LA RELIGIONE DEI NOSTRI AVI E UNA VISIONE DELLA STORIA

Nei prossimi giorni sarà pubblicato il libro, di cui anticipiamo la copertina, scritto da Enrico Cavalli e Giuseppe Lalli intitolato "PAGINE DI RELIGIOSITÀ AQUILANA - Fra storia e racconto". Si tratta di una raccolta di scritti che gli autori sono andati pubblicando sul nostro giornale negli ultimi anni. Nell'intervento che segue Giuseppe Lalli, a mo' di introduzione, illustra il senso dei suoi contributi, che hanno per oggetto alcuni esempi di religiosità popolare nella tradizione assergese. Gli autori contano di presentare l'opuscolo in anteprima ad Assergi (a.g.)

LA  RELIGIONE DEI NOSTRI AVI E UNA VISIONE DELLA STORIA              

                                     - di Giuseppe Lalli -           
 

Gli scritti che seguono sono per lo più dei racconti brevi che hanno per oggetto la religiosità popolare e per sfondo la valle del Raiale. Sono ambientati soprattutto, anzi quasi esclusivamente, nel borgo di Assergi, antico ed illustre castello aquilano oggi frazione del comune dell’Aquila.

Lo scritto più lungo ed impegnativo riguarda la figura di San Franco, eremita del Gran Sasso e principale protettore del borgo di cui in questi anni ricorre l’ottavo centenario dalla morte. Nel vissuto religioso degli assergesi il santo patrono ha svolto nei secoli passati un ruolo di primo piano. La stessa chiesa parrocchiale, con la sua antichissima cripta che ospita i resti mortali del santo anacoreta, subito dopo la morte dell’eremita, e fino ai primi decenni del secolo scorso, è stata meta incessante di pellegrini provenienti da ogni parte dell’Abruzzo.

Nelle mie pagine - Il lettore se ne accorgerà – ho dato molto spazio al sentimento, che nella pratica religiosa popolare ha tanta parte. Parlando di sentimento non si può non evocare la figura della Madonna, che nei nostri villaggi assolveva al ruolo di mamma buona e previdente che vegliava sui suoi figli. Da qui le tante edicole a Lei dedicate con affettuosa premura nei luoghi della campagna, che costituiva l’universo entro i cui confini i nostri contadini si muovevano nelle loro faticose giornate, ma anche in molti punti dell’abitato. Una di esse, restaurata, sita nella parte più suggestiva del villaggio, mi ha ispirato la rievocazione di una toccante storia di peste. I racconti hanno uno svolgimento piano, semplice, per nulla inficiato da riferimenti sociologici o antropologici, che a parere di chi scrive possono tutt’al più illustrare la cornice del fenomeno religioso popolare, mai la sostanza.

La sostanza ha a che fare, a parere dello scrivente, con la fede nella trascendenza, che è “fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono”, fiducia nel Signore della storia che di tanto in tanto intinge il suo dito nella vicenda degli uomini. La cornice, semmai, è quella che alle storie fornisce il luogo, in questo caso Assergi e la sua stupenda valle, alla cui ombra chi scrive è nato e cresciuto. La storia, a parere di chi scrive, non ha un andamento lineare, né è governata dal caso. Essa si può raffigurare piuttosto come una torta a tre strati, tra di loro comunicanti. Nel piano superiore, visibile, abbiano la storia politica, quella delle guerre e delle calamità naturali. In questa dimensione è la forza bruta, quella degli uomini e della natura, la vera protagonista.

In un piano più ampio e profondo, seminterrato, vi sono i fatti economici e le istituzioni giuridiche, che producono effetti importanti sulle vite individuali e comunitarie. Vi è infine una dimensione ancor più profonda, che la ragione intuisce ma non coglie nelle sue effettive dinamiche. È la dimensione in cui agiscono le correnti di lunga gittata, è lo strato in cui la vicenda umana e la vicenda sacra si intersecano, è il luogo in cui Dio intinge il suo dito, dove crollano muri che sembravano impermeabili, e regni che parevano eterni rovinano come tanti castelli di carta al soffio di un esile vento. Ciò che avviene in questa dimensione profonda ed impercettibile della storia umana spesso tracima nelle altre due, ed ecco che alcuni eventi non sappiamo spiegarli con la sola categoria “causa ed effetto”. Qui è il mistero il vero protagonista. La religiosità popolare agisce in questo fiume sotterraneo.

Conforme a questa concezione di fondo, sottesa a tutti i racconti, vi una certa idea di ‘popolo’, come emerge dalle piccole cronache del passato dei nostri borghi e come è vero per tanti aspetti anche al giorno d’oggi. In questa visione, il popolo non è né il proletariato destinato, secondo la favola marxista, a realizzare il paradiso in terra, né l’esercito in marcia della retorica nazionalistica e mussoliniana. Né la massa né la folla, dunque, né la plebe incolta che si lascia trasportare di qua e di là dalle classi dirigenti politiche e religiose, ma un’entità con tratti di autonomia e dotata di un infallibile istinto spirituale che spesso fa sentire la sua voce presso la stessa gerarchia ecclesiale.

È convinzione profonda dell’autore di questa breve nota che se con i miti pagani Dio, in qualche modo, si esprimeva attraverso i poeti, con l’avvento di Gesù Cristo il mito diventa fatto, e le immagini usate da Dio attraverso la Rivelazione è storia vera. La religiosità popolare cristiana, quando è sincera, nulla a che fare col folclore, ma è dogma vissuto, anche quando la pratica religiosa si salda mirabilmente con il fantastico. L’anima religiosa popolare delle passate generazioni, pur fondendosi con l’immaginario, non rinunciava alle sue verità. Semplicemente, come credo di mostrare nel racconto “Santi e diavoli ai piedi di pizzo Cefalone”, e come scrivo a conclusione e dello scritto stesso “amava accoccolarsi sulle ginocchia di Dio per sentirsi raccontare la storia della salvezza con le parole della fiaba”.

Illustrare quest’anima può assumere il valore di un apostolato. L’eredità della pietà popolare è destinata ad essere una sfida per il cattolicesimo anche in questo terzo millennio.



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