incastrate” nel dolore, anzi, si può dire che la loro attività è proprio un continuo lavorare su questo sentimento; ed è un lavoro non retribuito e che nessuna autorità riconosce come opera. In un certo senso si è addolorati “gratis”. Ma è proprio questa gratuità che rende autentico un simile dolore. Mai avrei pensato da bambino di dedicare dei racconti a coloro che a quel tempo incrociai per strada. E dunque non potevo immaginare delle righe per Mariuccia, la moglie di Carlo Mosca. La vita di Mariuccia mi fu sempre cara e, nell’estrema lucidità di adesso, ella m’appare di continuo e la sua figura m’è ancora più fragile di quando mi compariva davanti. Lei si mostrava sempre con un lieve sorriso e con quella solenne dignità che illumina e che pare la luce attorno alla testa d’un santo. Insomma la sua vita si svelava AUTENTICA. Un’esistenza senza pose, senza costruzioni mentali: semplicemente lei con tutto il suo affresco di purezza. A questo dipinto si doveva aggiungere la sofferenza. Per come la ricordo, Mariuccia poggiava la sua testa un po’ lateralmente e così una sua spalla diventava una sorta di basamento. In questo modo la sua osservazione della realtà avveniva in un modo un po’ sofferto, “innaturale” ma per lei l’importante era vedere la vita, attraversarla, sentirla con tutti i colori, attorno, degli affetti e delle amicizie. Il suo sguardo tenero, buono, comprensivo, con gli occhietti sempre pronti a rintuzzare una frase scortese, un modo brusco da parte di qualcuno: «Non è niente! Non è niente!» – avrebbe esclamato all’ennesima ferita che gli aveva riservato la vita. Ora questa frase, è parto della mia fantasia ma con buone probabilità lei la compose (assieme ad altre, ovviamente) nella sua mente buona, limpida, e adesso mi rimbomba dentro ed è in questi momenti che non considero una fortuna essere un ricognitore di ricordi, cioè avere a che fare con la Memoria. Almeno nei modi in cui a me l’ippocampo bussa e chiede udienza. Ma tentiamo di fare un po’ di chiarezza: c’è dunque la memoria come ricordo e c’è la memoria come dolore. La differenza tra queste due rappresentazioni è notevole. Chi la vive solamente come ricordo riesce ogni tanto a recuperare certi episodi lontani, certi fatti a volte intensi e a volte curiosi, ma in costui vi è soltanto l’esposizione fredda di alcuni episodi remoti e insomma è come, un po’, se si prendesse una cartella da un archivio e si leggesse cosa in essa c’è scritto a proposito di una persona o di più persone. In fondo in costui c’è una distanza da quei fatti e un’assenza di immedesimazione: la persona evocata gli interessa superficialmente. Tutto s’esaurisce lì e costui (giustamente, ma chi può stabilirlo?) alla fine sorride, felice di aver riportato alla luce un evento remoto e s’aspetta che chi lo sta ascoltando si stupisca favorevolmente per una simile rammemorazione. E magari l’ascoltatore dirà che colui che ha raccontato quei fatti dispone d’una memoria prodigiosa. Ma per me è diverso ed io alle sollecitazioni della Memoria devo comunque rispondere, come quando, tante volte, mi si è composta nella mente l’immagine di Mariuccia. E quale altro stratagemma per placarmi posseggo se non una “messa a terra” con uno scritto? Con la scrittura come in una “messa a terra” in un impianto elettrico, ecco che quell’eccesso di energia viene attenuato e fatto disperdere nel terreno o, nel mio caso, sulla pagina. E se la corrente elettrica è sempre in agguato, lo stesso accade con un ricordo caro. Il ricordo è sofferenza perché riportare in primo piano, nel caso specifico Mariuccia o magari anche un’altra persona, è in un certo senso rivivere un tempo dissolto. E se tentiamo di evitare i suggerimenti che ci vengono dati, ecco che la Memoria ci aggredirà con uno scappellotto ripresentandoci davanti quel personaggio di cui avevano, in un certo senso, più o meno volutamente, perso le tracce. Ma è anche vero che lo scrivere è esso stesso un atto di purezza – almeno quando si avverte in sottofondo la poesia – e il vedere sulla pagina il personaggio evocato e ri-chiamato sulla scena del mondo è una manifestazione di fedeltà alla vita. E chi scrive lo riporta qui e guida le sue azioni e scolpisce i suoi tratti. La sua figura (anche se sfuocata), i luoghi, le giuste rappresentazioni tutt’intorno, sono fotogrammi da cui è difficile staccarsi. Sono quei mattini di sole ad Assergi quando pure accadeva di non vedere nessuno in strada e le cicale erano le sole padrone dell’ora. Ed un cane era a zonzo, felice come solo lui sapeva. Sbandava un poco ma era felice malgrado si mostrasse smagrito e con il suo costato in bella vista. In quali luoghi avrebbe composto il pranzo e poi la cena? Vicino a quale pagliaio? E uno sconfinamento verso il fiume quali immagini gli avrebbe sollevato dentro? Avrebbe lui pensato al ieri e all’altro ieri? Non solo non aveva da mangiare ma si sarebbe anche dovuto difendere da rivali più forti fisicamente e aggressivi. Questa era la vita. Si poteva cambiare la carta geografica ma un bisbiglio di bene s’avvertiva raramente. Rivedo cani a zonzo lungo la Strada Ritta nell’ora immobile delle 13,42, o anche lungo la statale 17 bis quando forse un cane aveva capito fosse buona cosa abbandonare Assergi. Quel cane/bohemien lasciava il borgo che non gli aveva riservato nulla di buono. Ma sarebbe stata vita dura anche altrove. Ecco, la Memoria come dolore fa scaturire anche queste domande e queste conclusioni. Ma torniamo a Mariuccia e alla sua vita che io posso riassumere con pochi fotogrammi.  Descrivo una traiettoria lieve, dalla sua casa fino al pagliaio, del resto posso contare soltanto su quegli incontri occasionali verso il pagliaio o sulla strada di casa. Conosco il tratto iniziale ed anche quello d’approdo. Per il di più dovrei fare delle ricerche, chiedere l’intervento di più persone, ascoltare i loro pareri, scremare molto, ma tutto questo non è importante tanto la questione è e resta metafisica: il Bene e l’Oblio. L’essenziale, al solito, è avere bene a mente il punto iniziale e l’approdo, poi la fantasia si può comporre. È come se in simile traiettoria fosse riassunta tutta la sua vita. Dunque, dunque, vediamo Mariuccia  uscire da casa, è il tardo pomeriggio: sfila dinanzi alla casa di Luigi Vitocco, di Daniele Massimi e quindi sale le scale che conducono dinanzi alla casa di Mantella; lì giunta svolta a destra superando in ordine la casa di Cialfi, quella di Gesualdino, quella della Finanziera, le “scale della vecchia”, la casa di Amelia, la dimora di Teresa Giacobbe e Domenico Giampaoli, l’arco dei Lalli, la “guarnigione” della famiglia Scarcia, poi Laudino e Nicolina fino all’immagine della Madonna. Lì giunta, Mariuccia si dispone nelle regioni della Fede e si sarebbe dovuta filmare quella sua azione del sollevare lo sguardo e centrare la sacra immagine. Un lieve tremore sul viso, un silenzio fortificante e che lascia supporre tutte le religioni del mondo riassunte in una sola parola, anche in un lievissimo bisbiglio. La Verità è tutta racchiusa in questa immagine e Mariuccia è contenta perché al ritorno, sulla strada di casa, potrà ripetere questo suo atto puro, questa inclinazione verso il sacro: qualcuno osserverà questa sua attitudine. Naturalmente lei porta un secchio nella mano destra perché al pagliaio vi sono molte creature che l’aspettano. E così, superata la Bucia, eccola attraversare quel belvedere di “arboretti”, affresco di natura che dona sollievo perché gli alberi ed il verde da sempre trasmettono un sentimento di vita. Alla fontana della Porta del Colle un asino sta dissetandosi, è quello di Domenicuccia la Forrarella, un asino alto, ben messo, e che ha la stalla di fronte alla casa di Pupucc e prima di quella, alla curva, di Franco di Adamo. Breve ricognizione su chi va e chi viene e dunque svolta a destra con, alla sinistra, l’orto di Mario Acitelli, di fronte quello di Franca Alloggia cioè “Pitturina”, e quindi in progressione la comare della Foletta, Antonietta di Sarina, Linda e Antonio, Angelo Rapiti e Giacinta, e poi Pupucc. In questo rettilineo le ricognizioni mentali di Mariuccia sono molteplici ed in ogni ritaglio di realtà lei compone immagini di bene e questo lo si può notare dalla serenità del suo sguardo sul quale mai si compone una tensione come da pensieri intricati o tumulti dell’animo. Ora io, da fanciullo e poi da adolescente, osservavo tutto questo e se il tragitto che narro è immaginario, nel ricordo è autentico perché l’avvistavo veramente Mariuccia e così delle schegge di sublime qua e là resistono e in quei momenti potevo sul serio annotare in quali intensità fosse versato il suo sguardo. E dunque quanto manca per giungere al pagliaio? Poco, e infatti dopo la svolta c’è da gettare uno sguardo all’arco incantevole dove l’ombra pare un piccolo rifugio e giù, in fondo, è un lieto evento la stalla di Vincenzo Mosca. In quello splendido silenzio del primo tratto dell’arco che prepara al cortile, sembra annunciarsi l’imponente baio di Manetta. In questo accorto procedere verso la sua corte, Mariuccia osserva ogni dettaglio di quella strada e così coglie anche una voce che rimbomba dall’abitazione di Domenico Acitelli, rimbomba perché è una casa di nuova costruzione e sulle scale e negli ambienti anche una semplice frase s’ingigantisce nel tono. È una voce che quasi mette timore. Certo, non è la quiete delle antiche casa dove ogni frase veniva attutita dai muri in pietra e dalle consuetudini. Sarebbe stato interessante sapere cosa ne pensasse Mariuccia di quelle frasi d’un tono imponente, metallico, quasi con l’eco. È quasi giunta a destino, manca poco, dopo la prossima svolta – di fronte all’ara dei Giusti – imboccherà quel vicolo che rasserena e che sembra stato creato apposta per lei. Un ultimo sforzo, è quasi fatta, il maiale e le galline attendono ma si rendono conto che la puntualità di quella figura gentile è una certezza. Si può dire che quegli animali sono in un’ansia moderata che non potrà mutarsi in angoscia. Vicino al pagliaio dei Brardella qualcuno procede verso il basso: non sono persone di Assergi, forse annoiati villeggianti che ovunque cercano il “pittoresco”. Mariuccia osserva quelle figure vocianti e colorate ma lei ormai è in dirittura d’arrivo e ha in mente soltanto la sua opera. Il vicolo finalmente è imboccato e la serenità coglie Mariuccia che considera quel luogo come un prolungamento della sua casa. Dona la sua laboriosità agli animali che l’attendevano: in breve anch’essi sono pacificati. Lei poi si siede ed osserva (è proprio il caso di dire) quella sua serenità e si stupisce del modo in cui quella quiete si rinnova ogni giorno. È un tempo prezioso quello, e se anche quel giorno sta per dissolversi Mariuccia ha provveduto a tutto e sarà questa pace interiore ad accarezzarla e proteggerla per la sera che già s’annuncia. Sulla via del ritorno avrà nella mano destra il secchio con qualche tronchetto di legno, le famose lena che provvederanno al tepore. Non è propriamente una fantasia questa, è la riproposizione di un’opera impeccabile da parte di un’anima buona che per molto tempo donò colore, intensità e sentimento ai sentieri ed ai vicoli di Assergi.



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