Il 24 maggio 1915 l’Italia entrava in guerra e il Piave mormorava

‘’Il Piave mormorava/ calmo e placido al passaggio/ dei primi fanti il 24 maggio/ l’esercito marciava per raggiunger la frontiera/ per far contro il nemico una barriera’’. Così inizia ‘’La canzone del Piave’’ destinata a diventare l’inno della Grande Guerra (per un breve periodo, dopo la liberazione del 1945, fu usata anche come inno nazionale, prima che venisse adottato l’inno di Mameli).

L’autore era un noto canzonettista napoletano, Giovanni Ermete Gaeta, in arte E.A. Mario, paroliere e musicista di tanti canzoni anche più recenti (morì infatti nel 1961), il quale compose quel brano nel 1918, in un raptus di patriottismo in una sola notte. Del resto, tanti altri celebri inni sono nati così. La ‘’Marsigliese’’ venne eseguita su una pianola e portata al fronte dalle truppe provenienti da Marsiglia. Oggi è una sorta di inno universale ai principi di libertà, uguaglianza e fraternità. Il casus belli fu determinato dall’assassinio, il 28 giugno 1914, dell’Arciduca Francesco Ferdinando d’Austria, erede al trono austro-ungarico e della consorte durante una visita di Stato a Sarajevo ad opera di un giovane studente nazionalista serbo-bosniaco, Gavrilo Princip.

L’Austria colse l’occasione per realizzare i suoi piani aggressivi contro la Serbia (protetta dalla Russia) a cui dichiarò guerra un mese dopo. Immediatamente si mise in moto il riflesso pavloviano del sistema delle alleanze: il 1° agosto la Germania dichiarò guerra alla Russia, il 3 alla Francia; il 4 agosto fu la volta della Gran Bretagna a dichiarare guerra alla Germania. Il 25 agosto il Giappone si schierò a fianco della Gran Bretagna. Il vecchio mondo andava così allo sbaraglio e l’aspetto più paradossale era il seguente: il sovrano inglese, il Kaiser, lo Zar erano cugini di primo grado. La belle èpoque finiva, senza neppure rendersene conto, in un bagno di sangue che avrebbe aperto il vaso di Pandora dei nazionalismi, degli sciovinismi che travolsero gli ordinamenti liberali e aprirono la strada a regimi totalitari guerrafondai che trasformarono l’intervallo tra la prima e la seconda guerra mondiale del secolo scorso in un armistizio. L’Italia era alleata della Germania e dell’Austria, ma allo scoppio delle ostilità rimase neutrale. Contro l’ingresso in guerra erano i socialisti, la Chiesa cattolica, Giolitti e gran parte dei liberali, settori dell’industria (mentre altri comparti sollecitavano una politica di armamenti).

A sollecitare un diverso orientamento – sostenuto anche da un rovesciamento delle alleanze – furono delle minoranze attive che – come scrive Massimo L. Salvadori nella Storia d’Italia – erano interventiste ciascuna a modo suo, partendo da posizioni politiche differenti. In sostanza, il connubio tra liberali antigiolittiani, irredentisti, repubblicani, interventisti c.d. democratici e nazionalisti finì per trascinare l’Italia in guerra nel 1915. Al momento della sua entrata il guerra l’esercito italiano poteva contare su 35 divisioni di fanteria. Il comandante supremo era Luigi Cadorna il figlio di quel Raffaele che nel 1870 aveva espugnato Roma dalla breccia di Porta Pia. Dei 5,7 milioni di richiamati 2,6 milioni erano contadini analfabeti. Mancavano gli ufficiali tanto che si fece ricorso a giovani di complemento. Ma soprattutto non c’era negli stati maggiori una visione della guerra moderna. Gli eserciti si stabilirono per anni sulle linee dei fronti raggiunti nelle prime offensive  e restarono a macerarsi per anni nelle trincee, operando assalti alle trincee nemiche che consentivano al massimo – con una ecatombe di morti e feriti – la conquista di qualche centinaio di metri, che sarebbero stati perduti pochi giorni dopo a seguito del contrattacco nemico.



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