LORENZO GIUSTI, MIO NONNO MARTIN HEIDEGGER, FILOSOFO

                              La luce dell’opinione pubblica

                              oscura tutto

 

                                Martin Heidegger

 

 

- di Fernando Acitelli -

Il mondo interiore è l’unico che vale. In esso c’è posto anche per lacrime silenti e poi s’avverte di continuo il sisma delle sensazioni, quelle che chiedono di passare dalle profondità della mente alla parola scritta. Sembra una cosa da nulla tracciare una simile traiettoria: dall’ipotalamo al foglio bianco.

Per comporre delle perfette Vite Parallele, può essere valutato ad esempio lo stesso anno di nascita e di morte di due persone. In questo caso hanno qualcosa in comune e questo facilita il sorgere delle parole. Ma due persone, seguendo l’esempio di Plutarco, possono essere motivo di scrittura anche se sono vissute in periodi diversi ma li accomuna qualcosa, una passione politica, la visione del mondo, le doti di coraggio e lealtà, di saggezza ed equilibrio verso lo Stato.

Martin Heidegger nacque ad Meßkirch, nel Baden meridionale, il 26 settembre 1889 e morì a Friburgo il 26 maggio 1976; mio nonno Lorenzo Giusti nacque ad Assergi il 1° dicembre 1889 e vi morì il 14 aprile 1976. Dunque, mio nonno visse quattro mesi in meno del grande filosofo tedesco; comunque nacquero nello stesso anno e si congedarono dal mondo nello stesso 1976. Mio nonno non seppe mai dell’esistenza di Heidegger e, allo stesso modo, il filosofo tedesco ignorò che in Italia, ad esempio, esisteva una regione chiamata Abruzzo e che in essa c’era il Gran Sasso e poi un paese, Assergi, dove nacque, tra gli altri, un certo Lorenzo Giusti.

A parte il fatto che Lorenzo Giusti fu il padre di mia madre, ecco, a parte questo dettaglio, m’è sempre parso doveroso occuparmi di queste due esistenze perché ho sempre accarezzato l’idea che il loro cuore batté quasi per lo stesso tempo e poi c’è poesia nell’apprendere che la loro traiettoria terrena fu la stessa: dal 1889 al 1976. Ho anche ipotizzato che i due uomini già avessero scritto nel loro patrimonio genetico la stessa finitudine.

Per quanto riguarda le loro riflessioni, è probabile che abbiano pensato le stesse cose ma componendole con linguaggi diversi: da professore universitario e filosofo Heidegger, da uomo saggio mio nonno. Quello che aveva da dire Heidegger lo lasciò negli innumerevoli libri che scrisse; da parte sua mio nonno seppe comporre una vita laboriosa e si distinse soprattutto per l’onestà ed un’esistenza in silenzio. Martin Heidegger sposò Elfride Petri mentre mio nonno celebrò sua moglie Maria Giacobbe.

In questa sede non si parlerà di grandezze, di esplosività di pensiero quanto di destino, di quell’essere gettati sulla Terra, e dunque di esserci, il dasein di Heidegger, ovvero l’essere qui per la morte.

In Essere e tempo, l’opera più famosa di Heidegger, pubblicata nel 1927,  si parla proprio di questo ma i codici d’accesso al suo linguaggio prevedono mosse disinvolte con la filosofia e sottopone chi legge a vere acrobazie interpretative. Si potrebbe dire, in modo sbrigativo, che la traiettoria parte dal pensiero greco e arriva allo sviluppo della Scienza; in filigrana si leggono simili affreschi ma sebbene egli non abbia ancora visto bombe atomiche e universi virtuali gli era bastata la Prima Guerra Mondiale per annunciare quello che sarebbe avvenuto, prevedendo dunque l’oblio dell’Essere e l’inarrestabile ascesa della Tecnica.

Quello che m’interessa delineare è il destino, le vite individuali o, se si vuole, la casualità dell’esistenza. Si provi ad immaginare mio nonno bambino, in un paesaggio che è ancora ottocentesco almeno come arretratezza e con scenari scorticati, sassosi, dove la speranza è riposta negli affetti e nel sole che accarezza la vita. Ma esisteva il tempo del gioco per i bambini al sorgere del XX secolo? A scuola io la vedo così: il maestro aveva probabilmente dei baffi solenni e ricordava un ministro sabaudo anche per i suoi occhialini alla Cavour; le maestre sicuramente si mostravano meno severe e più comprensive: erano come delle madri in un’aula scolastica. Ma le immagini non finiscono qui: proviamo ad immaginare un medico che sopraggiunge in calesse per visitare un ammalato, il quale, per come è esposto nella sofferenza, sembra un santo. È notte: il cavallo, la lanterna, la mantella del medico, la borsa che contiene medicamenti che sono delle divinità favorevoli. Qualcuno dalle finestre osserva il medico, lo benedice già con gli occhi; poi si segna con la croce nella luce tremolante delle candele. La voce si diffonde, guadagna ogni casa, diventa preghiera. Il dottore salverà quell’uomo. E questo è già l’ipotesi d’un racconto.

Ma lo stupore è anche vedere un asino fermo sulla propria ombra nel primo pomeriggio; un prolungato silenzio tutt’intorno e dalle finestre s’odono conversazioni a bassa voce. In un pagliaio s’osservano in sequenza tutti gli strumenti da lavoro come la falce, la sarrecchia, il briente, verso i quali v’è devozione perché molto dipende anche da essi. Una vecchia donna che rincasa è un’immagine meravigliosa; malgrado le scale siano morsicate dal tempo, ha una tale speranza nel cuore che riesce a sorridere anche in un gelido tramonto. E sicuramente ha molte più cose da dire lei che un teologo, almeno come dolore di vivere.

Questo doveva essere Assergi al tramontare del XIX secolo. Mi soccorre il sogno naturalmente, e per comporre un’idea di quel tempo si può contare su poche fotografie, da qualcuno custodite come reliquie. Ma non sono sicuro che esistano: a me fa bene sognare che sopravvivano da qualche parte.

Mio nonno perse la madre Brigida presto: lui aveva nove anni, e dunque nel 1898; è probabile che il tempo del gioco non lo riguardò proprio perché aveva compreso subito cosa fosse la vita e con quel dolore c’era poco spazio per la spensieratezza. Quando era in vita, non pensai mai di chiedergli di quel tempo, come lo attraversò e quali furono i suoi pensieri propositivi. Sarebbe bastata un’immagine donatami e adesso avrei senz’altro raffigurato al meglio quello scorcio di secolo.

Sulle spensieratezze di Heidegger bambino non ci è dato sapere e ogni biografia parte dai suoi anni di studio e poi si traccia tutto il percorso d’istruzione fino all’insegnamento universitario. È come se non si potesse scherzare sui primi anni e mai il filosofo s’espose nel racconto con piccoli frammenti di gioia, episodi apparentemente minimi ma che potrebbero donare lo spunto per un “quadretto famigliare”. M’è sempre parso che tutta la sua vita dovesse distinguersi come serietà non perdendo egli neppure un istante e concentrandosi solamente sul tempo e sugli amati Aristotele e Hölderlin.

La sua opera fondamentale, Essere e tempo, Heidegger la compose lontano dal chiasso del mondo, nel silenzio della sua baita di Todtnauberg, nella Foresta Nera. C’è da credere che la maggior parte dei suoi libri li progettò e li scrisse in quel silenzio. Delle foto emblematiche ci donano il suo luogo appartato, quasi inaccessibile, e poi il suo passeggiare nel bosco; ed anche questo lo avvicina a mio nonno che amava la solitudine anche se per altre ragioni e con altre coordinate emotive. In fondo quel dasein – quell’esserci per la morte - era materia di riflessione anche per mio nonno pure se lui non conosceva quel vocabolo né la sua pregnanza. Non bisogna essere dei filosofi per capire l’insensatezza della vita ed anche la sua crudeltà, soprattutto nei momenti in cui avviene la lacerazione degli affetti. Il fatto è che l’animo umano è abilitato per riprogrammarsi e il divenire attenua tutto anche perché esso procede lentamente ma con meticolosità nel lesionare gli organi e dunque anche la mente ed il ricordo. E quanto sentimento del dasein avrà accumulato mio nonno seduto sulle scale che conducevano al fienile o mentre faceva ritorno a casa dopo aver provveduto a cambiare i ferri ad un asino oppure ad una cavalla…!

Qualcosa di paragonabile alla baita di Todtnauberg l’aveva anche mio nonno, in quel tratto compreso tra La Villetta e l’intermedia della funivia ma quella casetta era stata costruita per accogliere il gregge, non già per speculazioni filosofiche ad ampio raggio. Esistono delle fotografie che ne testimoniano la presenza e quando osservo quella che in famiglia veniva definita la “casetta” non posso far altro che accostarla alla baita di Heidegger. Ma un luogo di silenzio mio nonno lo aveva anche ad Assergi, gli proveniva da sua madre, ed era un nido, un piccolo rifugio tuttora in vita ed esso è distinto dal civico 46 e si trova tra la casa di Vincenzo Mosca (Manetta) e la casa di Sor Checco. Lì dentro, d’inverno, nel silenzio che non ammette intrusioni, si potrebbe ragionare a lungo sull’esistenza. Fuori la neve, il gelo, la strina, quel che si vuole, ma all’interno di quel nido sarebbe meraviglioso stare “accappati” ripensando a tutte le esistenze che sfilarono davanti a quella porta composta con assi di legno. Già l’architettura di questa piccola casa rimanda ad un tepore famigliare e la natura è data anche dai sassi che ne costituiscono la struttura se qua e là emergono. Si pensi al modo in cui si cercarono quei sassi, quei massi che formano le scale, le giornate spese dagli avi per comporre quel nido. Naturalmente la stagione ideale per viverci sarebbe l’inverno mentre da evitare sicuramente l’estate perché il chiasso gioioso tutt’intorno lederebbe ogni riflessione, ovvero l’allestimento in gran silenzio di quei sentieri interiori, di quei percorsi individuali che possono modificare in meglio la nostra esistenza.

Sia mio nonno che Heidegger furono al fronte durante la Prima Guerra Mondiale ma – fortuna per loro - non conobbero la prima linea. Mio nonno non vide gli orrori di Caporetto, ne sentì l’eco, il resoconto; né il filosofo assistette alla carneficina nella battaglia della Somme ma la “guerra dei materiali” lo raggiunse, nuovi tipi di massacri e non più le vecchie guerre ottocentesche. Non assistere a quegli orrori, non parteciparvi “con il petto” – diciamo così - non significò comunque che la quota di dolore non fosse intensa. Anche in questo caso l’elemento della casualità o del destino torna a tormentarmi: chi è tornato a casa e chi no. Ad Assergi i caduti nella Prima Guerra Mondiale sono ricordati nel monumento in Piazza e questo rafforza il senso della comunità verso i propri figli. Quei sorrisi che nessuno vide più, le tante aspettative negli sguardi, il sole avvistato da fanciulli davanti alla chiesa o sotto l’Orologio. Il dolore dei genitori e il tutto racchiuso in una speranza che diveniva ogni giorno più flebile. Ricordiamo quei morti e operiamo in modo che essi siano sempre accanto a noi. Ecco i nome di quelle giovani vite: ACITELLI SANTE * CASTRATI ATTILIO * CIPICCHIA FERDINANDO * FACCIA GIUSEPPE * FANTINI LUIGI *GIUSTI ASCANIO * GIUSTI DOMENICO * GIUSTI LUIGI * MASCIONI FILIPPO * MASSIMI ANTONIO * MOSCA DOMENICO * MOSCA GIOVANNI * MOSCA FRANCESCO * MOSCA GIANBATTISTA * MOSCA GIUSEPPE * NAPOLEONE  ANTONIO * VITOCCO FORTUNATO * STAFFA SANTE.

In quella guerra furono presenti uomini che poi diventeranno illustri poeti e scrittori.  Ludwig Wittgenstein, matematico e filosofo nato a Vienna nel 1889 e morto nel 1951 a Cambridge, e autore del Tractatus logico-philosophicus; quindi lo scrittore tedesco Ernst Jünger, nato nel 1895 e morto a 103 anni, nel 1998; costui fu in prima linea e decorato con la croce di ferro; appuntò tutto nei taccuini, giorno dopo giorno, e poi pubblicò quanto visto in guerra con i libri Nelle tempeste d’acciaio e Boschetto 125. Il nostro grande poeta Giuseppe Ungaretti, classe 1888, proprio in trincea scrisse il suo capolavoro, la raccolta di poesie Il porto sepolto. Da parte sua Carlo Emilio Gadda, classe 1893, ingegnere e grande scrittore, narrò la tragedia della guerra con Taccuino di Caporetto e Giornale di guerra e di prigionia. Naturalmente è da ricordare il suo capolavoro, La cognizione del dolore. Gadda in quella guerra perse anche suo fratello Enrico. Inoltre è da ricordare il futuro giurista e storico Arturo Carlo Jemolo, classe 1891, l’autore di Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni. Tutti questi scrittori fecero ritorno a casa ma la loro vita fu segnata per sempre da quanto visto e vissuto nelle trincee.

Come si vede sono partito da un accoppiamento giudizioso tra mio nonno ed il filosofo Martin Heidegger e piano piano ho ricordato i morti di Assergi e alcuni scrittori che presero parte a quell’evento bellico. È questo il sublime dello scrivere: si inizia e non si sa quello che s’incontrerà per strada, può succedere di tutto, ed è una gioia quando delle esistenze riaffiorano, tornano tra noi anche se di passaggio in uno scritto.

È anche giusto ricordare che Accoppiamenti giudiziosi che ho usato al singolare è il titolo d’un libro di racconti di Gadda e, come si vede, attraversare i libri può significare non soltanto ricordare uno scrittore ma anche l’intuizione d’un titolo.

Era tanto tempo che accostavo le date di nascita e di morte di mio nonno e Heidegger e cercavo il modo di tracciare un sentiero dove potessero “incontrarsi”. Soltanto la scrittura consente questo e poi la febbrile ossessione di chi tenta di ricongiungere i dispersi frammenti. Operazione inaudita ma se non si possiede il culto dei morti, parallelamente alla passione per la vita, si deve cambiare orizzonte esistenziale e affannarsi per conquistare quote di mondo.

Quando alla sera, prima di cena, vedevo mio nonno fumare il sigaro sul balcone, volevo parlare con lui anche perché quelli erano gli unici momenti in cui non lo vedevo impegnato nelle sue attività. Il suo invito però era di lasciarlo solo perché soltanto in quella condizione poteva trovare raccoglimento e forse un poco di sereno. Era doloroso lasciarlo anche perché era sera e il buio già invadeva la Piazzetta del Forno.

Al tempo della mia fanciullezza Heidegger era ancora vivo e forse continuava a passeggiare tra i boschi e a cercare nuove energie per scrivere quanto pensava in quei silenzi. Io non lo conoscevo e m’interessavo soltanto ai miei affetti ravvicinati e inoltre pensavo che mio nonno lo vedevo soltanto d’estate e questo fatto m’addolorava molto. E poi era l’unico che alla nostra partenza per Roma, piangeva. Io ero come lui e ai saluti dovevo scantonare per non soffrire. E questo di mio nonno non era  forse un dasein inconscio, la constatazione d’essere stati gettati qui come in un gioco di dadi?

Mio nonno morì esattamente quaranta giorni prima di Heidegger, nel mese più insidioso per i vecchi, cioè aprile, che ai più sembra inoffensivo.  Un’altra cosa legava mio nonno a Heidegger, il fatto di voler rimanere sempre nel suo luogo d’origine e quando lasciò Assergi ciò accadde soltanto durante il periodo bellico; da parte sua il filosofo lasciò i suoi luoghi soltanto quando si trattò di raggiungere un’altra università per insegnare. Evidentemente l’ontologia delle radici li accomunò e, oggi soprattutto, sarebbero dei pessimi viaggiatori.

 



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