LA QUIETE DEI GIORNI FERIALI (IMMAGINI DALLA VITA DI SARA NAPOLEONE)

 

- di Fernando Acitelli -

 

 

Il sole baciava Sarina attorno alle dieci e trenta. A quell’ora lei aveva già sistemato la casa, aveva visto Lino avviarsi al pagliaio oppure in campagna e dunque per un po’ era libera di sedersi e sistemare i tanti pensieri che le affollavano la mente. S’accomodava sul gradino favorevole della casa accanto alla sua, quella di Ercolino e Lucia, e lì indugiava. Era bello osservarla dal mio balcone a precipizio sulla Costa e mi gustavo ogni suo gesto, ogni movimento, ogni sua riflessione silente. La bellezza era decretata proprio dal suo silenzio: a penetrare nei suoi pensieri avrei incontrato tanti personaggi. Quel piccolo ritaglio di mondo che aveva davanti doveva ricordarle tanti momenti della sua vita: l’arco di Colomba, la casa dei Giannangeli, la ringhiera pitturata di verde di Cesare Massimi e di sua moglie Teresa. E inoltre la casa ad intonaco rosa di Irene con bagno sul balcone.

Quell’ora del mattino era d’una intensità emotiva che, per lunghezza, valeva quanto un giorno. Tutt’intorno quel silenzio fortificante che sembrava disperdere tutte le chiacchiere che fino alle nove s’erano sentite; frasi riferite da donne in margine ai venditori che erano arrivati alla Porta del Colle: se non era giunto Damiano non valeva la pena andare a vedere altre novità, così dicevano le donne più giudiziose; e poi s’erano udite altre frasi, delle vere imprecazioni a proposito delle terre che si dovevano espropriare per i lavori dell’autostrada; inoltre s’udivano dagli usci considerazioni romantiche circa “i begli tempi de prima”, invocati da tutti in un inno continuo dal focolare al pagliaio, dal fienile alle Spinara.

Mentre Sarina era in raccoglimento, qualche gatto migrava da una cantina già presidiata e povera di contenuti e si dirigeva verso un balcone distendendosi poi al sole. In quei momenti il loro stoicismo era uno spettacolo: non avevano preoccupazioni per la casa, il vitto, le tasse, la fondiaria. Gli anni passavano ma non esistevano per loro preoccupazioni per il futuro. I gatti della Piazzetta del Forno non s’avventuravano mai verso la Costa e il limite lo avvertivano alla casa di Gianni e Giulio. Poi i due fratelli avevano un modo particolare per attrarre a sé i gatti e si trattava di complimenti che rasentavano l’affetto. Testimonianza ne fu il soprannome Trottolone per il gatto più intenso che Assergi avesse mai avuto, il famoso Andreotti, amatore senza limiti, padre prolifico e al tempo stesso creatura pacifica malgrado il manto nero.

Esistevano altri gatti, in verità, quelli di mezza Costa, praticamente dalla casa di Francesco, confinante con quella dei fratelli Sansoni, fino all’arco di Pecione. Anche questi gatti erano rispettosi del loro distretto e non s’avventuravano mai nella Piazzetta del Forno da una parte o giù, verso Gioconda e Marì dì mbò. (il significato di quest’ultima sintesi, che identificava una persona, doveva essere «Maria dì un po’»). Come zona residenziale questi gatti avevano quello slargo (o rientranza) che era proprio di fronte al punto dove si sedeva Sarina. In quello slargo eccelleva l’arco di Colomba, dal quale sortiva suo marito, il cui nome mi sfugge ma il cui soprannome resiste, cioè Traband, e la loro figlia Rita; poi Giovannina con suo marito Giovanni ed i figli Mimmuccia e Apollonia. Devo inoltre ricordare Franciscone, padre di Giovannina, che era puntuale di sera a transitare per la Piazzetta del Forno prima d’imboccare con un’andatura non tanto tranquilla la Costa. Nella casa dei Giannangeli c’era Angelina con il marito Berardino, quindi la patriarca, ovvero la Marchigiana, e poi tanti figli da Maria Pia a Grazietta, da Domenico a Gino alle gemelle. Per i gatti di quel distretto l’arco di Colomba era, d’estate, un’oasi felice e lì essi valutavano appieno le ragioni del fresco.

Tutto questo accadeva dinnanzi gli occhi di Sarina, la quale, dunque, non s’occupava soltanto di vedere le persone ma valutava anche le traiettorie dei gatti che d’inverno, invece, abbracciavano quel gradino per le ragioni del sole che su quel marmo imperava. Sì, il gradino di Sarina, quello che fu suo luogo privilegiato, esistenziale.

Con lei lì seduta si respirava il silenzio dei giorni feriali e si sarebbe voluto vivere in quella quiete per sempre. I giorni feriali, dunque, come una medicazione. Come orologio a lancette ferme e la vita non minacciata. Qualcuno ricordava che in quella casa di Sarina e Lino Graziani vi aveva abitato, un tempo, negli anni ’30, una certa Maria al cui nome s’aggiungeva di Bel Soldato (de Ben Sordate, come avevo ascoltato). Ma quel ricordo era disteso soltanto in alcune menti raffinate la cui vita era stata un continuo duello con la sensibilità e con il dolore. Ma questa Maria non la ricordava più nessuno e quel nome resisteva ormai soltanto nei Registri Battesimali.

Famigliari e discendenti forse non esistevano più e se uno fosse andato dal parroco, ad esempio da don Demetrio che viveva nella distinzione anche della sua automobile PRINZ NSU colore avana, come avrebbe fatto a prenotare una messa in memoria di quella Maria? E chi ci sarebbe stato poi tra i banchi in quel pomeriggio della funzione? Quali i parenti superstiti? Si doveva pensare dunque a quell’esistenza come a tutte le altre di cui resisteva il ricordo, magari un sibilo di nome, il sussurrarlo in un vicolo, forse in VICO E ARCO CONCEDUTO. Ma si finiva sempre nella stessa immagine: l’ovale della lapide, ormai scolorito e dondolante con il vento.

Ma torniamo a Sarina che era rotondetta il che migliorava assai la Costa comunicando lei a tutti noi una sensazione di salute. Bianca e rossa e con lo sguardo di quella furbizia buona; infatti per lei non si poteva scomodare la parola “birbona”. Ecco, se c’era una figura ad Assergi che esprimeva una furbizia intuitiva, silente e famigliare, questa era Sarina. Dunque lei alle dieci e trenta e con il sole splendente si posizionava su quel gradino di cui s’è detto. Naturalmente era prima dell’estate, o anche dopo, cioè nel periodo in cui Ercolino e Lucia erano a Roma e dunque libero quel famoso gradino dove lei si sedeva. Era quella la sua postazione privilegiata ed io non sapevo se lei desiderasse gustarsi quel silenzio oppure attendere che da un momento all’altro sortisse qualche persona. Verso la fine della Costa Sarina poteva sperare in un transito veloce di Gioconda che tagliava quello spazio con un passo veloce. Gioconda poteva ben dirsi una delle vecchie donne più veloci di Assergi. Abilissima nel procedere svelta, aveva un passo così rapido che rasentava la corsa. E resisteva anche alla fatica. Una quercia che superò con disinvoltura i novant’anni. Come velocità le poteva forse tenere testa soltanto Giuseppina, la moglie del Colonnello (cioè Colonneje). Ecco, Giuseppina anche con gli anni addosso aveva una facilità di corsa impressionante e questo lo sperimentai personalmente una volta che me s’afficché appresse. Lei il vero difensore di quella cucina con il camino in fondo e sulla sinistra.

Era un bel fotogramma Gioconda che appariva abballe alla costa da sinistra a destra e orientava il suo destino giornaliero verso l’asceta in attesa, Battista, suo marito, seduto su una sedia e vero osservatore del mondo. Flemmatico e chiuso in un quieto disincanto, era appena percettibile il suo sorriso: il tutto in un’unica e indimenticabile posa.

Sarina vedeva sbucare anche Mariuccia la Falalana: costei sortiva dall’arco di Pecione, da quell’ombra che svelava come un mistero. Oltrepassando quell’arco, infatti, la sensazione era di trovarsi in uno scorcio di presepe. Mariuccia era una valente sarta e prestava la sua opera anche a mia nonna. La sua chioma era uno spettacolo, tutta pieghe bianche e con delle lievi gradazioni di giallo: forse il tempo aveva decretato quest’ultimo dettaglio. Era una belle donna e la vecchiaia la stava insultando lievemente.

Sul far della sera suo marito di cui non ricordo il nome rientrava a casa con un procedere lento e in una mano stringeva il bastone mentre nell’altra una cameluccia metallica con le uova. Soffrivo nel vederlo perché procedere sulla Costa era una fatica per lui ed anche un pericolo a motivo dei gradini a scendere. L’ultimo ostacolo prima del riposo a casa era rappresentato dal gradino per nulla facile che consentiva l’accesso all’arco e che era il più alto di tutti quelli già superati.

Sarina se ne stava tranquilla e paciosa; osservava tutto da quel punto strategico proprio a metà della Costa. Io la ricordo in particolare lì, abbarbicato in alto, spensierato a scolpire immagini di chi mi colpiva. Senza pensarci componevo un archivio in me. Potrei ricordare lei anche quando passava per la Piazzetta del Forno ma l’immagine più forte è quella che ho descritto su quel gradino accanto alla sua casa. Se penso a lei, non posso che vederla là.

Negli ultimi tempi la vidi nei pressi della casa di sua figlia Antonietta; stava seduta su quel muretto degli Acitelli prima della casa della Foletta. Ero per lei un viso conosciuto, mi inquadrò componendo un lieve sorriso: «Tu ci ‘u figlie de Dummenicuccia…» - mi disse. Come non abbracciarla?



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