IL POSTALE ED ALTRI IMPROBABILI MEZZI DI TRASPORTO

IL POSTALE ED ALTRI IMPROBABILI MEZZI DI TRASPORTO.
 
 
- di Angelo De Angelis -
 
Il colore è azzurro come l’involucro di cartoncino dello zucchero “Eridania” che trova posto nella cucina di casa mia e che periodicamente viene incantato fino a riempire la piccola zuccheriera di ceramica, poggiata su un vassoio di argentone in mostra sul buffet della sala. Il leggero fruscio dei candidi cristalli che scorrono e cadono nel piccolo contenitore non ha però nulla a che fare col rumore che emette quell’oggetto misterioso posto su ruote alte quasi quanto me.
Sono fermo alla “barriera di Porta Romana” all’altezza dell’Arco Santa Croce, a due passi da casa mia; alle spalle un gommista, davanti quello che resta delle mura cittadine, demolite per far posto a via XX Settembre, strada di circonvallazione realizzata per mettere in comunicazione il centro città con la stazione ferroviaria. Il treno è arrivato ad Aquila nel 1875; insieme all’ufficio postale di piazza Duomo è stato il simbolo tangibile del neonato Regno d’Italia.
“… èsso ju postale”: una anziana signora ferma vicino alla mia famiglia si prepara a salire sul mezzo azzurro che, partito dal “Vicolaccio” scende lungo via XX Settembre diretto a Scoppito.
Il postale emette un borbottio metallico, tipico di quello che, anni dopo, ho scoperto essere un motore diesel; un rumore che da sempre ho associato all’odore pesante del gasolio, bruciato malamente sotto il pavimento del veicolo, i cui effluvi trasudano da ogni fessura impregnando i polmoni ed i vestiti dei viaggiatori.
Il motore è posto anteriormente, sulla destra dell’autista, di fronte alla porta di ingresso; si innalza dal pavimento ed è nascosto sotto una pesante, calda campana metallica imbottita di feltro al di sotto della quale sembra svolgersi una furiosa e fragorosa battaglia.
Aveva un nome, quel mezzo, che mi è stato svelato dal mio amico e collega Maurizio, in una cena del circolo ricreativo aziendale: FIAT 626, costruito a partire dai primi anni 40, figlio quindi dell’autarchia legata alle sanzioni economiche subite dall’Italia per aver conquistato l’Etiopia. Era semplice nella costruzione e povero nelle finiture: appena in marcia vibrazioni, sobbalzi, puzza di nafta mettono a dura prova lo stomaco anche del viaggiatore più incallito… figuriamoci quello di un bambino di cinque anni!
Alla guida c’è un piccolo Budda, basso, con pochi capelli residui dietro le orecchie, un paio di baffetti ed un sorriso cordiale; ha braccia ed avambracci enormi da fare invidia a Braccio di Ferro, irrobustiti dal pesantissimo sterzo, che senza alcun ausilio di servomeccanismi, deve essere azionato con destrezza e precisione chirurgica.
Chiunque viaggia sul “suo” mezzo lo saluta con un cordiale “ciao, Ivano” ed altrettanto fa lui rispondendo con cordialità a quelli che sembrano, o forse sono, amici abituali.
L’autista di paese è personaggio pubblico; insieme con il sindaco, il parroco, il maresciallo dei carabinieri, il medico condotto e la levatrice, rappresenta per tutti il collegamento del piccolo mondo del borgo di campagna con la vicina città.
A lui si rivolgono i paesani per le piccole commissioni: le medicine da prendere in farmacia, l’acquisto di un giornale, il rilascio di un certificato della Prefettura e a volte qualche piccolo sfizio, come lo sfilatino di pane bianco, così delicato e diverso dalle pagnotte di farina semintegrale cotto nel forno a legna del borgo.
Ivano annota le commissioni al mattino, quando parte da Collettara diretto ad Aquila ed al ritorno non manca mai di rispettare l’impegno assunto. Non chiede compenso, non accetta mance, è amico di tutti e da tutti è amato e rispettato.
Il suo carattere gioviale, la sua serenità ed i suoi rapporti amichevoli soprattutto con chi ha bisogno di lui lo hanno accompagnato per tutta la vita professionale e la sua esistenza; ed ha voluto trasmettere la sua filosofia di vita anche dopo aver varcato la soglia che porta oltre questa terra riportando sopra l’uscio della sua ultima dimora il noto epitaffio che campeggia dal 1602 sulla porta di ingresso del convento dei frati minori cappuccini di San Nicolò a Schio.
O tu mortal che guardi, ridi e pensi,
io fui come tu sei con alma e sensi.
Tu pure diverrai qual sono io.
Pensa di cuore a questo e vai con Dio.”
Il “postale” accosta al margine della strada alla fermata di Porta Romana e salgo, insieme alla famiglia al completo.
Ivano mi prende in braccio, mi invita a girare lo sterzo; mi appendo ad esso con tutte le mie forze senza riuscire a spostarlo di un millimetro e capisco quale forza erculea sprigionano le sue braccia, aduse a trattare con sicurezza quello sterzo col quale obbliga il pesante mezzo a seguire la tortuosa strada che collega la città alla campagna.
Mi fa sedere al suo fianco, sopra la campana che nasconde il motore, mi aggrappo con forza ai mancorrenti che servono a trattenere i pacchi e partiamo. Un viaggio lunghissimo di 15 chilometri che sembra non finire mai. Le ruote seguono il nastro d’asfalto, inizialmente rettilineo, poi, passato Ponte Peschio, pieno di curve che fanno avvolgere lo stomaco a forma di fusillo; finalmente un lunghissimo rettilineo, dal Tricaiolo a Sassa Scalo; infine l’ultimo tratto di strada bianca, malamente rimbrecciata ogni volta che un temporale crea piccole trincee e grandi buche.
E’ primavera inoltrata e gli alberi in doppia fila che costeggiano IL “rettilineo di Sassa” hanno sviluppato folte chiome che si ricongiungono al centro formando un tunnel verde che sembra non aver fine. I miei occhi di bambino non si stancano mai di ammirare quel tratto di percorso così affascinate, opera dell’uomo che ha voluto farsi perdonare l’oltraggio alla natura, violata dal nastro d’asfalto.
Il postale è proprietà della società cooperativa “Freccia d’Abruzzo”, che a partire dal dopoguerra garantisce il trasporto pubblico per le frazioni di Coppito, Arischia, Collebrincioni, Aragno e San Giacomo.
Ma non è l’unico attore di quel servizio essenziale che, in tempi in cui la motorizzazione privata è un fenomeno d’elite, costituisce l’unico modo per spostarsi agevolmente da un luogo all’altro. La società più antica è la Chiodi & Capranica, che trasporta persone dentro le mura percorrendo, al prezzo di 30 lire persino via Roma in salita. La Chiodi e Capranica nasce nel 1924 e soppianta con servizio di autobus il filobus, gestito dalla società SPA attiva dal 1907, quando i tempi moderni impongono un comodo e veloce mezzo tra i quarti aquilani e la stazione ferroviaria. Nel dopoguerra nuovi ampi orizzonti si aprono davanti agli autobus della soc. Chiodi e Capranica, che raggiungono le lontane periferie adiacenti il cimitero, Gignano, sant’Elia e Roio.
Una piccola azienda a carattere familiare, la Paolibus con sede ed attività principale a San Demetrio, ha resistito più delle altre all’ondata di pubblicizzzazione che ha travolto il trasporto, arrivando alla soglia del 2000. Ricordo ancora il patriarca fondatore della società, il vecchio Athos, esile, basso, incurvato dal peso degli anni e dalla fatica, che, sceso dalla corriera proveniente da San Demetrio, condivideva con me parte del percorso da San Bernardino ai Quattro Cantoni.
Ultimo attore del trasporto pubblico cittadino è la soc. Pacilli, dotata di una efficiente officina che, ancora a metà degli anni settanta, riuscì a stupirmi per la organizzazione e la completezza delle attrezzature: un piccolo gioiello che aveva la firma del fondatore Ing. Pacilli. L’azienda garantiva collegamenti “rapidi” con Paganica, Filetto, Pescomaggiore, Camarda, Assergi, Bagno, Collesassa. Il gioiello di famiglia era la linea L’Aquila Roma che percorreva, in un tempo che sembrava infinito, la via Salaria, competendo con il treno che correva parallelo alla strada fino a Rieti, e che poi si allontanava raggiungendo Orte, prima di incunearsi dentro Roma fino alla Stazione Termini, dove incontrava di nuovo l’autobus, il cui capolinea era sulla adiacente “piazza Esedra”.
Poi arriva l’autostrada A24, il cui primo lotto comincia ad essere percorso nel 1969… e le distanze infinite si accorciarono di colpo! E dopo ancora, a metà anni 70, quelle quattro ormai traballanti aziende private sono sostituite dalla Azienda comunale, l’ASM, poi divenuta AMA e da quella regionale, l’ARPA, poi divenuta TUA. Ma questa è storia recente.
Il postale, che nome strano! Da bambino non riuscivo a capire quale nesso ci fosse tra quel barattolone azzurro fumoso e scoppiettante e le poste, fin quando non vidi una persona vestita con una giacca con mostrine sulle spalle, tasche esterne sul petto ed un cappello con una piccola visiera – sembrava un militare, ma non lo era – che si avvicinò alla porta anteriore dell’autobus, fece un cenno rispettoso a Ivano che senza indugio aprì la portiera e vidi letteralmente volare sotto il sedile dell’autista un sacco di iuta con degli strani sigilli di piombo.
Curioso come scimmia, chiesi cosa fosse: “è la posta”, mi rispose Ivano, “devo consegnarla all’ufficio postale di Scoppito”. Già, allora la posta viaggiava, per l’ultimo miglio, proprio sul “postale” che mi portava, bambino, a Santa Maria.
Tanti anni dopo caso ha voluto che il mio lavoro definitivo sia stato proprio quello di organizzare il lavoro in una azienda pubblica di trasporto. M’ero laureato da qualche anno e, felice, dissi a mio nonno dove di li a poco sarei andato a lavorare. La sua semplice logica di contadino lo portò ad esclamare: “Sci studiatu tantu pe ji a fa’ ju chauffeur”. Risposi divertito che non avrei guidato l’autobus, ma avrei indicato agli autisti quali autobus prendere e dove andare: “… e perché, non lo sau da soli, ji autisti, addò tanno ji?” Dovetti riflettere un po’ prima di trovare una risposta soddisfacente e lo feci pensando alla sua esperienza vissuta in guerra, dicendo che anche nell’esercito c’erano gli ufficiali che davano direttive alla truppa: “pure quesso è vero”, fu il suo laconico e poco convinto commento.
Entrato dunque a pieno titolo nel mondo del trasporto pubblico capii quanto importante fosse, per i piccoli centri montani dell’Abruzzo interno, la penetrazione capillare del postale. Gli atti di concessione delle autolinee ponevano, in capo alle Società, il trasporto della posta, che doveva essere custodita in un vano sottochiave sotto il controllo visivo dell’autista, il quale doveva annotare e rapportare anche i ritardi nel transito, quando avessero superato i 30 minuti.
La fermata della “Freccia d’Abruzzo” di Santa Maria è in località “La Croce”; si deve percorrere a piedi una ripida salita di qualche decina di metri di strada imbrecciata per arrivare al paese. Per me bambino quella salita è una vera Croce, tanto è ripida! E non lo è solo per me: urla, incitamenti e schiocchi di frusta servono di sprone alle mucche che hanno al traino il carro carico di fieno o grano che viene trasportato dalla campagna al paese. Diviene anche banco di prova per noi ragazzi quando, un po’ più grandi, cominciamo a misurare la nostra forza tentando di percorrere quelle poche decine di metri con la bicicletta… procediamo con andatura incerta e barcollante lungo la salita dopo aver preso una lunga rincorsa percorrendo con velocità crescente la lunga discesa da Casale a Santa Maria. Le biciclette sono quelle dei grandi, sono pesanti e prive di cambio; noi non arriviamo neppure al sedile: le prove di arrampicata su quel faticoso “traguardo di montagna” durano qualche estate e costano fatica e sbucciature a gomiti e ginocchia; quando finalmente riusciamo nell’impresa ci sembra di aver oltrepassato il sottile e labile limite che divide la fanciullezza dalla pubertà.
Due anni fa con alcuni amici d’infanzia, che avevano vissuto con me l’esperienza scoutistica, decidemmo di ritrovarci per un fine settimana sul Terminillo. Gustai a fondo il breve viaggio in macchina, guardando attentamente il paesaggio e annotando mentalmente l’itinerario che dalla conca di Rieti si inerpica verso la montagna. Avevo percorso quella strada altre tre o quattro volte oltre sessant’anni prima. Era il primo dopoguerra; la vita stava riprendendo faticosamente i ritmi della normalità e grande era il desiderio di svago e di divertimento. Avevo non più di tre anni e la mia famiglia si accodò ad altre per gite fuori porta da Rieti alla montagna.
Il viaggio – erano tempi di ristrettezze economiche per tutti – aveva del pioneristico per l’assenza sul mercato di autobus. E fu così che l’unica possibilità di trasporto di un gruppo di una ventina di persone era con camion che avevano da appena un lustro cessato le funzioni militari e si erano riconvertiti per usi civili. Il FIAT 626 della Freccia d’Abruzzo L’Aquila – Scoppito era al confronto un bus da granturismo, con i suoi morbidi sedili di vilpelle consunti e scarsamente imbottiti ed i suoi rivestimenti interni di bachelite che facevano finta di attutire vibrazioni e rumori. Soltanto la cabina di guida del camion somigliava vagamente al muso dell’autobus; dietro c’era uno scarno cassone di assi e tavole di legno con due panche longitudinali anch’esse di legno che correvano lungo le spuntine laterali. Sopra la testa un telone poggiato su centine di ferro: il tutto ricordava vagamente il carro usato dai primi coloni americani che si avventuravano lungo le piste che portavano al lontano ovest.
E la strada non era certo migliore di quello spartano mezzo di trasporto. Appena lasciata la via Salaria iniziava una carrareccia imbrecciata che consentiva a malapena l’incrocio di due veicoli e che, curva dopo curva, portava in quota, sui prati sottostanti la cima del Terminillo. Sin dal primo giorno mi conquistai un posticino a sedere sui tavolacci del pavimento del cassone, in fondo al camion: non appena presa la strada bianca e tortuosa iniziava infatti a farsi sentire, prepotente, il mal d’auto che mi rivoltava stomaco ed intestini; non c’erano buste per l’occorrenza, allora non usavano: dalla posizione strategica conquistata la strada diveniva la destinazione ultima di ciò che lo stomaco aveva contenuto.
E lì, sui meravigliosi prati fioriti, ancora non del tutto abbandonati dalla neve, giochi a volontà per i piccoli e per le giovani coppie che in allegria andavano a godere di quella raffazzonata vacanza. Quell’improbabile mezzo di trasporto, residuato bellico malamente funzionante, era in grado però di trasportare un carico di speranza, voglia di vivere e diveritmento che gli attuali supertecnologici mezzi di trasporto sicuramente non sono in grado di eguagliare.

 



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