Presentato il nuovo romanzo di Valerio Valentini - Però l’estate non è tutto

«In bilico sull’orlo di un baratro che ci sforziamo di rimuovere». L’esistenza segnata dei personaggi del nuovo romanzo di Valerio Valentini, Però l’estate non è tutto (La nave di Teseo), si condensa in questa frase, pronunciata durante un dialogo tra i due giovani protagonisti, Vittorio e Silvia. Maggio 2015: Vittorio, l’io narrante della storia, è appena ritornato all’Aquila per scrivere la tesi, dopo aver terminato gli esami di giurisprudenza all’università di Trento. Silvia invece dall’Aquila non se n’è mai andata, tra studi interrotti, lavori precari e un grande dolore dentro. Lui e lei si incontrano di nuovo, ma non si comprendono più. Eppure si erano amati, tanto, durante gli anni del liceo. Poi, a sconvolgere le loro vite e ad allontanarli era arrivato il 6 aprile 2009, il terremoto dell’Aquila. Eccolo il baratro. Vittorio fugge a Trento, Silvia resta a l’Aquila. Valerio Valentini, nato a l’Aquila e laureato a Trento in Lettere moderne, è cronista politico del Foglio . Con il suo primo libro, Gli 80 di Camporammaglia (Laterza, 2018), ha vinto il premio Campiello Opera Prima.

L’autore presenta Però l’estate non è tutto oggi alle 19 in diretta streaming sulla pagina Facebook della Libreria Arcadia di Rovereto.

Valentini, cosa ha voluto raccontare in questo romanzo?

«Innanzitutto la storia d’amore tra due ragazzi, Vittorio e Silvia, che vivono il passaggio dall’adolescenza all’età della prima maturità – già difficile di per sé – in concomitanza con una cesura brutale come il terremoto del 2009; il racconto, quindi, di un’educazione sentimentale e civile insieme. Ma è anche la storia di una comunità che ha cercato di reagire alla tragedia e di una generazione, quella nata nei primi anni ’90, incastrata nei limiti di una città di provincia».

Cosa rappresenta la copertina?

«È una fotografia che ho scattato io nel 2016: il portone incatenato è quello del liceo Cotugno dell’Aquila, mentre la figura di spalle che guarda dentro è la mia ragazza, Elena. Simboleggia ciò che il terremoto ha causato ai ricordi d’adolescenza di molti, un senso di distanza e di buio».

A Trento è ambientato un episodio significativo del romanzo.

«Vittorio prova un sentimento duplice per Trento: da un lato profonda gratitudine per la città universitaria che lo sta ospitando, dall’altro avversione perché trovarsi lì lo fa sentire in colpa per essersene andato dall’Aquila. Nel Vittorio che insulta il Trentino c’è tutta la sua frustrazione, la sua velleità di espiare la colpa della fuga e il suo tentativo di riscattarsi facendosi ambasciatore del dolore dell’Aquila».

Lei invece perché ha deciso di studiare a Trento?

«L’ultimo anno di liceo maturai la decisione di andarmene dall’Aquila ma i miei genitori non erano contenti, serviva un incentivo per convincerli. Un giorno arrivò a scuola un volantino che pubblicizzava il Collegio di merito Bernardo Clesio di Trento: partecipai al bando di concorso per l’ammissione e venni preso, ottenendo così un alloggio gratuito nella struttura del collegio. Gli anni universitari a Trento sono stati molto positivi e intensi, mi hanno lasciato tanto, sono ancora in contatto con i professori».

Il suo romanzo è pieno di fughe, concrete e ideali: dall’Aquila e dal suo dolore si può scappare?

«In parte sì, purtroppo. L’Aquila è un paesotto pettegolo, angusto e refrattario a ogni cambiamento, con poche possibilità per i giovani, in profondo declino già prima del terremoto. Una di quelle “città buone per lasciarsele alle spalle e poi rimpiangerle”, come diceva De André».

Fonte: Corriere del Trentino



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