I CACIARI D'ABRUZZO

INTRODUZIONE DI GIUSEPPE LALLI

 

Il seguente piccolo e denso scritto che Maria Elena Cialente, scrittrice aquilana di cui abbiamo di recente pubblicato un altro raccontino, ci propone  riguarda le nostre contrade.

Esso si  ispira alla migrazione stagionale dei maestri caseari che dalle montagne dell'interno, in particolare da comuni come Lucoli e Castel del Monte, si recavano a fare il formaggio per le aziende casearie sarde. Quest’ultime ne richiedevano la manodopera per l'alta preparazione raggiunta dai nostri pastori nel settore. Quelli che compaiono nel testo sono i racconti, sintetizzati all'osso, che la scrittrice ha ascoltato dalla viva voce dei suoi nonni, che da Lucoli andavano in Sardegna. Il nonno paterno era un maestro caseario, mentre  quello materno lavorava nell’azienda come contabile.  Molti uomini di Lucoli, fino agli anni ‘60 del secolo scorso, andavano a lavorare in Sardegna e spesso portavano anche i loro ragazzi, la cui manodopera costava di meno. Pochi erano i lucolani che andavano a lavorare in Francia o in Germania. I maestri caseari nel dialetto di Lucoli erano chiamati “i caciari".

Il tema è molto interessante e meriterebbe una ricerca a più ampio raggio. (g.l.)

 

                                           I “CACIARI” D’ABRUZZO

                                         

                                            di Maria Elena Cialente
 

Il mare era gonfio e scuro. Trame di luce, sottili come spilli, tracciavano nel cielo confuse tele di ragno. Nino guardò dall’oblò la linea dell’orizzonte nel punto in cui la nave aveva abbandonato Civitavecchia e pensò alle raccomandazioni di sua madre, che lo aveva ripetutamente pregato di  non prendersi un malanno, motivo per cui avrebbe finito per gravare sul bilancio famigliare anziché essere d’aiuto. Se ne stava, così,  rintanato sottocoperta per  non prendere freddo. Suo padre, invece, intabarrato nell’unico cappotto buono di sua proprietà, era salito sul ponte per fare compagnia a compare Alberico, rimasto fuori a fumare con un anziano collega di Castel del Monte: come tutti era partito a fine dicembre e sarebbe ritornato a giugno indossando una giacca o una camicia, se il caldo fosse divenuto subito insopportabile.

Nino frugò tra i miseri vestiti che riempivano la piccola valigia di cartone: il corredo consisteva in pochi indumenti intimi per il cambio e in una maglia di cotone più leggera da indossare con l’arrivo della bella stagione. In Sardegna la primavera  sarebbe arrivata presto, di gran carriera, e non con il lento pede con cui era solita arrancare tra i fianchi dei monti della vallata lucolana che gli aveva dato i natali. Si ritrovò tra le mani il rosario di nonna Adalgisa: scrutò i grani lignei e consumati e guardò con malinconia l’immaginetta dell’arcangelo Michele mentre sfoderava la sua potente spada contro il maligno. Quindi controllò che i documenti da consegnare alla ditta casearia che lo aveva richiesto all’ufficio di collocamento di Lucoli fossero tutti al loro posto: l’ufficio forniva i nominativi e gli indirizzi e le ditte sarde contattavano direttamente il personale da assumere come manodopera.

Nino avrebbe consegnato il tesserino di disoccupazione al suo datore di lavoro e firmato un contratto per i successivi sei mesi. Così avrebbero fatto suo padre e tutti i maestri caseari abruzzesi che viaggiavano con lui sulla stessa nave in direzione di Olbia. Così avevano fatto i suoi nonni da quando la “Società romana” aveva lasciato le campagne che circondavano la capitale per trasferirsi in Sardegna verso la fine dell’Ottocento. La transumanza dei pastori d’Abruzzo aveva assunto anche questo volto: da Vetralla, lo spostamento stagionale aveva da circa un cinquantennio come nuova meta le campagne sarde bruciate dal sole estivo, così aride e spoglie di alberi, così nude per chi era nato tra boschi fitti e nel rigore di quel clima montano che consacrava col suo gelo il cuore dell’Appennino.

Quello sarebbe stato il battesimo di Nino al suo nuovo lavoro: l’arte di fare il formaggio, un’arte antica quanto le ere che affondavano le loro radici nella rivoluzione neolitica, quando i pastori avevano appreso l’arte di creare le “forme di cacio”, continuando a plasmarle nel corso dei successivi millenni con le loro mani dure ed esperte, secondo la memoria di antichi saperi e riti della terra natia. I pastori sardi avrebbero portato loro il latte necessario da scaldare su fornelli costruiti con mattoni, lo avrebbero portato in contenitori di pelle di pecora o in brocche di terracotta. I caciari lo avrebbero poi versato in caldaie di stagno capaci di contenerne sino a mille litri e lo avrebbero lavorato a mano senza orari fissi e senza rivendicazioni sindacali. Come tutti i quattordicenni, in quei primi anni Cinquanta, Nino avrebbe guadagnato intorno alle trentacinquemila lire, cinquemila in meno di un adulto.

Quando il padre scese sottocoperta per la notte, Nino si era ormai raggomitolato sulla sua brandina. Avvolto in una coperta di lana ruvida, con la mano che stringeva ancora il suo piccolo berretto grigio di tessuto spigato, si era addormentato cantando tra sé e sé  l’antica nenia con cui sua nonna era solita affaccendarsi attorno al focolare.



Condividi

    



Commenta L'Articolo