ASSERGI - IL VALZER DEI RICORDI - FRANCO PERSICHETTI, UN VOLTO UNA STORIA

IL VALZER DEI RICORDI

FRANCO PERSICHETTI, UN VOLTO UNA STORIA, ORIZZONTI DELLA SCIENZA E DELLA TECNICA, UN FATTO COME E PERCHÉ.

- di Fernando Acitelli -

 

Si potrebbe partire da lontano, da immagini che potevano essere le stesse del romanzo “La pelle” di Curzio Malaparte in una Napoli della Liberazione con scugnizzi laceri, immortalati tra le macerie dell’esistenza, tra muri calcinati e camionette della Military Police americana. Gli scenari erano gli stessi ovunque, da nord a sud. Ma tali immagini resistevano ancora negli anni ’60, certamente attenuate ma in certi paesi era così, e si potevano vedere anche in certe inquadrature di Assergi, in quella estetica viva, pura, contadina, che va dal romanzo di Carlo Levi Cristo si è fermato a Eboli alle poesie di Rocco Scotellaro. I muri ricamati di muschio dalla Porta del Colle alle stalle di Bebè, e ovunque sotto le are e attorno alle fontane, da Sant'Antonio alla Cona. Quel muschio sembrava accreditare maggior valore a quei sassi rimediati chissà dove e in un tempo non da citazione bibliografica. Quei sassi erano di misura diversa ma bene incastrati così da formare un corpo unico, resistente, e qua e là recinzioni con pali fessurati ma ancora in vita. L’estasi nel poter dire: «Questa è la mia proprietà!». E ancora una volta questa frase contrastava con il divenire. D’estate quel muschio s’anneriva e, insecchendosi, al tatto si sbriciolava. Già questo dava la dimensione del tempo in fuga e così tra quel muschio e il volto d’un vecchio il divenire era lo stesso; la differenza era nella coscienza universale, nel poter rappresentare sentimenti e nell’aver rispettato, con il donare la vita, il progetto della natura.

In questi scenari la fanciullezza si mostrava nel suo aspetto più puro: la spontaneità del sorriso e l’idea d’un tempo senza fine: avventure al fiume oppure il finire in un pagliaio abbandonato con l’enigma dei fantasmi. Del resto nella finzione quel pagliaio diveniva un castello. Eppure quel giocare era sempre a rischio perché erano presenti nell’animo dei ragazzini i sentimenti del dovere, l’incombenza di dover aiutare la famiglia ed era  proprio pensando a questo che piano piano s’allentava la loro presenza nei giochi e nel tempo spensierato. Vale a dire: le combriccole, i vagabondaggi, da lì in avanti erano destinati soltanto nei ritagli di tempo, ad uno scorcio di pomeriggio dopo che di mattina ci si era prodotti in sforzi autentici nei campi o in altre faccende.

Ora da simili scenari facciamo emergere una figura di fanciullo, Franco Persichetti: la sua fanciullezza fu identica a quella dei suoi coetanei ma  ad un certo punto si verificò una svolta, quasi un ammutinamento, un andare contro il senso comune. Costui, dopo il diploma delle scuole industriali,  non s’inoltrava verso il lavoro ma, addirittura, continuava a studiare. Era una svolta autentica, una prova di forza innanzitutto con se stesso e poi con la comunità. E anche se viveva a Roma, l’animo era ad Assergi.

«Franco Persichetti continua a studiare. Va all’università. E come è potuto succedere tutto questo? Ma siamo sicuri di questa notizia?». Quella voce volò da rione a rione, superò l’arco Conceduto, l’Arco Rutelone, poi il Vico e Arco Forgione, s’inoltrò per la Cimosca, discese per Cento Vizi, risalì per la Caserma, rasentò l’orto degli Acitelli, la casa della Foletta, di Linda e Moscone, e giunse addirittura alle orecchie di Pupucc e Franco d’Adamo. Né s’arresto lì e infatti guadagnò la contrada dei pagliai, e così quello di Francesco Corrieri, poi quello di Giannino, quindi l’orto dei Brardella, l’ara de Fantine, sfiorò le orecchie di Colonneje e di Giuseppina, arrampicati sull’orto, transitò per Giggiott, e si spinse fino alla casa di Cocco, lungo la statale 17 bis. In quel punto parve dissolversi, ma un pulviscolo giunse anche alla casa di Battista Lalli e Laurina.

Quasi un’eresia! Un pronunciamento sudamericano! Un colpo di mano! E dunque si vociferò, a bassavoce: «Persichetti studierà ingegneria…». Ed erano quasi intimoriti a pronunciare quel corso di studi. INGEGNERIA METTEVA PAURA. Era infatti un penetrare i calcoli, accomodarsi in quei monolocali metafisici con pareti spoglie; era discendere negli ipogei del senso ultimo, un andare a cena con le equazioni, dare del tu all’entropia. Si vociferava che dopo l’esame di FISICA II poteva esserci soltanto Nostro Signore. E allora furono in molti che dalla Porta del Colle alla Piazza e ai Frati presero a scherzare e a favoleggiare su loro possibili  iscrizioni alla facoltà d’ingegneria per sostenere quell’esame di FISICA II dopodiché sarebbe stato facile trovarsi di fronte al Creatore.

«Ma do’ va, eh? E lentala poche…» - si sentiva dire dagli assuefatti alla quotidianità e alla noia, soprattutto nelle prime ore del pomeriggio quando un cane randagio faceva coraggio davanti la casa di Faustina.

«Studia ingegneria…» E in questa sintesi c’era indubbiamente incredulità ma anche (senza farla emergere) ammirazione. Pure s’ascoltavano, magari sul muretto di NnaPorta, frasi come:«Ma che sa stupedite?!...Se vede che nen te’ voglia de lavorà…!» E via di questo passo.

E comunque la vita di Franco Persichetti si consolidava altrove, precisamente in via degli Armenti, a Tor Sapienza, una strada senza traffico, custodita dal silenzio. Poco oltre, su via di Tor Cervara, i camion dominavano lo scenario e s’osservavano anche capannoni con attività legate per lo più ai trasporti ma non mancavano depositi per l’edilizia. A dominare il paesaggio, comunque, era il verde ondulato che finiva con il congiungere la via Collatina alla Tiburtina.

In questi luoghi Franco apprese tutto, il linguaggio virile romano, la passione per la Lazio ed il grande universo dei numeri, il mondo meraviglioso delle equazioni, delle incognite, cioè a dire tutto quello che non è dato d’incontrare tutti i giorni per strada ma che esiste. Quell’invisibile che era già compreso nelle riflessioni dei greci, nell’Iperuranio di Platone, nella Logica di Aristotele e nelle Enneadi di Plotino. Infatti la Polis prevedeva, a salvaguardia di se stessa, l’armonia, la giusta misura, il katà métron.

Ma per lo studente Franco Persichetti i sistemi non finivano più come pure i “Supponiamo per ipotesi”. E quindi i testi: il Ghizzetti per Analisi Matematica, il Giorgio Ferrarese per Meccanica Razionale, il Vaccaro per Geometria Analitica, il Bernardini per Fisica Generale I e l’Amaldi per Fisica Generale II. E, inoltre, il Silvestroni per Chimica Generale Inorganica. Con questo ritmo di studi - e con la “astrattezza”, così distante ad esempio dalla Storia dell’Arte - gli svaghi erano pochi e al massimo egli si poteva concedere qualche visita al bar, che si trovava lungo la via Collatina, una partita a pallone e poi l’avvistamento di qualche ragazza tra Piazza De Cupis e via di Tor Sapienza. Quindi, finita quella breve ricreazione, si faceva ritorno a casa ma i libri non s’erano mossi dal tavolo, stavano sempre lì e in attesa di essere nuovamente sfogliati. Come pure gli esercizi svolti sui quali, comunque, sarebbe stato opportuno ritornare.

D’estate lo studente Franco Persichetti tornava ad Assergi e parlava in un dialetto romano nel quale si coglieva qualcosa di strano, come d’artefatto, un poco forzato e comunque un allontanamento dal luogo d’origine. Almeno a me faceva questo effetto. Comunque era giusto che s’esprimesse a quel modo perché ormai la sua vita si svolgeva a Roma. Pure, relazionava chi gli stava intorno sul modo in cui procedeva negli studi. Una volta, in pieno agosto, sui gradini di Micott (d’estate in quella casa ci viveva Maria de Incantate con il figlio Ferdinando), prima dell’entrata alla casa della signora Clelia, Franco relazionò, me presente, sull’esame di Chimica Generale Inorganica sostenuto con il professor Silvestroni in persona, proprio con colui che aveva scritto il manuale. Franco esponeva tutte le varie fasi dell’esame e alla fine, avendo ottenuto un meraviglioso 30, ripeté la frase che secondo lui aveva detto il docente all’atto del congedarsi. Ma Franco osò la traduzione in dialetto di Assergi, e disse: «Vattenne, tu ne sa’ chiù de me!...» E intorno si rise e lo si guardò con ammirazione. Anche a me venne da ridere ma non potei evitare di comporre nella mente l’immagine del docente universitario nell’atto di congedare lo studente Franco Persichetti con quella frase in italiano: «Puoi andare, tu ne sai più di me…» Non ci potevo credere, anche in italiano era una frase incredibile, impensabile. C’era indubbiamente verità in quello che aveva raccontato Franco – altrimenti non avrebbe preso 30 - ma la bellezza stava nell’aver composto quella frase che pareva incorniciare perfettamente quell’esame.

Fu grazie a racconti di questo genere che l’io di Franco s’innalzava sempre più e infatti in simili occasioni egli appose su di sé dei titoli di programmi televisivi, naturalmente facendoli precedere dal suo nome e cognome. Dunque si ebbe: FRANCO PERSICHETTI UN VOLTO UNA STORIA -  ORIZZONTI DELLA SCIENZA E DELLA TECNICA – UN FATTO COME E PERCHÉ. In questi titoli era compreso lui. Anzi, era lui che dava luce a quei programmi. È inutile dire che il quinquennio di ingegneria (sul versante della Meccanica dopo il biennio) si concluse brillantemente con la laurea.

Nel tempo a confine tra le scuole industriali e l’iscrizione all’università anche Franco ebbe sussulti e atteggiamenti “rivoluzionari”, per così dire, ma questi si risolsero soltanto in una chioma lasciata lunga posteriormente e sempre “a frangetta” sulla fronte. Ma tutto durò qualche estate e, una volta all’università, tutto s’assopì e la chioma tornò corta, da dissidente sovietico, una specie di Ivan Denisovic dello scrittore Aleksandr Solzenicyin.

Gli episodi che si potrebbero narrare relativi a Franco sono tanti ma uno in particolare colpì il mio sentire interiore. Era naturalmente estate e stavamo tutti raccolti ad Assergi con i soliti grandi progetti in mente e le spensieratezze a non finire. Franco aveva un episodio di dermatite (mi pare) sul petto. Fu una occasione favorevole l’andata di sua madre Ada all’Acqua di San Franco insieme a tutti gli altri devoti. A sera lei tornò a casa con una bottiglia d’acqua che aveva colto lì, alla fonte benedetta. Subito disse a Franco di provvedere a che si lavasse quella sua parte d’epidermide irritata proprio con l’acqua di San Franco. Cosa che egli eseguì con rigore. Trascorse appena un giorno e il miracolo parve compiuto perché quella parte d’epidermide che presentava lesioni era sparita e a quel punto, avendo saputo questo, Ada giustamente gridò di gioia per l’intervento di San Franco. «San Franc mi’ care care care!...» - è ipotizzabile abbia gridato in cucina. Non si sbilanciò con il miracolo ma su un intervento del santo, sì. Franco non disse niente, constatò la guarigione e alla giusta esultanza della madre non diede peso. La sera mi raccontò tutto e smontò ogni ipotesi trascendente: «La parte è guarita perché quell’acqua è ricca di sali minerali, qui più concentrati, e sono stati essi a far scomparire la dermatite, altro che San Franco. A mamma non glielo posso dire, non lo capirebbe…» Eccola dunque la scienza in azione che ha la meglio sulla fede.

Devo anche confessare che non amavo gli gnocchi ma bastò che me li preparasse Franco nell’agosto del 1977 (addirittura con il peperoncino) e da quel momento in avanti divenni un affezionato di quel piatto. Se al ristorante mi capitava di vedere quella delizia nel menù, allora non esisteva più neanche la pasta, mia amante neanche tanto segreta. Certo, era importante anche il modo come venivano preparati gli gnocchi e Franco aveva potuto usare ingredienti suoi, e in particolare la farina che era dal grano di Assergi. E poi il sugo ed il peperoncino, un festival di gusto per me in quel giorno. Sconfinai in non so quanti piatti di gnocchi e poi non chiesi più nulla. Era prima di Ferragosto, il tempo migliore per alimentare idee favolose ed anche bislacche.

Potrei continuare con questo valzer dei ricordi ma ora che sto terminando questo racconto mi piace soffermarmi sulla nonna di Franco, persona da lui adorata. Era la madre di Ada e mi dispiace non citare il suo nome, ma non lo ricordo. L’ultima volta che la vidi stavo con Franco al muretto di NnaPorta: era il tardo pomeriggio. Cercava Franco ed ella apparve davanti la casa di Maria Giovanna provenendo dalla bottega che era stata di Quirino. Vedendo Franco quasi gridò al miracolo, poi si accostò fino all’arco e Franco le andò incontro: gli chiese se aveva mangiato, visto che i genitori erano stati lontani per degli impegni. Inoltre gli raccomandò altre cose ma la sua più grande preoccupazione era accertarsi se Franco aveva provveduto a pranzare. Fu rassicurata, ma la sua voce flebile, pure con un po’ d’affanno m’è rimasta dentro. Quella voce era una distinzione, in verità cercava come delle prove ulteriori per non essere preoccupata per il nipote. Poi la vedemmo volgersi verso la stessa traiettoria che aveva tracciato poco prima. Fu a quel punto che ascoltai da Franco quello che gli aveva donato sua nonna e quanto avesse sofferto nella vita. Fu l’ultima volta che vidi quella figura traboccante d’amore.



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