ELOGIO DEL JUKEBOX - di Fernando Acitelli -

ELOGIO DEL JUKEBOX

- di Fernando Acitelli -

                                                                                                    La musica iniziava a cogliersi nitidamente una volta giunti poco oltre i Frati, in quel punto tra il pagliaio dei Lalli e la trattoria La Rustica, immersa nel verde. Lì giunti, si potevano riconoscere le note in sequenza ed era come se a mezz’aria apparisse all’improvviso il medaglione con dentro impresso il viso del cantante. Giungere al bar significava comunque stare all’erta.

Nello scenario degli anni ’70, i ragazzi che finivano al bar “Picnic” ambivano a ricreare situazioni da saloon ma anche da fotoromanzo. Già nel passo s’ammirava tutto questo. Ognuno, sfiorando il cordolo di cemento protettivo, sedendosi su di esso o arrivando al bancone del bar, sfogliava nella mente le immagini più suggestive degli “spaghetti western”, ma qualche pensiero lo riservava anche al divo Franco Gasparri.

Dietro la maschera di spensieratezza e giovialità, i ragazzi entravano nel bar per cercare un “nemico”. Questo’ultimo era sbocciato da giorni o anche la sera prima, magari per delle valutazioni su una moto, su una macchina o su una località turistica. Era così diventato un nemico soltanto perché aveva argomentato benissimo. Tanto ardire lo si sarebbe pagato a caro prezzo perché tutti avevano sentito quelle spiegazioni. Forse a costui si sarebbe tolto il saluto.

Inoltre c’era chi varcando la soglia del bar valutava se una storia con implicazioni amorose poteva avere degli sviluppi. Il rivale in amore era veramente considerato un nemico. Con questo spirito si finiva al bancone anche se non si desiderava una bibita. In verità si scimmiottava l’età adulta. Quegli sguardi erano spavaldi e ogni tanto quei ragazzi si guardavano le spalle imitando in questo le mosse di Lee Van Cleef o Clint Eastwood, magari in un film visto da poco a L’Aquila, al cinema REX o all’IMPERIALE.

Al bar il whisky lo chiedevano soltanto uomini di transito, anonimi camionisti oppure figure con antichi risentimenti; un cognac era da duro, una birra suonava come soddisfazione da operaio, una Coca Cola stava tra American Graffiti e Woodstock mentre un the freddo era da fighetto. Una scelta di sapore famigliare era l’amaro Gran Sasso, ma anche il Centerbe riscuoteva un buon successo. Si poteva inoltre chiedere un “bicchiere d’acqua ramata” (“Damme nu bicchiere d’acqua ramata”) come osò il Persichetti ingegnere davanti a quel dispositivo di plastica posto sul bancone e che dispensava separatamente aranciata, the freddo e una bibita d’un colore ambiguo tra il verde e l’azzurrino, l’acqua ramata, appunto.

Una conquista femminile da parte d’uno degli ultimi ragazzi giunti ad Assergi per le vacanze sollevava a costui interiormente una volontà di potenza e i riferimenti erano dal Kung Fu a scene western con il pistolero solitario cui non faceva paura neppure la taglia sulla sua testa. L’affissione WANTED era tenuta in gran considerazione, era come una attestazione di ammirevole diversità. E così il sogno s’installava a El Paso o a Santa Fe. Per costui sarebbero stati perfetti anche un gilet di pelle, una camicia a piccoli riquadri e poi jeans stretti, impolverati, e quindi degli stivali a punta, modello “El Charro”. Non era immagine secondaria una camicia bianca con il collo alto e Lewis’ scoloriti.

Nella mente di quei pistoleri immaginari comparivano anche le carte da poker soltanto che nel bar si poteva giocare solamente al biliardo e allora tutto era più complicato perché sul manto verde non si poteva barare. E le stecche del biliardo rappresentavano, come immagine, un duello. Attorno a quella sfida a 125 il pensiero era: che margini di miglioramento ci saranno dopo l’abbraccio memorabile di questa mattina vicino al fiume? Questo l’interrogativo che s’imponeva. La musica in sottofondo migliorava lo stato d’animo di tutti i presenti e c’era dunque l’apoteosi del jukebox: con cinquanta lire si poteva facilitare un attracco amoroso oppure l’ergersi di malintesi che si rappresentavano con lunghi silenzi, facilmente interpretabili. Nel tardo pomeriggio, alcune frasi bene impostate accanto alla cabina del telefono, fuori del bar, si tramutavano dopo un po’ in scene con sospiri. La strada verso il fiume in quella estate era il sentiero più bello del mondo.

Certi ragazzi avevano avuto il permesso dal padre di prendere la macchina e così chi l’aveva parcheggiata di fronte al bar e chi, con gli sportelli aperti in quella rientranza prima del cordolo di cemento, mostrava agli amici il miracolo dell’autoradio Pioneer ultimo modello e ne esponeva le qualità parlando poi anche degli altoparlanti spettacolari. Quegli amici ignoravano che aveva messo in croce il padre per quel Pioneer e così, alla fine, il genitore aveva ceduto. Adesso con la macchina dotata di quel gioiello costui era in rampa di lancio per rimorchiare. Dunque, riassumendo: capello tutto frisato e a visiera sulla fronte, jeans Wrangler da prossimo studente d’ingegneria, camicia modello Oxford, giubbetto blu Farrow’s con le maniche arrotolate, scarpe di Cervone, porta patente di Fendi, fazzoletto siglato Lacoste, profumo Equipage d’Hermes e praticamente il nostro amico non poteva perdere. Naturalmente il nostro amico avrebbe scorrazzato per tutto il paese così acchittato e con il Pioneer a tutto volume. Certamente si sarebbe limitato un poco nel cuore del centro abitato e, lanciando la macchina e lo stereo nei pressi della casa di Cristina Longa, avrebbe mantenuto una velocità di crociera fino alla Porta del Colle.

Nei giorni della festa, con la circolazione limitata all’interno del paese, costui avrebbe fatto riposare il bolide oppure l’avrebbe lanciato di ritorno dalla Villetta dopo un cornetto Algida sotto gli alberi, scalando le marce alla maniera di Emerson Fittipaldi e giungendo poi alla casa di Cocco un po’ contrariato perché doveva rallentare e abbassare il volume del Pioneer.

La generazione attorno ai vent’anni viveva nella spensieratezza ma qualcuno pensava anche ai propri nonni, a casa. E se ondeggiava nella sua mente già una lapide con foto, pure preferiva la parola camposanto a quella di cimitero. Comunque quella generazione sfoggiava gli ultimi acquisti come se da essi dipendesse la credibilità. Erano studenti naturalmente, raccontavano di imprese scolastiche nelle quali erano usciti vincitori e i loro progetti sfioravano piattaforme astrali. Per quanto riguardava le macchine, il loro voto andava alle BMW ma per il momento dovevano accontentarsi se il padre gli concedeva ogni tanto (con lui accanto) l’uso d’una FIAT 127. Da ascoltare erano i resoconti sulla loro condotta di guida, come ad esempio la scalata in terza e seconda alla Madonna d’Appari; una seconda marcia (per lo più) sulla strada di Tempera con direzione L’Aquila; quanto al rettilineo di Bazzano, la quarta li aveva estasiati.

Delle ragazze sospendevano il saluto se avevano già scelto nel mazzo l’asso di cuori. Ma un saluto doveva essere per sempre anche perché le vicende amorose dovevano (in un certo senso) responsabilizzare. E invece no, ma non c’era una regola e spesso i comportamenti erano difficili da interpretare. Alcuni ragazzi, in un angolo del bar, avvertendo le fatiche dell’imbastire una storia, si rifugiavano nel sentimento del ricordo e così raccontavano di avventure a Pizzo Celafone o sul Gran Sasso o in una gita al fiume con tanto di cocomero adagiato nell’acqua gelida. In quelle narrazioni si respirava una età dell’oro, una sublime irresponsabilità, il confronto soltanto con se stessi.

La generazione dei trentenni già accusava lo smacco del tempo ed erano considerati uomini già fatti, in un certo senso “consumati”, già visti in diverse situazioni; erano guardinghi e malgrado fossero abbigliati all’ultima moda si limitavano nell’avanzare verso tenere fortune: guardavano le ragazze con una saggia distanza e questo perché essi si accreditavano come giovani uomini responsabili. Prediligevano la conversazione, l’escursione in alta quota, l’esposizione al sole di Monte Cristo, la venerazione degli alberi genealogici, la narrazione degli avi, la collezione di attrezzi agricoli, l’aggiornamento su chi era riuscito a raggiungere la vetta del Corno Piccolo. E poi, di sera, si recavano a L’Aquila e parcheggiavano di solito a Piazza Palazzo ma anche alla Villa.  E a spasso si vedevano ancora notabili che concionavano sul malgoverno, e poi vecchi notai con il sigaro borbonico pendente dalle labbra; e inoltre ritardatari per uno smarrimento esistenziale. E forse erano migliori queste immagini che rovinarsi la reputazione con avventure anche possibili ad Assergi. Al bar Picnic, infatti, le storie s’imbastivano solamente e tutto sarebbe sbocciato altrove.

Alcune ragazze avevano già in mente il fidanzamento lampo, una blitzkrieg amorosa con pianificazione color grigio perla. Già immaginavano i figli, due camere cucina e bagno con vista su Torre Spaccata o lungo la consolare Tiburtina; e poi la casa a Ladispoli, vero gioiello nella spensieratezza degli anni ’70. Inoltre un memorabile pranzo ai Castelli romani come avevano fatto alcune compagne di scuola che erano state svelte nel convogliare a nozze. A quel tempo non c’era ancora la suggestione delle cosiddette “vacanze intelligenti”. I discorsi semplici, e che contenevano concretezza, inebriavano e la maturità non si sbandierava.

I quarantenni bevevano la birra seduti dentro il bar, di fronte al bancone;  accanto al tavolino stava un flipper che con i suoi fragori colorati faceva capire ogni giorno di più come la macchina fosse più forte dell’uomo che l’aveva creata: anche l’astuzia del tilt la faceva vincere.

Una birra Peroni era da adulti mentre la Nastro Azzurro si volgeva verso la giovinezza; ma i ragazzi non la terminavano mai, valeva soltanto l’azione dell’ordinarla e poi ammirare quell’etichetta diversa: era come una cinta griffata. Nella birra Peroni resisteva un’idea di fatica e poi sorgevano immagini di operai che l’avevano custodita al fresco d’un capannino di mattoni forati, e questo magari dalle parti dell’ara di Zio Cavallino (Zi Cavalline) oppure nei pressi d’un vecchio pagliaio da modellare ad abitazione, miglioramento esistenziale ma anche atto estetico. Si sarebbe potuto parlare anche di alterazione di quel rione abitato dai nostri amici animali. Lentamente quegli odori di stalla, di porcile, di sopraelevato fienile sarebbero scomparsi ed eccola dunque in bello stile la nuova casa con facciata ad intonaco bianco.

La birra Peroni dunque come favorevole acceleratore d’uno sfogo, elogio del confessionale laico, carezza verso gli operai. Quell’eloquio diventava così una sorta di preparazione ad un momento etico: stare dalla parte di chi faticava.

D’autunno, quel luogo riparato e di salvezza che era il bar accoglieva uomini moderatamente tranquilli. Il lieto chiasso estivo era archiviato ed il jukebox taceva perché non c’erano ragazzi che cercavano ispirazione. Una birra su quel tavolino di fronte al bancone componeva una natura morta, un dipinto che chiariva molto sull’importanza d’incontrare lì anche solo una persona con cui puntellare il tardo pomeriggio e la sera. Memorabili quegli uomini, a volte di Assergi, ma anche anonimi che rimanevano seduti attorno a quel tavolino sul quale, piano piano, s’allineavano tante bottiglie di birra Peroni. Ma cosa sarebbe rimasto di quei dialoghi nel primo freddo d’autunno?

Una sequenza di immagini potenti mi resta dentro: era la fine di agosto del 1974 e il jukebox, nella parte esterna del bar, accompagnò una disperazione. Era quel tramonto che fortifica coloro che sono in armonia con la vita. Una ragazza non faceva altro che infilare nella fessura del jukebox una moneta per ascoltare delle canzoni. Le erano seduti accanto - chi come “predatore” e chi come sensibile alla bellezza - diversi ragazzi, ed io tra questi. Per la verità ero tornato dal fiume e cercavo dei miei amici per stabilire cosa fare dopo la cena. Al bar non li vidi ma colsi quella ragazza seduta accanto al jukebox; l’avevo già osservata durante i giorni della festa ma non avevo avuto modo di conoscerla. Si chiamava Geneviève, capelli castano chiari, occhi verdi e uno sguardo a perdersi lontano, chiuso in una disperazione bella. Sì, perché esiste anche una disperazione bella e questa si delinea proprio in virtù di quell’armonia di misure che sono tutte in mostra sebbene manchi il sorriso. Ma ben si sa come il sorriso si componga a seconda dei riflessi dell’animo e di cosa ci accade davanti; e il sorriso è un’alterazione dello sguardo dal suo stato di quiete. Era trapelata una notizia, a ben guardare si trattava d’una “chiacchiera alzata” ma ovunque, dal ‘700 francese ai nostri giorni, la chiacchiera era una delle tante forme della conversazione, sia galante che bassa. Era uno spunto efficace: nella chiacchiera c’era tutta la storia dell’umanità. Dunque quell’assenza di sorriso nella ragazza Geneviève dipendeva dalla realtà d’una chiacchiera; forse l’aveva lasciata il suo ragazzo, forse pensava all’imminente ritorno in Francia. A me non m’interessava sapere il motivo di quella sua prolungata tristezza ed il meraviglioso in quel tardo pomeriggio di fine agosto era soltanto osservare quella ragazza che, come terminava una canzone, metteva una moneta e il disco ripartiva. Pure capitava che, terminata la canzone, uno dei ragazzi/ammiratori che formava quel cerchio magico s’alzasse e imbucasse lui la moneta inserendo le stesse canzoni scelte da Geneviève. Queste erano E tu di Claudio Baglioni e Can’t Get Enough Of Your Love Babe di Barry White. Non accennava ad un sorriso e rimaneva chiusa in se stessa, ma tutto era meraviglioso in lei, dagli occhi alle labbra, dalla camicia a fiorellini celesti e verdi ai jeans, alla sua lieta malinconia. Non avevo mai prestato così tanta attenzione al jukebox come in quell’occasione. Fu la presenza di quella ragazza a farmi accorgere di tanto. Poi la vidi andare via ma soltanto lei sapeva quale fosse il suo dolore.

Forse già allora sapevo che sarei diventato un custode dei giorni dissolti.

QUESTE LE CANZONI PIU' GETTONATE NEL JUKEBOX:

 



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