DA ASSERGI A PEEKSKILL: «TANTI AUGURI, ZIA AMELIA!»

- di Fernando Acitelli -

 

Zia Amelia Lalli oggi compie 95 anni e noi la festeggiamo con tanta gioia e siamo ad augurarle ancora tanti anni di serenità: assieme alle figlie Maria e Fausta vive in America dal 1955 e possiamo dunque dire che una parte di Assergi è sul suolo americano. Con il suo sorriso e la sua bontà zia Amelia ha sempre accarezzato e ricamato quel ritaglio di mondo che è la sua casa e inoltre tutti i suoi affetti.

Penso spesso a quando zia Amelia, prima di ripartire per l’America, vide per l’ultima volta suo padre Giuseppe Lalli. In che modo seppe leggergli in viso che la stagione della vecchiaia s’era bene insediata sul suo genitore? Gli occhi celesti – sigillo distintivo per i Lalli – si raggiunsero, scintillarono e se a lei le lacrime rigarono il viso, lui seppe trattenerle perché l’emotività ha anche i suoi sistemi difensivi. E poi un padre non piange… Zia Peppina sì, lì accanto. Su cosa si fissò lo sguardo di zia Amelia nel cortile d’entrata che l’aveva vista bambina, giovinetta e poi donna? Certamente erano appesi strumenti da lavoro sui muri di quello spazio custodito; un gatto forse attraversò il cortile salendo poi le scala, già pregustando un lungo sonnecchiare al sole; zia Peppina forse sussurrò qualcosa inoltrandosi anche lei nelle giuste ma dolorose lacrime. Da parte loro, zia Antonietta e zio Raffaele puntellavano quegli istanti che anticipavano una partenza e si sarebbe volentieri passati al giorno seguente per non soffrire com’è in ogni distacco. Nell’aria s’elevava odore di legna e poi di muschio e di caffè appena fatto. Tutto questo si mescolava all’odore del fustagno, della flanella e delle vesti e la mantella di vecchie donne. Ed era dolore già lo spostarsi dalla Piazzetta del Forno fino al luogo dove stava parcheggiata la macchina per partire direzione Roma, cioè per l’aeroporto: le persone che s’incontravano, i ricordi che riemergevano, il dover spiegare che si ripartiva ma che si sarebbe tornati l’estate successiva. Magari lo si diceva per darsi coraggio e sperare di rivedere ancora i propri cari. E ciò che ci si augurava era soltanto la salute. Chissà quali persone incontrò zia Amelia dirigendosi verso la macchina…Adesso si cercherebbero volentieri quelle persone e ad esse chiederemmo cosa disse zia Amelia in quegli istanti.

Si partiva di nuovo per gli Stati Uniti d’America e dalla Piazzetta del Forno zia Amelia si poneva nuovamente on the way home e così la partenza per Roma, l’aeroporto di Fiumicino e con l’aereo (a quei tempi le compagnie aeree erano rispettivamente l’ALITALIA e la PAN AM) sopra all’oceano Atlantico e poi, dopo circa sette ore di volo, ecco alla vista la baia di New York: casa era vicina, bastava sussurrare un nome, Peekskill, New Jersey, 1608 Magnolia Ave.

Zia Amelia era partita per la prima volta con destinazione Stati Uniti il 4 dicembre 1955 e in quell’occasione era stato un transatlantico denominato CONTE BIANCAMANO a portarla oltre oceano: zio Marino era in America già dal 1954 e così zia Amelia s’imbarcò a Napoli con le sue bambine, Maria di 6 anni e Fausta di 3.

Non sono fatto per le partenze, non amo viaggiare e soffro nel vedere le partenze degli altri. Le partenze da sempre mi hanno scatenato dentro tanto dolore e, quando ho potuto, mi sono defilato per non piangere e per non vedere piangere parenti e amici. Mio nonno Lorenzo, ad esempio, quando noi ripartivamo per Roma piangeva sempre e così è chiara la mia origine a proposito della commozione. Io tutto questo lo sapevo in anticipo e così quando arrivava il momento del commiato, tentavo di non guardare mio nonno per non vedere le sue lacrime. Da questa premessa si capirà come il mio animo non avrebbe retto a quella partenza di zia Amelia e della sua famiglia per gli Stati Uniti e mi consolo pensando che a quel tempo non ero ancora nato.

La Piazzetta del Forno è diventata con il procedere inesausto degli anni un luogo emotivo, anzi il centro dell’emozione pura. Naturalmente ogni luogo di Assergi ricorda case, persone e partenze ma io non posso che parlare di quanto ho respirato in quella piazzetta che ha visto partire tanta gente. Spesso mi accade di passare anche davanti ad altre case che non siano quelle dei miei affetti e cerco di ricostruire le esistenze di chi lasciò Assergi: la loro speranza era di trovare, altrove, una vita migliore. Si tratta di porte chiuse con la toppa della chiave ancora antica: spesso la chiave è grossa, come quella d’un pagliaio. E se le mura sono screpolate a me pare bellissimo, più sono vecchie e più mi spunta il sorriso: ad entrare dentro simili case che non si aprono da decenni, il sogno sarebbe imbattersi in vecchie lettere - magari d’un figlio ai propri genitori - con una grafia stentata che spesso scende dal rigo d’appartenenza. Spesso nella busta che conteneva una di quelle lettere c’era anche qualche dollaro, e così insieme alla commozione dello scrivente s’inviava anche un dono. E i genitori ad Assergi leggendo quelle righe e vedendo una banconota americana non iniziavano forse a piangere? E in verità avevo visto qualche dollaro stipato dentro alla busta, in viaggio dagli Stati Uniti. E un dollaro ancora lo conservo e non l’ho mai cambiato perché il ricordo non ha valore. Ma non è splendido tutto questo?

Zia Amelia e zio Marino erano dirimpettai, la casa di lei era infatti posta di fronte alla casa di lui e se si vuole respirare quel silenzio antico si deve finire nella Piazzetta del Forno nei mesi compresi tra novembre e febbraio. Non passa nessuno lì e la riflessione risulta affare notevole. I muri mi parlano di tutto questo, come pure le piccole aperture delle porte, in basso, che consentivano ai gatti di rifugiarsi nelle cantine. E il tempo tutt’intorno pare sospeso. È proprio da novembre a febbraio il periodo per respirare tutto questo, dalle esistenze scomparse a chi è altrove ma ricorda sempre il proprio nido originario.

Zia Amelia aveva due fratelli, Checco (Francesco), Battista e una sorella, Antonietta. Di questi quattro figli solamente zia Antonietta è rimasta ad Assergi. Da parte sua, zio Marino, che se non ricordo male era del 1918, aveva quattro fratelli, Beniamino, Antonio, Nandino, Giuseppe, e due sorelle Lina e Brigida. Ora, se guardiamo a tutte queste persone dobbiamo arrenderci alle loro partenze: zio Beniamino emigrò in Canada come pure zio Giuseppe; zio Nandino e zio Marino negli Stati Uniti, zio Antonio visse sempre ad Aragno mentre zia Lina compose la sua vita a L’Aquila e zia Brigida a Paganica.

Queste due famiglie, che ricordiamo avevano come genitori da una parte Giuseppe Lalli e Peppina Giacobbe, mentre dall’altra Cristoforo Giusti e Maria Alfonsina Mastracci, dovettero vedere ben sette figli lasciare Assergi. Ecco, caliamoci un poco in un simile affresco: quale gradazione di dolore dovettero sentire i genitori all’atto della partenza dei propri figli? Certamente si dirà che le opportunità di lavoro erano, ad Assergi, quasi del tutto inesistenti e il formarsi una famiglia dipendeva proprio dal lavoro. Dunque c’è una ragione valida ma io mi chiedo se non esista anche una ragione per gli affetti? Parlo naturalmente per me: si possono lasciare dei genitori che già si sono incamminati verso la vecchiaia? Le parole che mi sento dentro sono che non m’è toccato in sorte di soffrire così tanto.

La prima volta che vidi zia Amelia avevo pochi anni: era estate e stavo ad Assergi; doveva essere (forse) il 1962: m’incontrò alla Costa, il segmento che dalla Piazzetta del Forno conduce in discesa alla casa di Antonio Giacobbe e di Pulcheria Lalli. Precisamente si era sotto la casa di Cesare Massimi, persona che in seguito stimai molto per la sua educazione, e ricordo che zia Amelia rivolta a me, disse: «È il figlio di Italo, ha la stessa voce di Fernando…» alludendo al fratello di mio padre che era morto nel 1953. Poi mi venne vicino e mi baciò. Chissà cosa stavo a fare io in quel punto della Costa…! È un ricordo ancora nitido.

Di zia Amelia ricordo tante cose anche se le occasioni di vederci ad Assergi furono poche. Innanzitutto il sorriso che le illuminava lo sguardo e favoriva la conversazione e poi la “carnalità” che nel significato che si dava ad Assergi a questa parola voleva dire profondità di sentimenti. Infatti sentivo spesso dire da mia nonna Maria: «Quant’è carnale su figlie…!» riferendosi a me e, evidentemente, innalzando le mie virtù morali. Un persona che era definita “carnale” non era precisamente una figura superficiale ma uno che metteva al primo posto la questione dell’esistenza e degli affetti che ben sapeva si sarebbero, prima o poi, con il tempo, lacerati. E da qui sia il carattere riflessivo e sia l’aspetto legato alle emozioni. E infatti zia Amelia la vidi spesso piangere quando parlava con mia madre o con zia Brigida o ancora con mia nonna Maria. Dunque vi erano in zia Amelia queste due condizioni che poi facevano parte d’un unico sentimento, ovvero l’amore per la vita: il sorriso della gioia ma, nel ricordare quanto si era passato, ecco che durante la conversazione potevano sgorgare le lacrime. E zia Amelia lo aveva attraversato il dolore se si pensa all’improvvisa morte di zio Marino nel maggio del 1974 subito dopo aver partecipato al funerale di suo fratello Beniamino, in Canada. Dunque zio Marino se n’era volato in cielo a soli cinquantasei anni. E sempre nel maggio del 1974 morì la madre di zio Marino e zio Beniamino, Maria Alfonsina Mastracci; dunque in quella primavera tre componenti di casa Giusti abbandonarono la scena della vita. Si provi un po’ ad attenuare il dolore e poi a rimboccarsi le maniche per riprendere la sequenza dei giorni… Esiste forse un modo per gestire il dolore? Zia Amelia un simile dolore lo attraversò.

Le lacrime di zia Amelia le vidi, precisamente, nell’agosto del 1978 nella cucina di mia nonna alla Piazzetta del Forno: stavamo accanto alla finestra – nei pressi de ju callare - e accadde proprio quanto ho appena descritto. Era di mattina e il sole invadeva con maestria quell’ambiente e sicuramente accarezzava l’animo di tutte le persone: era quel tepore che scalda il cuore prima ancora che il corpo e dispone al sentimento della gioia. Ora penso che se vi fosse stata la pioggia, tutto sarebbe stato molto più triste e forse le lacrime di zia Amelia sarebbero state più intense e di maggior durata sebbene lei avesse intorno persone che non soltanto comprendevano quanto lei raccontava ma sapevano trovare anche le giuste parole per il conforto. Fu in quell’occasione che zia Amelia disse: «Quando ho abbracciato Antonio (Giusti, suo cugino), ho risentito l’odore di Marino…» Frase bellissima, apoteosi dei sentimenti, cortocircuito emotivo che lasciava il segno a chi stava ascoltando. E le giuste lacrime mi parvero la perfetta cornice a quella narrazione e così il vortice delle emozioni coinvolse sia lei che mia madre, mia nonna e zia Brigida. E in quella frase era racchiuso tutto un mondo, quello che precedeva la sua partenza per gli Stati Uniti, un mondo certamente faticoso ma più semplice, con i sentimenti più immediati ed una religiosità pura. Di colpo nell’animo comparivano tanti fotogrammi e la gioia sarebbe stata farli riemergere tutti e dunque spiegarli: persone di Assergi, luoghi, situazioni, e si leggeva nello sguardo di zia Amelia che era grande la sua ansia di raccontare e chi l’ascoltava desiderava sentire per poter dire, in una sintesi breve ma efficace: «È cuscì! È cuscì!» («È così! È così!»)

Dunque, a bene interpretare, quelle lacrime erano come un ripassare tutto l’album della sua vita e si trattò d’uno sfogo benefico, favorevole, che le consentì, poco dopo, di riacquistare un po’ di serenità. E questo fu vero perché il sorriso le spuntò nuovamente e allora le sue narrazioni divennero più serene e c’era in esse qualcosa di propositivo e tra quelle parole faceva la sua comparsa la speranza. E così lei prendeva a parlare dei suoi figli, dei nipoti ma si vedeva che gli affetti erano per lei materia incandescente perché la possibilità che ricomparissero le lacrime era forte. E le citazioni su suo padre e sua madre erano continue ed era come un racconto per immagini potendo, chi ascoltava, inquadrare tutto nelle esatte location, magari il mulino, il maestoso balcone di casa, il pagliaio ai Frati.

In un racconto sono importanti anche le fotografie e le lettere. È un po’ come accade nella Storia che si avvale delle cosiddette scienze ausiliarie che sono la Paleografia e la Diplomatica. Ecco, qualcosa di simile può accadere quando ci si mette a scrivere su una persona e su un luogo; in questo caso le fotografie e le lettere danno sostegno alla narrazione, e in un certo senso confortano perché esse ci consentono di rivedere dei volti, degli sguardi e così la scrittura si migliora, diviene fluente, perché rivediamo persone a noi care e poi luoghi che ci mancavano intimamente ma che non avevamo dimenticato. Con le lettere indaghiamo sui sentimenti, sulle speranze, sul dolore e così il ritratto d’una persona è più facile da narrare e tutto ci appare limpido e a gioirne è la scrittura. E basta anche un rigo per delineare l’animo d’una persona. A tale proposito si senta cosa scrive zia Amelia a proposito di mia madre per il Natale 1993 – For Unto Us A Child Is Born, (Perché per noi è nato un bambino) così stava scritto sul biglietto d’auguri: «Cara Domenicuccia e figli, Oddio Domenica quanto ti voglio bene a te e la famiglia. Non mi posso esprimere per quanto il mio cuore te ne vorrebbe dire. Il mio caro cugino (Italo) veglierà su tutti voi con la sua bontà e serenità che aveva per tutti. Possa lui riposare nelle celesti glorie del Paradiso con tutti i nostri cari che aspettano tutti noi…» Ecco, basterebbero queste frasi per scrivere almeno tre pagine e indagare così sui sentimenti. Le descrizioni non erano mai per gli scenari della natura ma per i paesaggi interiori e l’atto stesso dello scrivere faceva ascoltare il battito del cuore, la melodia dei sentimenti.

Le fotografie mi hanno permesso di finire negli sguardi di zia Amelia, di zio Marino, di zia Peppina, di zio Peppino, e poi zia Lina, zia Brigida, nonna Marietta e nonno Cristoforo (da noi a suo tempo chiamato affettuosamente Zizì). E quello che mi mancava fortemente era la foto di nonna Marietta (Maria Alfonsina Mastracci) e di nonno Cristoforo che vedendolo adesso in due fotografie se ne può ammirare la straordinaria somiglianza con mia madre. Ecco a cosa servono le fotografie! A ricreare atmosfere evaporate e a ricongiungere tratti ed esistenze. E inoltre: cosa dire di zia Amelia giovane? Una perla! Foto meravigliose in cui il suo sorriso si vede appena (come per discrezione) ma che si congiungerà a quello da me ammirato dal vivo, ad Assergi, in diverse occasioni. Anche con zio Marino una sorpresa favorevole; adesso posseggo anche sue foto e sono felice e pare che piano piano il grande “Album di Famiglia” si stia componendo. Il suo sguardo ha molto della madre e si vede in lui l’uomo di sentimenti, votato al bene della famiglia. E poi io penso sempre che si deve portare grande rispetto a chi ha avuto coraggio ed è partito, e ha superato l’oceano Atlantico (o altro mare) e avrà di certo sofferto per i suoi genitori lontani. Con gioia inoltre consegno alla storia di Assergi anche la fotografia che immortala il giorno del matrimonio dei miei genitori, 8 maggio 1955; in essa vi è anche, tra i bambini, Maria, la prima figlia di zia Amelia: fu mia madre a raccontarmi tanto, a svelarmi quella identità. Spero che Maria si riconosca.

Tutto quello che avevo a disposizione l’ho messo in campo e così ho rivisto tanti volti che il tempo aveva reso piano piano come evanescenti ma non dimenticati. Di zia Amelia ho riproposto le prime quattro lettere che ho trovato. Ce ne saranno molte di più ma al momento sono confuse in quell’universo di libri e di ricordi che affolla la mia casa. E se la mia casa sta configurandosi come un piccolo museo, considero questo come la mia più grande impresa, o (dis)avventura, secondo i punti di vista.

Quando alla televisione mia madre vedeva la regina Elisabetta II, ecco che subito pensava a sua cugina Amelia Lalli. L’accostamento era dato dal fatto che la regina è nata il 21 aprile del 1926 mentre mia zia Amelia è sbocciata al mondo nove giorni dopo, vale a dire il 30 aprile. Dunque nella mente di mia madre il volto della regnante era sempre stato accanto a quello di sua cugina. È quella situazione in cui un’immagine rimanda ad un affetto e così si finisce con il voler bene anche a quella persona – in questo caso Elisabetta II – perché costei procede parallelamente alla vita d’un nostro parente. Proviamo ad immaginare i due mondi nel giro di nove giorni: da una parte la tradizione, e così Enrico VIII, Anna Bolena, Elisabetta I, Shakespeare, Carlo I e Cromwell, e così procedendo The United Kingdom, The Union Jack, il Commonwealth; dall’altra parte la quiete affannata d’un borgo su un’altura, le case di pietra che possederle già sembra una fortuna; e poi i vicoli misteriosi, i gatti in cerca d’un alloggio, e quindi il lavoro nei campi e persone chine a faticare tra una preghiera e qualche bestemmia in libera uscita: l’asino e la falce, i soliloqui nel pagliaio o nel fienile. Ma è lo spettacolo della vita ciò che conta, regnante o persona qualunque alla fine coincidono, vale il risveglio, il sole in cielo, i genitori accanto, il focolare, il canto del gallo, i vicini di casa e la vita che pare ogni giorno una meravigliosa scoperta. E alla fine dei giorni ci sarà l’uguaglianza per tutti. E mia nonna Maria che soleva ripetere a nonno Lorenzo: «Ma pure i regnanti hanno tante preoccupazioni.» Ecco, mia nonna con una simile frase poneva la vita in termini d’Assoluto e sembrava dunque dire che sulla Terra anche i più fortunati hanno i loro affanni.

Per mio conto, ho un altro collegamento da fare a proposito di zia Amelia: quando lessi il grande scrittore americano Philip Roth e in particolare due suoi romanzi Pastorale Americana (American Pastoral) e La Macchia Umana (The Human Stain), come sempre accadeva lessi la nota biografica e così seppi che Philip Roth era nato nel 1933 a Newark (New Jersey). Avendo saputo qual’era lo Stato, mi misi alla ricerca di quella città e poi chiesi aiuto al computer per calcolare quanti chilometri Newark era lontana da Peekskill: la risposta arrivò subito, e si trattava di 58, 2 miglia e poco più d’un’ora di macchina. Praticamente quasi la stessa distanza e lo stesso tempo da Roma ad Assergi. E così fui tanto sofisticato (ma anche amorevole) da allineare la vita di Philip Roth a quella di zia Amelia, e pensando ad American Pastoral, potevo tranquillamente immaginare Peekskill. E da quel momento leggere o ascoltare Philip Roth significava pensare a zia Amelia. L’importante era alimentare il ricordo. E questa era veramente una grande cosa.



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