Il potere della cura nella poesia dell’aquilano Giancarlo Bozzetta

 

Presentazione e recensione a cura di Maria Elena Cialente

 

Giancarlo Bozzetta, meglio conosciuto come Giancarlo Boz, è una delle voci più interessanti nel panorama poetico regionale. Aquilano, classe 1970, dopo la laurea in giurisprudenza comincia a lavorare come libero professionista in qualità di consulente, ma la sua vera passione, da sempre e sin da ragazzo, è rappresentata dalla letteratura e dalla musica, tanto da prestare la propria penna per un lungo periodo, nelle vesti di ghost writer, ad alcune delle più grandi case editrici italiane. Tra le numerose liriche scritte nel corso degli anni ha selezionato quelle che costituiscono la sua prima, imperdibile, silloge poetica, ovvero Nel tempo d’un Martini la fine che ha fatto l’estate, di cui ho il piacere di proporvi la recensione che segue.
 

Nel tempo d’ un Martini la fine che ha fatto l’estate, di Giancarlo Bozzetta (Giancarlo Boz) (Tabula fati Edizioni)

“La poesia deve contenere un segreto”, affermava Ungaretti in una sua famosa intervista. Ed è a questo segreto che Giancarlo Bozzetta si rivolge nella sua raccolta d’esordio Nel tempo d’ un Martini la fine che ha fatto l’estate.

È il segreto della bellezza della poesia, della sua indicibilità, della sua forza riparatrice, come ci spiega il poeta stesso nell’Introduzione al suo lavoro citando la preziosa arte del kintsugi. È il segreto della forza della vita stessa, del suo autoripararsi ogni volta che cadiamo, ci feriamo, ci facciamo talmente male da non saperci spiegare come siamo poi riusciti a riabilitarci, ad adattarci, a resistere.

Sulle note di Chopin, di Pat Metheny, di un pezzo jazz, o fosse anche solo di “un colpo di vento” o addirittura di “un silenzio perfetto”, la poesia di Bozzetta, “declamata a fil di voce in assolo notturno o nel rincorrersi dei sassofoni“, è un canto di resistenza dispiegato sulle mille contraddizioni del vivere, sul dolore che permea le nostre misere esistenze, sulla forza inarrestabile e distruttrice di una natura che resta, a tratti, leopardianamente  lontana, ma nello stesso tempo straordinariamente accogliente e consolatrice.

Per questo, deposta la maschera del vivere quotidiano, il poeta si può concedere una fuga recandosi a pescare e lasciando che la sua immaginazione si dispieghi lungo la valle che corre “ dal Sagittario giù a Scanno/ da Acciano alla Val Maone”, in quell’Abruzzo che trova nei suoi versi la rappresentazione di una terra magnifica e primitiva, che apparecchia dinanzi allo sguardo pascoli,  monti, boschi e, in lontananza, lo stupore del mare. Magnifica anche nella sua ferocia, quando trema e distrugge vite e certezze ingoiandole tra le macerie, quando prova a disperdere i suoi figli, come l’io lirico ci spiega nell’ultima sezione del libro, dedicata al sisma aquilano del 2009.

Eppure, di nuovo, ecco l’invito alla Resilienza: torneranno le ragazze in centro con i capelli bagnati dal sole, la città tornerà bella, e contro il terrore di una nuova scossa, “non costruirò una casa ma una poesia”, promette il poeta all’amata. La speranza è l’ultimo dono degli dei ad uscire dal vaso di Pandora, l’unico bene che si traduce in parola poetica proprio perché la Poesia sa come prendersi cura di noi.

E realmente, in questa raccolta, ogni singolo componimento è un’ancora di salvezza, un quadro che in verità, diffusamente, non conosce solo i colori del lutto, ma anche quelli vivi e squillanti di  “anemoni,/ il bianco dei mandorli manna /sfornata di fresco, /crochi e ginestre viole e papaveri /parco giochi per api, /velluto cromo spuntato dai prati” (Arriverà, p. 25),  scena su cui irromperà la donna amata vestita di verde.

Qua e là spuntano i giochi dei delfini, bruchi divenuti farfalle, “il bisbiglio dei tuoi capelli”,  “occhi di fiori”, “madreperle /cadute come spari/ con un tempo dispari nel catino”, pentagrammi di nuvole, pascoliani bubbolii che riempiono il cielo, le solitudini così come le frenesie del traffico della Cristoforo Colombo che taglia il cuore dell’Eur a Roma. E si affollano dinanzi agli occhi del lettore gli orsacchiotti dell’infanzia, i raggi del sole attraverso il rosone dell’abbazia di Collemaggio, orizzonti su cui si accalcano “bellezze e fragranze”, larici, maggiociondoli e lecci, “la ramatura degli aceri” e le vene dei tronchi.

Ogni cosa ha la sua danza, in un universo in cui si ascoltano musiche e parole così come i silenzi che parlano, perché “La poesia è un evento/ pure stesa ad asciugare/ in mansarde di privazioni. Anzi./ Accartocciata al buio dei camini“ (Giornata mondiale della poesia, p. 21).

Cifra stilistica della silloge sembra essere proprio la continua ricerca di senso in un turbinio di bellezza, in un continuo ribollire di vite, di rinascite, di energie fluide e vivificatrici, dove hanno pari dignità “lumache e magnolie grandiflora”, le cose piccole e semplici del vivere quotidiano come i grandi drammi dell’esistenza.

Quella di Giancarlo Bozzetta è una poesia dolente ma al contempo di una bellezza pura e genuina, delicata e stanata dalle pieghe di ogni cosa. È una poesia necessaria, a cui ci si abbandona con fiducia, la cui gentilezza e forza sostengono una lettura che ristora in quanto è la vita intera che sta dentro questi versi col suo irrinunciabile richiamo:

“Vita che dai la vita/ che vale niente/ e dal niente in versi arde /e dal niente seme che germoglia” (Dal niente, p. 55).

https://www.edizionitabulafati.it/neltempodunmartini.htm

 
 



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