Parente, ricordo di un personaggio di Assergi

  Più so più sobillo l’onde e incremento il mare nostrum dell’ignoranza.

 - di Giacomo Sansoni -

 Le api…le api, quante api su questi volenterosi cespugli di biancospino.

Quanta festa su queste nuvole di fiori, che già sanno di miele, prima di essere miele. Api tornate all’istintivo amore per i fiori, forse affrancate, salve, non smarrite come quelle degli stazzi confinati ai margini delle vulnerabilità umane.

Quelle infinocchiate dagli odori subdolamente invescanti delle vernici, dei solventi al toluene, degli xileni, delle benzine dell’artificio abbindolante e frodante degli uomini.

Api chiamate  alla celebrazione pronuba, nella inconsapevolezza della sacra fertilità ieratica. Ossequiose della circoscritta nicchia naturale.

Senza coscienza? Con coscienza più sublimata, partecipe degli equilibri sovrani che tengono il cosmo? …chi potrà dirlo?

La stessa coscienza di “Parente”, incastonato nella sua nicchia morale, come una pianta che sa fiorire in una chiusa, misera culla di terra, che nel suo piccolo mondo relegato, non necessita, né ne ha premonizioni di bussole sestanti o astrolabi, perché inconsapevole di un altrove da prevedere oltre la sua concava giustificabilità. Parente, ovviamente senza sapersi giovare di ammaestramenti codificati o archiviazioni letterariamente computate, professava, senza professione attestata, se non per romita adesione empirica alle cose della vita, il principio, di porre con fede sconfinata, il cuore alle proprie vie, senza cavezze,  briglie o coercibilità al cavallo della vita. Nel caso di Parente forse più asino che cavallo, data la docilità, orfana della minima asinina recalcitranza. Parente, così soprannominato per il suo magro interloquire con tutti, al di là, o più al di qua, oltre i nomi, prima dei nomi, con l’appellativo “paré (parente)”, riconoscendosi con tutti  entro la stessa archetipica consanguinea comunione; fervido credente, cieco alle lusinghe del libero arbitrio, puro vedente senza presentimenti di cittadinanza della ragione.

Dio ha messo la ragione nella testa degli uomini per provargli la fede.

Per parente come non gli occorreva la ragione per provarsi nella fede, non gli occorreva la fede per provarsi nella ragione.

Parente era congenitamente puro, affrancato da qualsiasi peccato originale, consanguineo e compatente con un dio incarnato nel mondo  o un mondo che presta la carne a dio.

Parente sempre libero e liberato da ogni impegno terreno, per l’impegno sovrano ad imbracciare la croce della fede ad ogni processione, ad ogni viatico per i morti e per i vivi, ad ogni vaticinio di campana,  messa sacramentale o non, con o senza reliquari, con un reliquario di santini, cristi, madonne, croci calvari medagliette, spillette sacre d’ogni materia, metallo, consistenza ed evanescenza a trafiggere la logora, lisa rattoppata oltre misura, sempiterna giacca,  cascante sulle spioventi braccia, minate da una qualche displegia o tetraplegia  congenita, giacché anche le gambe mostravano un provato sacrificio posturale e necessitavano dell’abbrivio scomposto dell’articolazione a pendolo delle braccia, per procedere. La figura piegata per un declino vertebrale, una vertebrata condiscendenza senza remissione alla subalternità, o perché  sempre pronta ad una genuflessione, con la coppola in mano, per una scappellata di riconoscenza ad un santo, ad una madonna, agli uomini.

Anche l’altra buccia, quella propria,  quella della pelle aveva la consistenza sugherosa di un infierito floema esposto a tutte le strine, venti, diluvi e feroci soline, al pascolo delle pecore.

Ma l’anima era intonsa, vergine, quasi infantile, congenitamente discreta, modesta, umile, schermente, affrancata, donante, sempre prestevole, restitutiva per una nuova processione rincarnante, salva entro il conservativo mare della fede e della grazia, soggetto alla stessa precostituente codominanza della fede alla naturalità e naturalità della fede, così come le patentate proficuità delle api, in una terra dove può divenire sterilizzante ogni seme d’arbitrio.

Laconico Parente, per pecunia di motti e parole, che non si pascevano delle stesse erbe, dei medesimi acquazzoni, delle perpetuanti albe e tramonti di cui si pascevano le pecore, che la famiglia gli affidava. Eppure dava prova di una insospettata, fiera, scarcerata logorrea basica, quando per avocarsi un dialogo, gli si chiedeva delle medaglie appese su ogni lembo di stoffa della giacca, di cui sapeva il nome del santo e chi gliela avesse donata.

Ad averne sempiterna riconoscenza, al di fuori della costituzionale riconoscenza, che elargiva per tutti e per tutto, bastava regalargli una spilletta, un santino, una immaginetta sacra, una coroncina, una catenina che, benché di materia vile, per lui povero e scevro d’ogni consapevolezza, primordio o albore d’estimo, entro la pietra filosofale del suo animo, faceva compiere l’aurea riconoscenza. Sempre schivo Parente, quando, in occasioni di socialità post-cerimonia sacra o incontro fortuito, gli si offrisse un dolce una ciambella un bicchiere di vino, lui rifiutava, si schermiva, timoroso e timido “i none crazie” (e no grazie), come a dire è troppo e necessitava reiterata insistenza nell’offerta, perché lui, alfine con una mano contratta in forma di passero, aduncasse quasi repentinamente qualcosa, con un fare lesto, quasi a smagrirsi di tale svergognamento, per come gli dovesse sembrargli l’alterigia di tale atto.

Non so chi, al suo funerale portasse la croce; che alcuno avrebbe potuto portarla, croce che nessun’altro conosceva, o che altre dita conoscesse essa che, nel palo su cui si articolava il pesante simbolo in metallo, imperituramente restarono impresse, come in una artificiata sindole, la forma delle sue artrosiche falangi delle sue mani miti da uccello, tutte le sacrificose preghiere e perigliati artifici di equilibrio.   

 

Verrebbe da chiedersi, con insanabile giustificabilità, se non sia più giovevole arrendersi, giovandosi di tale esempio, ad un remissivo totale abbandono alle ragioni, non ragioni, di una fede oltre la fede, ad una culla, ad una madre sempre offerente e in perenne gestazione?  



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