VITA SPENSIERATA DI LUIGI GIUSTI (QUANDO IL SORRISO È L’IMMAGINE DELL’ANIMO)

VITA SPENSIERATA DI LUIGI GIUSTI

(QUANDO IL SORRISO È L’IMMAGINE DELL’ANIMO)

- di Fernando Acitelli -

L’Arco più bello, più misterioso di Assergi è quello che si trova tra due interessanti ritagli di realtà, e cioè dalla strada su cui s’assesta la casa dell’amico e compianto Franco Nardoni fino a quella d’una donna che nei tempi della mia fanciullezza veniva identificata come Franala. Mia madre mi raccontò anche chi c’era prima di Franala e questo “agli begli tempi de prima” ma al momento la memoria non mi soccorre per citare quell’esistenza.

Nel mezzo, cioè appena superato l’inizio dell’arco che dopo i gradini prende un poco in discesa, c’è una casa sulla sinistra e qualche altra entrata (se i ricordi sono ancora integri) si nota sul lato destro. In fondo all’arco, all’interno e proprio dalla parte opposta dall’entrata, c’era la casa di Franala, della quale, un giorno, vorrei conoscere l’esatta identità. Questa donna se ne stava seduta dinanzi all’uscio e non si vedeva mai nei soliti rituali come ad esempio andare a messa o governare le bestie. Non so chi a lei provvedesse anche per le urgenze e le prime necessità come la spesa. Così le erano indifferenti anche gli arrivi dei mercanti alla Porta del Colle, che so, Damiano per i tessuti o qualche chiassoso venditore di frutta. In un certo senso ero affascinato da chi prendeva le distanze dai rituali, da chi era ormai distaccato da tutto. Ad esempio: ad una come Grazia, poteva interessare che fosse giunto qualcuno a vendere alla Porta del Colle? E perché, a Mariannina? E a Franca Alloggia, alias Pitturina? E inoltre: a Maria (soprannominata Dì npo’), vicino alla casa di Gioconda e Trippone? Forse uno sguardo a quelle bancarelle, lo riservavano le sorelle Angela e Bettina, ed era probabile che potevano acquistare qualche frutto per la loro madre Teresa.

Ma torniamo all’Arco che s’è preso in esame e valutiamo in esso chi vi abitava: devo ricordarmi di Mario Giusti, di sua moglie Genuina, di Luigi e di sua sorella. Che abitassero lì è una mia convinzione perché li vidi spesso sortire da quell’arco ma ho possiedo prove né entrai mai in una abitazione situata in quel luogo. Ricordo benissimo che sia Mario che Genuina mi salutavano sempre, potevo io incontrarli in Piazza oppure nella contrada dei pagliai, un saluto per me lo riservavano sempre. Naturalmente potevano anche contare su chi per loro portava rispetto: mia nonna Teresa era imparentata con la famiglia di Abramo, mentre mia madre era parente di Maria Spennati, la moglie di zio Sabatino, quest’ultimo figlio di Cristina Longa. («Che pozzane stà alle celesti glorie! Tutti quanti!» – questo recitava mia madre in qualche suo momento particolarmente emotivo, negli istanti di sconforto nei quali il ricordo poteva condurre dritto alle lacrime).

Ma adesso veniamo a Luigi, al suo sorriso, alla sua giovialità, a quel tenere a bada anche i pensieri più turbolenti mostrandosi dunque sempre ben disposto nei confronti della vita. Se fosse vissuto a Roma sarebbe di certo finito nella “dolce vita” a motivo della sua presenza, del fascino, del bel fisico, della chioma perfetta che egli spesso faceva “stirare” dagli acconciatori, prendendo essa la forma del copricapo dei faraoni, il Nemes. Tutto rasato, profumato, svelto nel passo, egli usciva così dalla bottega dell’artista della forbice e in strada si sentiva una divinità: faceva bene. Salutava tutti, era pronto a qualsiasi pausa per il caffè o l’aperitivo; si sentiva in armonia con il mondo e voleva che anche gli altri partecipassero a questo suo sentire, a questa sua gioia. Non lo vidi mai con lo sguardo irato o proteso verso terra come chi è in preda ad un’angoscia; la sua medicina preventiva era il sorriso ma questo non si doveva soltanto comporre sul volto, forzatamente, era un atto spontaneo e lo si doveva possedere già nel cuore: un “Codice dell’anima” per dirla con lo psicanalista James Hillman. Era quindi tutta una questione interiore, assenza d’ogni astuzia o manualetto di psicologia, nulla di tutto questo, soltanto spontaneità e predisposizione al Giusto e al Bello.

Non mi sono mai interessato nel sapere in quale lavoro Luigi si distinguesse anche se ero a conoscenza della sua abilità nel guidare le automobili; in verità quello che m’interessava di lui nelle volte che venivo ad Assergi era vederlo, e poi scorgergli nello sguardo l’immancabile sorriso. Una volta lo vidi alla guida d’una sfavillante Lancia Fulvia e allora mi ripetei che con essa uno come Luigi non poteva proprio perdere, in altre parole era perfetto come James Bond/Sean Connery con la sua Aston Martin DB5, e perché no, anche Vittorio Gasmann nel film “Il sorpasso” con la Lancia Aurelia B24S.

Vedendo quella Lancia Fulvia e Luigi che di lì a poco vi sarebbe salito, mi veniva in mente quella canzone di Lucio Battisti, intitolata Il tempo di morire: in essa si dichiarava esplicitamente l’importanza dell’oggetto/motocicletta per conquistare una donna. Dunque era qualcosa di esterno alla persona, alla Bellezza, all’interiorità, al bel comportamento, ai modi gentili. Queste qualità in vero si potenziavano grazie a quel fatto nuovo della motocicletta che diventava, a quel punto, volontà di potenza, come unico valore richiesto. Così recitava quel passo della canzone:

“Motocicletta

10HP

Tutta cromata

È tua se dici sì

Mi costa una vita

Per niente la darei

Ma ho il cuore malato

E so che guarirei

Non dire no

Non dire no

Non dire no

Non dire no”

 

Luigi non aveva bisogno d’una Lancia Fulvia per scalare postazioni, per mettersi in mostra, per favoleggiare avventure con le donne. Quella Lancia Fulvia rispondeva al desiderio e alle aspettative d’un giovane che voleva gustarsi gli anni più belli della sua vita. Oggi potrebbe custodire quel gioiello della Lancia Fulvia come si può fare con delle fotografie e dei dischi che segnarono una stagione della vita. Sarebbe perfetta per quei raduni delle auto d’epoca. Tenerla al riparo in un garage e gustarsela quando il cuore richiama i ricordi.

Certamente vederlo al posto di guida era uno spettacolo con le fragranze di “Acqua di Selva” che a finestrino aperto dilagavano per i Frati, “gliu Brigante”, per la valle, la Madonna d’Appari fino ai portici de L’Aquila, al Bar Eden o a Piazza Palazzo nello scenario delle tante esistenze che lì convergevano, persone che entravano e uscivano dal Comune e poi le passeggiate dei signori della città, cioè i custodi della Legge, notai e avvocati, il cui sapere s’espandeva nell’aria anche involontariamente, ed ogni parola pronunziata era pregna e rimandava agli universi del Diritto e delle Procedure.

Rivedo Luigi sotto i portici proprio nel tratto compreso tra il Bar Eden e Piazza Palazzo: l’andatura disinvolta che si distingueva con il suo passo svelto. Avrebbe voluto prodursi in tante cose: aveva espressa nello sguardo tanta voglia di fare non risparmiandosi minimamente.

Quelle sue fragranze mi sono rimaste dentro ed anche per me c’è stato un tempo in cui mi creavo con esse un “mondo parallelo”. Esse purificavano l’aria, miglioravano l’atmosfera, evocavano paesaggi lontani e stravedevo per profumazioni all’insegna di sandalo, cedro e muschio; come pure m’inebriavano quei profumi composti con miscele d’agrumi insieme ad essenze di bosco. Mi piaceva andare in giro adagiato in quelle fragranze fantastiche che avevano anche la capacità di migliorare i gesti, di definire il mio mondo, di scacciare ogni preoccupazione. E ritengo che tutto queste sensazioni fossero anche in Luigi.

Se ad esempio si doveva incontrare una persona fastidiosa, ostile, e che s’era irrigidita sulle proprie posizioni con le sue frasi che contenevano per lo più proposizioni avversative, era chiaro che si dovevano mettere in campo buoni argomenti per contrastarla, ma non era vicenda da poco avere la facilità di parola, essere impeccabili, e poi adorni di quella mistero decretato dall’eau de toilette che pareva un’arma in più contro le posizioni intransigenti del nostro interlocutore. Nel caso di Luigi, quella profumazione era anche un porre la persona di fronte in una evidente posizione d’inferiorità, lo si capiva facilmente anche perché a suo favore Luigi aveva l’altezza, la chioma bene in riga, pure un poco gonfiata come richiedeva lo stile dell’epoca e infine un argomentare con un retrogusto di saggezza ma anche di decisione. Erano tutti elementi che non si potevano trascurare e che spiazzavano il malcapitato interlocutore. Da non dimenticare inoltre l’estetica delle mani di Luigi e così tra anelli e bracciali spuntava l’immancabile pacchetto di Marlboro e quella confezione rigida pareva un cofanetto che ingentiliva la mano. Ecco cosa avrebbe potuto dire Luigi a quell’uomo: «Io sono anche questo, sono pieno di oggetti e significati».

Ovviamente questa conversazione è immaginaria ma a me è necessaria per definire al meglio il carattere che credo di conoscere (appena un poco) di Luigi. E questo grazie alle sue rappresentazioni che vidi ad Assergi, in margine ad un argomentare con suoi amici. Dunque: buono, altruista, abile nel risolvere le situazioni. E poi: giustamente vanitoso, profumato, sempre al passo con i tempi. Con me poi è sempre stato sorridente, rispettoso, ben disposto verso la mia persona e di questo gliene sarò sempre grato. Dunque si può parlare d’un ragazzo puro, uno che fondava l’amicizia su quei rari requisiti che sono la sincerità, la schiettezza. Affermo questo pur sapendo che i nostri incontri fossero rari, e quasi sempre d’estate. Ma non credo di sbagliarmi, la sua personalità poggia su queste colonne morali.

Lo rivedo sfilare per NaPorta con gli occhiali Lozza, a lenti scure, chiuso nel suo universo di bene, nella sua polo azzurra, i jeans stretti e tanta voglia di presentarsi sorridente (al solito!) a quel mattino assolato che migliorava l’animo a tutti.

Lo rivedo impeccabile anche nei miei rari passaggi invernali ad Assergi, lui in tenuta da sci, ben modellato con i suoi indumenti coloratissimi; conoscitore di quella disciplina sportiva, attrezzato per lo stile ed anche per il divertimento a Campo Imperatore, era sempre in piena forma poi anche per poter allestire delle sensazioni sul tempo meteorologico ma anche su quello crudele che passa e che scolpisce noi tutti.

Lo rivedo in quel giorno che, sempre NaPorta, mi comunicò la nascita di suo figlio Mario e mi disse che la sua prima intenzione era di chiamarlo Christian ma che vi aveva poi rinunciato perché sapeva che quel nome sarebbe stato alterato, che altri lo avrebbero mutato in Cristiano, e il Christian originario si sarebbe perduto. Anche in quella sua confessione colsi la purezza, e non so se ad altri avesse svelato tutti questi pensieri, i retroscena su quel nome. A dire la verità io fui contento del nome Mario, almeno così il padre di Luigi avrebbe sorriso e avrebbe sentito, un poco, il giusto prolungamento della sua vita.

Lo rivedo in quella sera che intavolammo il discorso su sua moglie Antonietta e il modo in cui egli si presentò ai futuri suoceri. Fu naturalmente lui a finire su quell’argomento e non ricordo prima di esso su cosa conversammo. Fu perfetto in quella ricostruzione e ancora una volta uscì fuori la sua sincerità, la sua purezza se alla fine di tutta quella narrazione mi disse candidamente: «Quella sera con Carminuccio non s’impostò il discorso su Antonietta «ma finemme co’ lo parlà sole de patane…!»

Come non abbracciarlo?

Quando mi reco a comprare dentifricio e saponi vari e transito per il reparto profumi, ecco che d’improvviso m’imbatto nella eau de toilette “Pino Silvestre” che è un poco il fratello minore dell’Acqua di Selva e allora in un volo all’indietro ritorno ad Assergi e a quelle fragranze di Luigi (e al suo sorriso) che ancora oggi mi accarezzano, mi migliorano l’animo.



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