LIDIA MEDORO, LE MEMORIE DI UN’ARISTOCRATICA

LIDIA MEDORO, LE MEMORIE

DI UN’ARISTOCRATICA

 

- di Fernando Acitelli -

 
 

Pensare a Lidia significa rivedere una persona buona, solitaria e sempre in cammino. Triste lo sguardo ma che poteva illuminarsi di colpo, bastava una frase nitida dalla quale traspariva affetto. Lidia non aveva un percorso preciso né un’ora stabilita in cui la si potesse incontrare e infatti proprio nei momenti più impensati ecco che lei appariva. Era libera anche dagli orari, dalle convenzioni: il mettersi in cammino ed il pensare furono le azioni di cui mi ricordo. Al mattino, con l’autobus delle 9, se ne andava in città dove, probabilmente, si sentiva più a suo agio. Sull’autobus se ne rimaneva sempre in piedi collocandosi per lo più accanto al conducente. Giunto il pullman a Camarda doveva dividere quella postazione con tale Ubaldo che lì saliva e lì rimaneva se non c’era un posto a sedere. Quella riduzione di spazio non vietava a Lidia di gustarsi le manovre dell’autista, e anche le parole di costui quando magari invitava i passeggeri ad una certa sollecitudine nel salire o scendere dall’autobus; o ancora quando valutava inconcepibile la manovra d’una macchina davanti a lui. La strada stava davanti a Lidia e attraversare i paesi la confortava: il campanile, la fontana, le allestite bancarelle rappresentavano un ripristino della serenità; in più le persone erano ancora al proprio posto, in piedi o sulle panchine, e quella presenze sollevavano il morale e attenuavano per un poco il peso del tempo. A quel punto, con l’intatto scenario, s’avvertiva una quiete interiore ed era come se nessuno fosse stato malmenato dalla vita.

Ci saranno state anche delle volte in cui recarsi a L’Aquila voleva significare sbrigare delle faccende, ovvio che fosse così, ma Lidia sapeva bene come dei mattini spensierati a vedere il mondo che le si mostrava davanti - scenari diversi da Assergi - le miglioravano lo spirito. Nessuno ha mai pensato di seguire quei suoi itinerari cittadini ma doveva senz’altro accadere che il suo grand tour prevedesse la visita alla chiese, agli splendidi cortili dalle parti di Piazza Santa Maria Paganica, o sentire i prolungati silenzi nella contrada di Santa Giusta.

C’è da credere che questi suoi spostamenti verso L’Aquila fossero d’inverno assai rari viste le nevicate e le interruzioni stradali; e così Lidia, nei tempi da starsene intanati, elaborava nuovi spunti teoretici in questo certamente favorita dai suoi spazi rassicuranti e dallo scenario innevato. C’è inoltre da dire come le mie riflessioni su di lei sono basate solamente su quei periodi in cui ero ad Assergi, dunque nei mesi estivi e nelle festività durante l’anno. Solamente in un paio d’occasioni la incrociai d’inverno sotto un freddo senza neve.

Si andava a L’Aquila per rasserenarsi, per mettere uno steccato davanti alle preoccupazioni; steccato naturalmente immaginario ma che serviva per riprendere spirito e affrontare così i sempre risorgenti problemi. Fare colazione al bar voleva anche dire prendere le distanze dall’ovvio, ascoltare voci limpide o scheggiate e inoltre stare accanto a quelle figure “di gran nome” come notabili, avvocati, che si potevano incontrare al bancone del bar, tutti presi ad argomentare non di nobiltà o procedure penali ma, addirittura, sui destini dell’umanità. Naturalmente c’è da credere che Lidia osservava tutto ed il bancone del bar diveniva allora come una scena teatrale dove convergevano tutti i personaggi della Commedia dell’Arte. S’è detto di notabili e avvocati ma poteva anche accadere d’imbattersi in scribacchini, minutanti, galoppini della politica con il colletto della camicia logoro e le maniche della giacca a coprire quasi del tutto le dita della mano. E inoltre fuggiaschi, ex belle donne, e poi fatalone in servizio permanente effettivo, quindi ragionieri ben pettinati ma nevrotici a motivo delle ultime disposizioni governative che li avrebbero impegnati fino a tarda sera al polveroso scrittoio; e ancora baby pensionati a zonzo, questuanti, perdigiorno, i quali, per il modo in cui si gustavano la brioche, sembravano essere all’abbacchio in un pranzo di nozze. Ed era come se si stessero sfamando. Dunque, si finiva ravvicinati a quel mondo multicolore e si potevano così comporre delle differenze. Anche le fragranze improvvise potevano migliorare lo stato d’animo e quando Lidia usciva da un bar era senz’altro migliorata, più consapevole di cosa fosse in realtà la vita; aveva cioè aggiunto altri tasselli al suo mosaico interiore, delle narrazioni nuove ai suoi vissuti, alle fotografie ingiallite del primo ‘900 che sicuramente aveva in casa. E la sera la si vedeva affrontare la salita dei Frati dopo essere scesa dall’autobus: ultima corsa e il giorno che si chiudeva. Probabilmente stanca ma era stata in altri luoghi, s’era comunicata con le strade de L’Aquila, aveva composto traiettorie meravigliose e s’era impostata davanti a Palazzo Camponeschi immaginando lì dentro dei signori, qualcosa di rinascimentale di cui lei aveva sentore intuitivo. Non credo che s’allontanasse dal centro, era il cuore della città, il luogo dove si sentiva protetta, tra palazzi di nobiltà il cui respiro sembrava resistere nelle piazzette e tra i vicoli. 

Lidia poteva spendere il suo tempo a piacimento, era una turista dell’anima, e se avesse avuto un poco il dono della scrittura ci avrebbe lasciato dei taccuini, preziosi come quelli d’un viaggiatore solitario, ma tali suoi scritti sarebbero apparsi anche come dei Cahiers de dolénces.

Particolare importante: non ascoltai mai Lidia esprimersi in dialetto e i suoi componimenti a voce squillante furono sempre esposti in italiano e quando veniva attaccata su un certo fatto lei, mantenendo la calma,   risaliva alla “causa prima” di quella disputa, proprio alla maniera d’un filosofo; e soltanto se l’interlocutore continuava, lei si vedeva costretta ad osare dei corsivi in dialetto, dei rafforzativi che avevano il compito di ricordare che anche lei era di Assergi. Lo spadroneggiare in lingua italiana poneva l’interlocutore in una sorta di spaesamento e per costui/costei era impossibile ascoltare il purismo della lingua; in altri termini si valutava quel frasario in italiano come un  “tradimento” della lingua d’origine ma forse si trattava d’una strategia per avere la meglio. Nessuno poteva immaginare che tutto era riferibile a dei moti spontanei dell’animo e non di affettazione o artificiosità. Del resto, ciò che s’agita interiormente è conosciuto soltanto da chi sente ogni giorno questo sisma, questa preparazione ad un momento etico.

L’ultima volta che vidi Lidia fu alla salita accanto al negozio di Franco e Marietta. Mi salutò sempre con grazia spontanea che è anche più accentuata nel disincanto. E per l’ennesima volta mi disse: «Tuo padre era un signore». Ma questo ricordo che compongo non ha a che fare con queste sue cortesie, a me premeva soltanto sottolineare il suo passaggio qui, tra noi, il suo starsene in disparte e quel suo italiano era forse una medicazione, e un modo per dire agli altri che esisteva anche lei.

M’affascinava la solitudine di Lidia. La solitudine è un privilegio. È una condizione dello spirito dove si fanno i conti con l’Universo e anche il minimo rumore scheggia ogni riflessione. La maggior parte delle persone evita la solitudine perché ciò significa pensare, ma pensare veramente, ovvero fare i conti con l’esistenza e non con gli oggetti. Amando oltremodo gli oggetti si rimanda continuamente l’affrontare la vera questione, ovvero quella degli ultimi istanti. Dopo la cosiddetta “morte di Dio”, decretata non soltanto dai filosofi ma anche dalla Scienza, dalla Téchne, è chiaro che il rifugio più facile, “più a portata di mano” sia quello degli oggetti, della vera adorazione di essi. Di fatto, gli idoli hanno preso il posto degli altari. Con un telefonino potrei far sentire la messa in diretta ad un mio amico lontano e dunque la preghiera si sostiene grazie al mezzo tecnologico e così il mistero non esiste più. E una religione senza mistero è un controsenso ed assomiglia ad una conversazione tra amici. Ecco perché le innovazioni introdotte nella messa alterano il bisbiglio originario tra Dio e il Celebrante. Che tipo di preghiera era quella prima del Concilio Ecumenico Vaticano II? Ma non è meglio allora raccogliersi in solitudine e confidare soltanto nella propria disperazione per rialzarsi? Quel che il Signore disse ad Abramo era un segreto ma poi, come si dice, vi fu una fuga di notizie.

La solitudine è, innanzitutto, ricerca del silenzio: non v’è più uno spazio ormai dove non s’oda musica o comunque un fragore, e l’essere in contatto ha escluso ormai la parola, il logos, e non si parla più se non con battute e parole residue di uno spot. Le sensazioni che si confidano sono quelle relative ad un futuro che però non si può nemmeno immaginare. Inoltre lo stare insieme s’accorda sempre più con le dirette in mondovisione, con il saltare, con l’inneggiare a nuovi idoli non soltanto canori, “trasgressivi” a loro modo ma che sono in fondo dei conformisti, dei piccolo borghesi; costoro dovrebbero infondere coraggio per il loro “essere contro” ma a ben vederli e ascoltarli sono loro i primi a mostrare paure e cedimenti e a balbettare qualcosa di grossolano.

Da un dettaglio di quaggiù si passa all’Infinito per poi tornare all’esilità umana con una consapevolezza diversa. Di fronte a galassie, equazioni e anti materia, dannarsi l’animo quaggiù non è da intelligenti. Ecco, Lidia tutto questo deve averlo pensato, magari in una sera d’estate sulla sua terrazza, muovendosi come panorama dalla Vallata alle Coste del Mulino e poi alla Piazza. Nella solitudine s’affila il pensiero, si coordinano i concetti e si ripassa tutto quanto è accaduto nella propria vita. Nel silenzio i fantasmi dei giorni lontani fanno meno paura e quasi divengono dei conoscenti, dei “vicini di casa”: s’è quasi agli abbracci. Spesso lo starsene da soli, in disparte, svela qualcosa di aristocratico, e chi è stanco del mondo può rifletterci sopra senza bisbigli intorno, in un silenzio privato che è puro come quello d’una chiesa vuota all’imbrunire. Non è forse l’imbrunire l’ora più bella e al tempo stesso angosciante per ricongiungersi al Tutto?

La solitudine s’associa spesso al cammino. Chi ha sentito sin dalla giovinezza il desiderio di mettersi di lato alla vita, è di solito un gran camminatore e nel mutare del paesaggio ecco che una lucidità estrema sopraggiunge e purifica sensazioni e pensieri. Se si osservava Lidia senza essere visti, si poteva percepire come lei stesse sempre pensando, transitando con la mente in tanti luoghi che sembravano accatastarsi dentro di lei; ma d’ognuno riusciva a farne nitida descrizione con appena due tocchi dell’animo ed una frase. Descriveva azioni lontane come rigurgiti della coscienza. Erano talmente limpidi i suoi ricordi che a chi l’ascoltava pareva essere presente a quei fatti. E così la sua mente era sempre piena di riflessioni. E in quei momenti era come se dicesse: «Dove eravamo rimasti a proposito di quel luogo?» E avendo subito rassettato tutto, si passava quindi ad una persona che magari poteva essersi distinta in qualche azione sgarbata. E in questo caso poteva capitare che Lidia d’improvviso arrestasse il suo passo per meglio ricomporre tutto il mosaico dell’accaduto. E qui ci voleva più pazienza perché un luogo è muto ma una persona può essere andata oltre con le parole e può aver fatto male. Il cammino serve molto alla mente perché sa attenuare il dolore dell’animo. Chi cammina sa mettere a terra tutti i vissuti dolorosi  e v’è dispersione dei lontani attriti.

La parola extravagante chiarisce molto a proposito di certa eccentricità e modo di porsi. La sua traduzione popolare, “stravagante”, non spiega bene, in verità convoglia altrove, e ha un significato per lo più negativo. Ad Assergi, una volta si diceva che con la persona “stravagante” era difficile parlare perché non ragionava ed era amante soltanto della sua opinione:  forse era meglio lasciarla andare. Extravagante, invece, è una parola che contiene più significati; essa svela anche un qualcosa di artistico, di non comune, e in definitiva un pensiero che non s’allinea con quello dei più. Colui che è extravagante rifiuta il sentire comune, ha le ragioni dentro di sé e le considera con estrema ammirazione. Ecco, Lidia era una persona extravagante se si posseggono gli strumenti per leggere dentro ad un essere umano. Forse era anche per questo che con difficoltà parlavano con lei, come se non fosse all’altezza di capire, e probabilmente era l’incontrario. Nella vita ho visto e sentito tanto e credo d’aver capito che i cosiddetti “marginali” sono gli individui che hanno più cose da dire e inoltre che le loro vite sono autentiche. 

Ma s’è fatto tardi, ho ricordato innanzitutto a me stesso Lidia Medoro e dunque ecco le conclusioni: quella strada sotto la Piazza la dovrebbero intitolare alla famiglia Medoro. Essa inizia dalla edicola sacra accanto alla strada in discesa verso il fiume e termina, dall’altra parte, alla Congrega. Due case e una piccola fontana affrescata di muschio su quel segmento ricamato di silenzio: quella di Angela Medoro (soprannominata la Scemecca, da shoemaker, fabbricante di scarpe) la cui terrazza e le finestre danno anche su quella casa che, sulla Piazza, fu di Giovanni De Luca e di Costanza Rapiti. Dopo la casa di Angela v’è quella di Orlando Medoro, emigrato a suo tempo in Canada con la moglie Fraulina; quindi un grande orto la cui vista solleva serenità. E poco oltre la casa di Cesare Cipicchia che domina il panorama sulla valle. È una strada di silenzio che mi ha fatto sempre pensare molto. I fotogrammi per Lidia sono sempre gli stessi: lei che, scesa dall’autobus nell’ultima corsa, s’inerpica per la salita dei Frati e s’avvia verso casa in un tramonto che sa tanto dei nostri cari.



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