IN USCITA: I MOTI DEL PENNACCHIO (Barricate per il capoluogo) di Antonio Andreucci

I MOTI DEL PENNACCHIO di Antonio Andreucci
di Pescara, Reggio e L'Aquila
 A 50 ANNI DAGLI EVENTI

 IMMINENTE USCITA

 

A 50 anni dall'evento, è in uscita: I MOTI DEL PENNACCHIO di Antonio Andreucci. I Moti non furono una questione di campanile, ma uno scontro di mentalità per i tempi che stavano cambiando e di cui pochi avevano afferrato la portata epocale.

 Pagine che quando vengono rievocate possono suscitare il bruciore di una ferita mai compiutamente rimarginata, oppure l’effetto lenitivo del tempo trascorso o persino l’indifferenza del passaggio generazionale.

Di cosa si tratta?

Questo libro era stato concepito come una cronaca delle sommosse popolari che si svolsero all’Aquila dal 26 al 28 febbraio del 1971 contro quella che fu definita “la guerra per il capoluogo” di regione.

 A cinquant’anni dai Moti sembrava doveroso ricordare cosa avvenne, quali furono gli errori, quale insegnamento la classe politica avrebbe dovuto trarne, e riflettere sul futuro della Regione e di quello che oggi è il suo capoluogo.

Con l'approfondimento della ricerca è sembrato altresì doveroso ricordare che in Abruzzo non ci fu soltanto la ribellione aquilana, ma due ribellioni. A giugno del 1970 ve ne fu una dimenticata e ignorata a Pescara. Non solo: a fare da ideale trait d’union, vi furono i Moti di Reggio Calabria, durati ben sette mesi, con morti, attentanti e la divisione salomonica dell’Istituzione regionale.

Una battaglia per ottenere qualcosa che non si aveva, ma che ognuno riteneva gli spettasse per il passato (L’Aquila), per il presente (Pescara), o per entrambi (Reggio Calabria). Si trattò di Moti popolari, con tutte le caratteristiche, positive e negative, che un’esplosione di sentimenti può provocare.

C’è quindi un filo invisibile che lega tra loro Pescara, Reggio Calabria e L’Aquila: la “guerra del pennacchio", un fregio non solo ornamentale, ma, in quel caso, denso di potere politico e di sviluppo economico.

A distanza di mezzo secolo, accantonate come anacronistiche le contrapposizioni di uno sterile campanilismo che non ha più senso d’essere, quegli errori hanno fatto e scritto la storia.

Le pagine ingiallite del “come eravamo” si trasformano nell’analisi attenta di Andreucci, l'autore, in pagine vive di una narrazione serrata, partecipata e sincera, di un’occasione perduta per compiere quel salto di qualità continuamente annunciato, ma mai compiutamente realizzato dall’Abruzzo, sempre troppo a Sud del Nord e a volte troppo a Nord del Sud.



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