LA LAMBRETTA, IL POSTALE ED ALTRI IMPROBABILI MEZZI DI TRASPORTO

- di Angelo De Angelis -

 
 
Si diffonde nell’aria un lievissimo cicalio intermittente, impercettibile all’orecchio umano, ma non alle orecchie del cane Cicci, volpino dal pelo lungo e nero con macchie di bianco sotto il collo e sulle zampe. A lui quel rumore è noto, comincia a scodinzolare irrequieto attirando l’attenzione di chi gli è vicino.
E’ la settimana di pasqua, le donne del borgo si sono riunite nella grande cucina “deji Ministri” e, sedute in cerchio con uno strofinaccio sulle ginocchia, sbattono con una frusta di acciaio le uova e lo zucchero per farne una spumosa e squisita crema che farà da base per il pan di Spagna che rallegrerà la tavola della Pasqua.
C’è un attimo fugace di silenzio che interrompe il chiacchiericcio che corre di bocca in bocca e che narra di storie lontane o accadute in paese nei giorni precedenti: ed allora si sente, più chiaro e più forte il frinire intermittente prima udito solo dal cane, ed insieme si sente il borbottio inconfondibile del motore ad un cilindro che scoppietta con forza mentre la Lambretta sale faticosamente per la salita della Croce, all’ingresso del borgo.
“Sta a’arrivà”, qualcuna dice. Manca soltanto lui per riunire la famiglia per la festa della resurrezione, ma non è festa soltanto per loro. E’ tutto il paese che gioisce per il ritorno di quel figliol prodigo che si è ormai stabilito a Roma, dove lavora come Finanziere.
Come lui ha fatto tutta la bella gioventù di Santa Maria, che per vivere ha percorso altre strade e lui la rappresenta tutta: è di bell’aspetto, con i suoi penetranti occhi azzurri ed i capelli rossi e crespi che non ne vogliono sapere di essere pettinati all’indietro, nonostante l’abbondante brillantina che li stira; è intelligente, loquace, affabile nei modi; un po’ puntiglioso, ma tanto generoso e sa farsi voler bene.
Sono i primi anni dopo la guerra ed il suo lavoro, puntualmente pagato, gli consente di togliersi gli sfizi alla moda. E’ l’unico della sua generazione che non si è ancora accasato e non gli è pesato acquistare la Lambretta 125C, orgogliosamente targata “Roma”, che rappresenta la resurrezione alla vita gioiosa e spensierata sognata ed agognata durante i tristi giorni della guerra, durante i quali i giovani hanno temuto per la loro vita ed i genitori hanno sofferto pene e tribolazioni, piangendo e pregando per i propri figli, al pensiero dei pericoli che correvano.
La Lambretta e la macchina fotografica formano un connubio che lui usa senza parsimonia per ritrarre persone: vi salgono sui due sellini foderati di cuoio la sorella, lo zio Berardo, ormai più che novantenne, i nipoti… e poi tutte le ragazze che vivono del borgo e che assaporano in tal modo quel poco di modernità che comincia ad aleggiare anche nell’aria di un borgo sperduto della provincia dell’Aquila; vi salgo soprattutto io, e dall’alto di quel sedile do libero sfogo a viaggi fantastici.
A Roma, nella grande città, il mondo è diverso ed i suoi modi affabili, la cura della persona, i soldi, non tanti, ma sempre presenti e pronti per essere spesi, la Lambretta concorrono nel fare di lui un perfetto dongiovanni: tanti sono gli aneddoti, tante le avventure, che se ne potrebbe forse fare un libro; esiste però un sintetico compendio che li racchiude tutti in un telegramma trasmesso da un amico di vecchia data in occasione del suo matrimonio, avvenuto infine nel 1962, quando aveva ben quarantaquattro anni, che scomoda addirittura il filosofo greco Socrate: “TANTO TUONO’ CHE PIOVVE”: e lo scoppio di ilarità che seguì la lettura di quel telegramma nel bel mezzo della festa, fu la prova della notorietà delle sue gesta.
Dicembre 1951: due ragazzi argentini partono con una motocicletta, la “Poderosa”, per attraversare l’America Latina: Alberto, biochimico, ed Ernesto, studente in medicina, vogliono esplorare, capire, vedere un mondo inquieto dove ingiustizia e miseria emergono in ogni angolo di strada, in ogni gruppo di case attraversato. Entrambi scrivono appunti durante il viaggio che poi pubblicano in forma narrativa col titolo di “Notas de viaje”; parlano della vita nelle miniere di Chuquitamata, in Cile, del lebbrosario di San Pablo; vengono abbandonati dalla “poderosa” e proseguono a piedi o con mezzi di fortuna traversando il deserto di Atacama e l’Amazzonia Peruviana, fino a Machu Picchu. L’esperienza di nove mesi vissuti all’avventura ed a contatto con una umanità derelitta e sfruttata li trasforma in uomini, che sceglieranno presto la loro strada… ed Ernesto Guevara de la Serna divenne presto CHE GUEVARA, eroe di Cuba e dell’America Latina, divenuto poi mito mondiale dopo la sua morte violenta avvenuta nel 1967 ad opera dell’esercito boliviano, complice la statunitense CIA, che tutelava gli interessi economici delle multinazionali il cui profitto si basava sullo sfruttamento degli invisibili.
I ragazzi della mia generazione hanno sognato, manifestato ed inneggiato nel nome di quel personaggio ed hanno fatto loro il mito del viaggio come strumento di conoscenza e di crescita. Così, con molti dei miei coetanei, ci siamo imbarcati in improbabili viaggi in autostop, in bicicletta, con uno sgangherato Ciao o con una vera motocicletta, a volte in treno o con qualche scarriolata cinquecento, avendo come meta Capo Nord o le capitali europee, ma anche solo Firenze o Bologna o Milano…o Alba Adriatica: l’importante era partire.
Ma questo avviene solo a partire dai primi anni settanta.
Prima di questo agli occhi miei di bambino, il viaggio avventuroso per antonomasia appariva un misterioso via Salaria da Roma a Santa Maria, e cio' che mi faceva sognare erano le storie di viaggio che mi raccontava zio Elia, che percorreva quel tragitto quando la nostalgia del borgo natio superava il privilegio di vivere nella città più bella del mondo.
Le sue storie correvano sulle piccole ruote della sua Lambretta 125 C dalla sontuosa targa “Roma” che alla folle velocità massima di sessanta chilometri l’ora percorreva in poco più di quattro ore strade tortuose, piene di buche ed alcune ancora imbrecciate, passava nei pressi di paesi teatro di storie che mi facevano rabbrividire, come quella del mostro di Nerola, che vicino alla casa fatiscente che aveva occupato abusivamente, seminava chiodi lungo la via Salaria e quando qualche persona apparentemente facoltosa si fermava per chiedere aiuto la uccideva, la derubava e ne sotterrava il cadavere nel suo giardino o nei dintorni. Con la condanna a due ergastoli e 26 anni di prigione gli furono accreditati 4 omicidi certi e ulteriori 12 probabili.
Ma zio Elia amava anche descrivere gli incredibili paesaggi che percorreva, gli ulivi, gli estesi campi di grano che facevano impallidire i piccoli appezzamenti che la sua famiglia coltivava a Santa Maria, i lunghi rettilinei e poi le gole tra le montagne, la grande scitta DUX realizzata solo due decenni prima piantumando alberi sulle brulle pendici di monte Giano, nei pressi di Antrodoco, voluta lì dallo stesso Mussolini, che, si diceva, amasse ammirarla col binocolo dal centro di Roma; e poi la chiesa di San Vittorino, nei pressi di Cittaducale, costruita in un punto dove prima erano esistite piccole costruzioni sacre sabine, poi romane, quindi cristiane, sprofondata poco dopo essere stata ultimata a causa di una sorgente di acqua che iniziò a scorrere da sotto le sue fondazioni.
Soprattutto mi affascinava la descrizione delle sorgenti sulfuree di Cotilia, da me ritenute frutto della fervida fantasia e dell’atmosfera teatrale che zio Elia riusciva a creare, e che uscirono dal mio mondo fantastico solo quando mi portò in regalo una piccola bottiglia che aveva contenuto gazzosa con dentro un po’ dell’acqua raccolta nella fonte posta di fronte al laghetto, dal chiaro colore grigio-azzurro torbido; arricciai il naso schifato quando ne uscì un forte odore di uova marce e mi rifiutai categoricamente di obbedire all’invito a berne.
Ma al centro dei “racconti della Lambretta” c’era sempre e solo il suo cavallo di ferro, del quale non si stancava mai di declamare le virtù; e la mia voglia di viaggiare con quel gioiellino tecnologico non andò oltre il percorso da Santa Maria al Fossato, dove era la campagna di famiglia. Allora la Lambretta si spogliava della elegante veste cittadina e diveniva strumento di trasporto rurale, con zio Elia che riusciva a trasportare con essa, oltre che i suoi nipoti, anche la sporta con il pranzo da consumare a mezzoggiorno e qualche attrezzo agricolo poco ingombrante. Proprio li, al Fossato, ebbi il mio primo incidente quando, sfuggito al controllo dei grandi, a tre anni, mi misi a giocare e sognare su quella moto, parcheggiata sul prato sotto l’ombra di pioppi rigogliosi e me la feci cadere rovinosamente addosso.
L’itinerario ben presto si allungò, arrivando a percorre l’enorme distanza di quindici chilometri tra Santa Maria e L’Aquila: epico fu il viaggio che feci insieme con zio Elia, che si interruppe bruscamente a Ponte Peschio a causa di una rottura meccanica e continuò a spinta fino ad un meccanico che riuscì a farla ripartire. Avevo forse quattro anni ed a fine giornata fui orgoglioso di aver contribuito nell’operazione di salvataggio aiutando zio Elia a spingere la moto per una decina di metri; a L’Aquila mio zio mi portò a tagliare la folta, rossa capigliatura invitandomi, con tono minaccioso, a dare un pugno sul naso al barbiere nel caso mi avesse tirato qualche capello; lo presi in parola e stetti pronto col pugno chiuso. Solo anni dopo mi resi conto del tono scherzoso di quell’invito: per fortuna il barbiere fu bravo!
Degno di considerazione fu anche un tentativo di gara poi abortita, tra Lambretta e Treno. E’ l’estate del 1958: con i miei genitori e mia sorella partiamo per il mare di Villa Verrocchio, nei pressi di Montesilvano. Percorriamo a piedi i due chilometri da Santa Maria alla stazione di Scoppito, con zio Elia che trasporta le valigie sul pianale e sul sedile posteriore della Lambretta. A due passi dalla stazione, sotto il “Ponte Passaggio” vediamo sfrecciare il treno con qualche minuto di anticipo rispetto all’orario. Senza scoraggiarsi zio Elia incarna Don Chisciotte a cavallo del suo ronzino e grida “VADO ALLA STAZIONE DI SASSA E LO FERMO!”… e parte sgommando sul fine brecciolino della strada. Alla fine desiste solo per le urla di mio padre che più realisticamente pensò bene di aspettare il passaggio del treno successivo.
Il viaggio più avventuroso sulla Lambretta fu quello che, sempre tra Santa Maria e L’Aquila, feci con mio padre alla guida, mia madre seduta “alla cavallerizza” sul sedile posteriore, mia sorella a cavalcioni davanti a mia madre ed io in piedi sulla pedana con le mani poggiate sul manubrio. Tempo fa ho visto postata su facebook una analoga foto di una famigliola, come allora era la mia, che volava su una Vespa con la medesima assegnazione dei posti.... e mi sono commosso! Oggi inorridiremmo tutti di fronte ad una scena del genere, ma allora era la norma, tanto che la pattuglia dei vigli urbani che ci fermò alle porte dell’Aquila ci graziò e ci fece proseguire il viaggio, nonostante mio padre non avesse neppure la patente di guida.
Passarono gli anni, si ampliarono gli orizzonti, partii anch’io per i lunghi viaggi in autostop, in bicicletta, in treno o con furgoni sgangherati o scarriolate cinquecento, ma il viaggio avventuroso da Roma a L’Aquila con la Lambretta ancora mi attirava e mi affascinava. Era il sogno di bambino che non voleva abbandonarmi: fu così che, quando studente fuorisede a Roma mi trovai in appartamento col mio amico Sandro che disponeva di una vecchia Lambretta per muoversi in città, colsi l’occasione a volo ed organizzammo un ritorno a L’Aquila anziché con l’autobus della società Pacilli, con la vecchia Lambretta… e fu la realizzazione del mio sogno infantile.
Quest’anno si festeggiano i settantacinque anni della Vespa, disegnata da un grande ingegnere abruzzese, Corradino D’Ascanio, al quale si deve l’invenzione e lo sviluppo dell’elicottero. L’anno dopo della nascita della Vespa, nel 1947, nacque anche la sua antagonista di sempre, la Lambretta; la prima aveva dalla sua la partecipazione, come comparsa, in un film cult del 1953, “Vacanze romane”. Della seconda si diceva “quando una Vespa esce particolarmente bene la chiamano Lambretta”.
O Vespa o Lambretta, e per zio Elia fu Lambretta, quei mezzi rappresentarono il primo fenomeno di massa della motorizzazione in Italia. Poi arrivò la cinquecento e fu l’inizio di una nuova epoca. Ma la Lambretta mantenne il suo posto d’onore in un sottoscala della vecchia casa di paese e chi non lo avesse già fatto può leggere il seguito della sua storia dal titolo “IL SOTTOSCALA” scritto qualche mese fa da mia cugina Cesira che lo ha taggato sul mio account.
E, direte voi, il postale ed altri improbabili mezzi di trasporto cosa sono?
Bhé, sono quasi le due di notte, questa storia è già troppo lunga e non può andare oltre. Appena avrò un altro po’ di tempo scriverò anche del postale e degli altri improbabili mezzi di trasporto!

 



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