SANTARELLO

                                          SANTARELLO

- di Giacomo Sansoni -

Sante, Santino, Santarello, in prigioniero vernacolo: Santareglie, figlio dei luoghi, del tempo e delle libertà schiave o libere schiavitù.

 

Si vuole adombrare un reale, però più verosimile, forse presumibile, esordio incarnante nelle periferiche latitudini della nostra galassia e alle nostre contingentate topografie esistenziali di questo nostro parente prossimo.

Occorre rivendicare zeppe storiche per sostenere l’artificio relativistico della giustificabilità delle parole, che entro la loro congenita carie albergano, grotte esistenziali, latifondi di silenzio, altopiani di acquietamenti, mari di abbattimenti e venti e strine che sono cote ruvide sull’anima.

Artificiando, come con la letteratura si può fare, quando ci si illude che, senza sporcarsi le mani, si ha tra le mani docile plastilina di creazione, e tutto possa corrisponderci senza dolo, così come ora si cerca, con deliberata sicumera o sussiego, di vicariare la povera facondia di Santarello.

Santareglie che aveva tra le dita verbalizzazioni  e costrutti argomentativi deliberati con codificazioni, che oseremo dire, avevano stretta cavezza matematica, quando invece spesso, non erano sviscerati con articolate gesticolazioni e vocalizzazioni eterodosse e sgangherate, forse autocompiaciute o solo dolenti, con una attinta iperbole auto schermente, per lo scherno che presumeva di indulgere, o per appropriarsi e uniformarsi a quello malcelato da tutti, per il brigliato ipocrita dominio di continenza.

Ora colpevolmente doniamogli un basico determinismo, parole forse apocrife e apriamo lo stertore alle sue parole, appropriandoci, senza profanazione, di una sua probabile narrazione, con parole che tornano alle sue giustificabilità, la sua entrata nel vestito della carne entro la pelle sociale, al di là delle derive glaciali delle pietre, oltre il rimario frettoloso delle acque e la costipata urgenza delle albe e tramonti tediati dal cospetto dominante e ieratico dei monti.

 

                                    I ricordi ci uccidono. Senza memoria saremmo immortali

 

            “Il Malpensante”    G. Bufalino                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                  

AAAAAhhhhhhh…AAAAhhhhh…Bianchina…AAAAhhhhhh! Sono nato nell'anno, che di neve ne fece così tanta che, come mi raccontava la mia povera mamma, io uscii al mondo come un cucciolo di talpa o di ghiro, quando, a primavera si sciolse la neve. Fortuna che quell’inverno rimasi dentro la grotta calda di mia madre. Mamma e papà mi dettero la vita e per devozione nome Santo, e per tenermi più meglio dentro il loro amore, mi chiamavano Santareglie, cioè Santarello, ed era poco tempo che ero nato, tre o quattro estati e primavere, basta dire, e quella età è poca o è tanta, bisogna vedere da dove si guarda, e mia madre e mio padre guardavano bene, anche se quello che dovevano guardare non era quasi mai bello. Il loro amore non saziava la mia fame, che ce ne avevo tanta di fame e ce lo ancora, l’unica cosa che ce ne o tanta…bhe adesso ce ne o tanta, cioè tante anche di parole, forse di più, ora, ringraziando Dio e amen. E la fame, cacciando il battesimo, non a ragione, che la testa, se c’è dentro essa la ragione, come dicono, sta da un’altra parte, anzi da tutte le parti, basta dire, e non ci sta ragione per poterla capire la fame, che lo o visto anche dentro gli animali macellati per le bocche più piene di denti, che non ci stava comunicazione tra la testa e la pancia, però ai voglia a dire, con la testa che la fame non c’e, non ci sono cristi. A dire il vero crescevo crescevo, bhe mica poi tanto, crescevano gli anni e la fame e, pure la fame degli anni e la fame mi azzannava non solo la pancia ma pure la testa, che allora io mi penso, da per me, che deve esserci un passaggio che gielo dice alla testa che la pancia non sta bene. M’azzannava, m’azzannava e io però sentivo tutto, la fame e i rimproveri di tutti che dicevano che di me se ne faceva poco, ch’erano piccole e sgangherate le mie fatiche, per me invece erano montagne, e la sera mi crollavano addosso tutte, e d’inverno con tutta la neve, che non sembra ma pesa e poi si sa gela e amen. Un giorno poi, basta dire, quando ci pensavo un pò meno alla fame, che eravamo tutti vicino al fuoco, una sera, cioè mio padre, mia madre, le mie sorelle e io, prima della notte, di quelle notti che sono povere, fredde dure e acide e io avevo quel giorno, anzi  quella sera dentro la bocca l’acquetta della speranza, perché bolliva sul fuoco, forse per l’aiuto dell’inverno, una cottora di erbe, di cicoria e pure un poco di ceci, orzo e segale, che mi smaniava il cuore, tanto che per la smania e anche per il freddo mi ci avvicinai troppo al fuoco che così l’acqua e i tizzoni mi morsero, mi azzannarono come lupi inferociti la faccia, che anche il fuoco per fame mangiava gli uomini e mangiò me quel giorno, e l'aqua non spense i tizzoni e io non o saputo più niente di quello che mi successe perché come un amen me ne ero andato a vedere se le porte dell’altro mondo sono dorate o di legno come quelle di sor  Checco il falegname del paese e pure chi tiene le chiavi. La morte però mi sputò perché anch’essa non sapeva che farsene di me, però qualcosa mi prese, m’arrugò la pelle e mi fece, nel viso, già vecchio a quattro o cinque estati della mia vita, però più inverni che estati e con il pensiero cattivo, basta dire, che un giorno, per sete mi potevo specchiare dentro una polla d’acqua o un pozzo o negli occhi di qualcuno non mi cecò la luce degli occhi per un miracolo feroce, invece m’attorcigliò e legò la lingua con torte potenti, come quelle che mio padre attortava per legarci le fascine degli zeppi al bosco, ed io non parlai più e non volli nemmeno sentire, che tanto sentivo solo la fame e il dolore e più tanto la vergogna, che non guardavo più i cristiani, e avevo più paura ancora di quando avevo meno anni, che invece mi crescevano, gli anni, la paura e la vergogna e il dolore. e mia madre era invecchiata e diventata nera come i carboni del fuoco. Con gli anni, che non spianavano la pelle e le rugosità della vita, iniziò a spuntare qualche malerba tra i sassi della mia faccia, ed erano ginestre magre e senza fiori e stecchi secchi, che capivo lo scherno anche da chi non mi scherniva e mi era duro amare il mondo, eppure volevo amarlo nonostante tutto ma amavo di più gli animali che mi vedevano e però non mi schernivano, e volevo amarlo il mondo perché se mi abbruttivo pure dentro cera solo la terra che mi poteva nascondere e riprendermi, e invece io volevo volare come le aquile e i falchi che amavo per le ali e il volo. Ora mi riposo a questo sole d’autunno, che è passata la mia primavera e il sole mi bacia il viso e non si schifa della mia faccia, il sole perché forse è troppo lontano o troppo buono o non sa o non gliene importa niente di me e della mia faccia e degli uomini, e quello che fa, lo fa perché lo deve fare, perché è nella sua natura. Il sole un giorno, che avevo più anni ed era estate, non me lo scorderò mai, bruciò nel mio cuore, che quel giorno mi sembra che era nato proprio per me e questo fu un miracolo, il mio miracolo dentro, che tutta la mia vita è un miracolo e anche dolore, e però non ce’ miracolo se non ce’  dolore, come dicono in chiesa che non ce’ redenzione se non ce’ peccato, ma io non so se avevo peccato nella mia triste vita, comunque la redenzione arrivò e il miracolo anche, o forse il miracolo della redenzione, o come vorrei capire tutte queste cose. Però io non capii perché e come fu che riparlai, certo fu un miracolo, e se ci fu il miracolo dovevo averlo meritato, perché di storpi, di muti, di sordi ce ne sono come i sassi di questa terra, dovevo averlo meritato o devo meritarlo, e per meritarlo devo usare certo le parole, ero una pietruzza di questo mondo che doveva smettere di rotolare e doveva cominciare a parlare e a dire che quando non si può parlare si deve pur amare di non potere parlare, e quando si può parlare, dire della gioia del parlare e anche di quando non si può parlare. Quando mi rovinò il fiume nella bocca e si sgelò la lingua, le prime parole schiamazzarono di sorpresa e di felicità e di giubilo e non so dov’erano nascoste, che io non sapevo di averne tante e tutte belle e sonanti e profumate di meraviglia e meravigliate, assolate e calde, che il sole da qualche pertugio cera sicuramente migrato e le aveva colorate dei colori dellarcobaleno. Prima che non parlavo non mi davo retta nemmeno da per me stesso e mi trovavo spesso sbieco e storto dentro di me. Ora ogni parola è ed è una cosa e per ogni cosa ce’ una parola, non che prima non sapevo farmi intendere e che mi coltivavo dentro una preghiera, ma ora la bocca mi restituisce ogni preghiera e ogni regalo che le ho fatto e le faccio e, la terra mi sembra più nera e fertile e chiamarla terra è già seminarla, di speranze e di parole, e le piante, piante e ogni pianta ha il suo nome e un carattere e il suo fiore e gli animali mi scoprivano nella voce il carattere e l’amore e i pensieri. Le cose prendono carattere con le parole, come quando lavoro la terra e essa cambia il colore delle mie mani, e mi pare che con le parole mi si articolano più docili le braccia e le gambe e la fatica m’asseta di meno e la notte è solo notte e non un rancore e questo fiume che mi sgorga da dentro dalle sorgenti, da dove non so mi travolge, travolge e brilla al sole e canta e le parole che schiamazzano si rincorrono gorgogliano e premono come un fiume che mi sazia. Quando non parlavo, non sentivo, che sentire, basta dire, più spesso m’era dolore, che mi pareva, con rispetto, come, mangiare mangiare, se potevo mai farlo, mangiare mangiare e non potere, sempre con rispetto, cacare. Mi sono accorto che le parole sono anche spigolose, ripide e definitive e le devi rispettare che, quelli del potere, le mettono anche sopra i libbri e sono leggi, e nei libri le accatastano una sopra l’altra, con pazienza e interesse come cataste di legna ordinate e pronte, le cataste però possono ruzzicare e travolgere, mutilando i poveracci che ci capitano sotto. Forse per questo che le uso con il livello e il piombo e dico le cose che sono e schiamazzo con  le braccia e la gambe, che sono state sempre libere, come a volermi prendere in giro, per come tutti possono prendermi in giro. AAAhhh Arrillaaaaa  Arrilllaaa Bianchina, quelli che prima non mi parlavano e se mi guardavano non mi vedevano, o non mi volevano vedere, tanto da immaginarsi come uno spirito che non si vede, e invece adesso mi vedono e mi vedono tanto bene che qualcuno cambia pure, basta dire, strada. Pure questo è un miracolo ad avere la parola e non essere muti come una farfalla e sentirsi quasi le sue ali.”

Come assolvere l’estensore che è indubbiamente indifendibile e colpevole, per queste parole, già bandite per apocrife; per molti irriconoscibili nella bocca di Santarello, eppure si presume, si spera abbiano il calco e conservino il rumore di fondo, come la radiazione di fondo del Big-bang, e siano pregne della dolorata peculiarità coscienziale e della sua parabola liberatoria.

Uomo libero Santareglie, liberato dentro la catorbia delle sue prigionie.

Un poeta a suo modo, che non si faceva scherno di schernirsi e schernire chi passibile di scherno.

Che aveva dimestichezza con gli stertori, i loro rantoli, i pigri abbotti, le risorgive e le acque cristalline; Il quale andava al prato a piedi la valle, con una pietra di sapone fatto in casa, e in quegli stertori si lavava, tornando a casa con la sua chioma riccioluta, come un beduino, che sempre mi ha scarcerato e invogliato incorrotti slanci e acquisizioni liberatorie, vergini, intemerate, liliali.

Una povertà libera, o libera povertà, che echeggia a rimando i versi mutuati dalla poesia  i fiumi di Ungaretti 

 

“Stamani mi sono disteso

 

in un’urna d’acqua

 

e come una reliquia

 

ho riposato

 

 

 

il fiume scorrendo

 

mi levigava

 

come un suo sasso

 

 

 

Ho tirato su

 

le mie quattr’ossa

 

e me ne sono andato

 

come un acrobata

 

sull’acqua

 

 

 

Mi sono accoccolato

 

vicino ai miei panni

 

sudici…

 

e come un beduino

 

mi sono chinato a ricevere

 

Il sole

 

 

 

Questo è il “Raiale”

 

e qui meglio

 

mi sono riconosciuto

 

una docile fibra

 

dell’universo

 

 

 

Il mio supplizio

 

è quando

 

non mi credo

 

in armonia

 

 

 

Ma quelle occulte

 

Mani

 

che m’intridono

 

mi regalano

 

la rara

 

felicità…”

 

Il sapone usato era quello che ancora si produceva al paese, prima di quello industriale, quello fatto bollendo il grasso rancido, con la soda e la pece alla cottora, usando inconsapevolmente l’empirismo tramandato, misconoscendo le leggi della chimica, ovvero l’idrolisi basica degli esteri, carico di valenza di contrappasso. Ovvero che il grasso, che è lo sporco, più sporco il più ostinato da detergersi, quello ante litteram, si pulisce col sapone fatto con lo stesso grasso. Simile scioglie simile. Dolore scioglie dolore.

Anche l’aspetto di Santarello assonava con il beduino ungarettiano, così come la sua complessione magra e scheletrica, nonché l’acquiescenza e abbandono nelle mani pietose della natura.

Una storia segnata sulla sua pelle, da un cartografo iperbolico, con valli, vene di acque, cocuzzoli di montagna, occhi deformi con le cornee, fino alle sclere, esposte alle intemperie.

Il fiume che pure nei secoli ha mostrato segni di pietà e patiti coinvolgimenti, anche per gli uomini, nonostante la professata frequentazione nulla poté per dirimere gli esiti di tali abomini sulla sua pelle, nessun addolcimento o levigazione dei conturbamenti sinclinali dovuti al fuoco.   

La madre, come tutte le madri che temono e dolorano per i figli fragili, lo chiamava perennemente vicino a sé, con un glogottìo un gorgoglìo disperato, oltre il letteralismo onomatopeico, crudo, cavernoso, veramente come un reale richiamo di gallinaccio, con lo stesso borbottio, ribollio, chioccolio vagamente sinusoidale.

“Santareglie! Santare’! Au Santare’!

Ne assecondava la percussione diaframmatica ondulatoria e tonale, la sua postura estrema, ripiegata su sé stessa, proprio come un bipede, con la testa arcuata, come a beccare per terra.

Il padre era soprannominato, non si sa perché, maresciallo, benché non ne avesse, per luogo comune, la presunta possanza o alterigia, né presunzione, arroganza, boria o tracotanza. 

Per tornare alla sintassi discorsiva di Santarello con matrice pseudo-matematica, in forma di aneddoto, quale pegno della sua ingenuità giocosa e trasparente cristallinità, si ricorda un episodio, perpetrato dalle vernacolari cronache umoristiche.

Uno stringato dialogo intercorso tra il genitore di una ragazza del circondario, che aveva svegliato il suo cuore e Santareglie.

Evidentemente l’epilogo, a un lungo dibattere, dopo aver discettato a lungo sulle manovre procedurali di un probabile e sperato accasamento, che avevano messo in evidenza alcune titubanze espresse dal padre della ragazza, per cui le manovre si erano arenate in una pozzanghera di indeterminismi e dopo tante infruttuose chiacchiere, Santareglie si trovò a dover richiamare il signore affinché esprimesse un giudizio definitivo e lo pressò in questa forma:

Santarello: Allora quattro e quattr’otto me la dà figlieta?

Padre: otto e otto sedici non te la do

Santarello: sedici e sedici trentadù, pigliatevela ‘nterculo tutti e du”

Traduzione:

Santarello: Allora quattro e quattr’otto me la dai tua figlia?

Padre: otto e otto sedici non te la do

Santarello: sedici più sedici trentadue, pigliatevela ‘nel culo tutti e due”

 

Ad additare a scemo del villaggio Santarello, affinché così si disarticolasse il tramare correo del destino di tutti, un’altra storiella, per la quale è a tutti concesso il filo d’arianna per uscire dal labirinto scontato dell’assonanza del luogo comune, doglianza=scemaggine, è quella che trova Santareglie prigioniero dentro le mura di una piccola casetta che stava costruendo, per non averne previsto l’apertura della porta.

Il destino che invece non è ingenuo, che ha additività matematiche non remissive, negli anni della sua mezza età lo cancellò dal paesaggio umano e domestico di tutti, per un intorbidamento dei precipitati della sua bolla di vetro, come quelle delle miniature, dove floccula la neve.

Una insufficienza renale, manifestatasi qualche anno prima, figliastra probabilmente anche dell’aggravio purificativo e della compromessa clearances, minata dal fuoco in tenera età, lo resero schiavo di una schiavitù incomprensibile per lui.

Malattia che non si era avvalsa delle promissioni purgative e offerenti delle acque del fiume, da cui non si era tenuto mai a distanza.

Oltraggiosamente artificiosa e schiavizzante oltre la sua bolla di familiarità, la dialisi.

Distante l’Aquila, per le sue volontà e le ruote del suo trotter, motociclo di spartana potenza, a cui si poteva addebitare solo la soma   delle sue, non torbide libertà.

Stanco, irrispettoso al riguardo dei protocolli e delle scansioni settimanali delle dialisi, dopo poco tempo di questi obbligati insospettabili traccheggi sanitari, abdicò e non valse la sollecitazione di alcuno o dell’altro angelo, perito posteriormente, per un male di gravità: Luigi Sacco che non poche volte se lo caricò in macchina e, senza la sua volontà lo portò a collegarsi agli artifici di un mondo che non avrebbe mai sospettato e non avrebbe voluto, così come non volle, contemplare.

Però le carie dell’animo e quelle del corpo a volte non si servono né dell’anima né del corpo e rivendicano una autonomia malevola, per cui intanto, entro la sua sfera di cristallo, la neve ormai diventava ghiaccio e il suo microcosmo, urna.  
 



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