LUIGI FACCIA, L’OMAR SHARIF DI ASSERGI

LUIGI FACCIA, L’OMAR SHARIF

DI ASSERGI

- di Fernando Acitelli -

 

Dal 17 gennaio 1984 la casa in via della Chiesa n° 1 divenne qualcos’altro. Ebbi la sensazione che anche le mura risentissero di quell’improvvisa mancanza. Qualche giorno prima Luigi Faccia doveva avergli sussurrato «Addio…». D’improvviso la casa a me parve indifesa, lì, all’entrata nel paese. Quella casa che s’era sempre riempita d’amici avrebbe da quel giorno respirato i sospiri di poche persone. Visite certamente affettuose ma la cosiddetta “favola bella” di dannunziana memoria, era finita. Fu per me come se quella casa nella quale finivo spessissimo durante le vacanze fosse ormai isolata come una di quelle che s’incrociavano sulla statale 17 bis e si faceva fatica a capire chi fossero le persone che vi abitavano e inoltre se non avevano paura a vivere così isolate.

La casa di mio zio Gigetto era sempre stata un raduno fraterno, e quando non c’era nessuno pareva che tutti i suoi amici dovessero cercare altrove sostegno e conforto, e in certe sere cercavano Gigetto per avere delle consolazioni. Lo spazio lieve della cucina era riempito magicamente dagli amici che lì convergevano, Ercolino di Fiorone, Angelo (Pallottone), Volturno, tra i fedelissimi. E Luigi Faccia era colui che con le spalle alla grossa radio indossava i panni del “gran cerimoniere”, sorrideva, attaccava bonariamente chi gli era sembrato nelle risposte non tanto preciso, a dire bene non era stato all’altezza del quesito da lui posto. Poi, in basso, si sentiva aprire la porta e quindi un composto salire le scale e così, una volta apparso il nuovo ospite, ecco che il padre di Lorena e Angelo lo accoglieva osando battute che servivano ad evitare lo scontato «Buona sera». Pungevano quelle battute ma, pronunciate con un sorriso intenso, avevano la distinzione dell’affetto. E quel sorriso era luminoso, nitido, ma subito retrocedeva placandosi e questo per dare accoglienza premurosa all’amico appena entrato. Subito lo faceva accomodare ed un bicchiere era già pronto e con esso la conversazione riprendeva da dove s’era poco prima interrotta. Il sublime era che quasi tutti i suoi amici erano più grandi di lui e dunque una persona così infondeva coraggio, faceva sentire meno pesante l’età ed era un ottimo “rifugio” quella casa e il sentire profondo di quegli amici era sicuramente che il prolungare la loro presenza lì dentro avrebbe significato molto in termini di umore e di speranza. A dirla in breve era un autentico sollievo stare lì. Ecco, col suo modo di fare mio zio Gigetto sapeva transennare, confortare l’animo dei suoi amici anche perché era un uomo che scansava le mezze verità, i giri di parole, i doppi sensi: era diretto ed era questo suo modo di essere che essi gradivano. Adesso mi viene da usare la parola speranza ma, se ci rifletto un poco, subito mi ripeto che essa è azzeccata per quella cucina con vista sulla serenità. Gigetto donava speranza anche con una controbattuta che spiazzava l’amico. Come ne conveniva subito Ercolino, muovendo lateralmente la testa; come subito attenuava la sua proverbiale ilarità Angelo (Pallottone) che era un po’ il promotore delle risate, il bravo “dissacratore” che però conduceva i suoi discorsi fino a quell’area che era poi la verità d’un certo fatto. Gigetto rideva alle battute di Pallottone e allora tra i due c’era una convergenza di sorrisi, e mio zio capiva che Angelo era un irriducibile di quelle parole argute; poi Angelo stava sempre in agguato perché mi ricordo che lui si posizionava sempre in piedi dietro a mio zio dentro quella cucina che era un lungo ricamo di laboriosità. Quanto a Volturno, egli cercava di fare breccia nell’animo di Gigetto rispolverando sue azioni “eroiche” e riproponendo immagini d’un passato a dir poco lontano.

Quando vi capitavo e zio era con i suoi amici, ecco che mi trattenevo per poco tempo, in altre parole mi consideravo un “disturbatore”, uno che poteva in un certo senso alterare quei dialoghi che tra di loro avvenivano spontanei, quella complicità che io non potevo penetrare sia per età che per appartenenza parziale ad Assergi. Rimanendo lì, avrei finito anche con l’alterare i loro discorsi e una delle mie qualità è sempre stata la discrezione e, oltretutto, la dote di non abusare mai di quanto mi si accordava. E già spostandomi verso zia Brigida, intenta come mia madre sempre ad inoltrarsi in azioni vantaggiose soprattutto per gli altri, avveniva che i discorsi dei presenti riprendevano le giuste traiettorie ed era giusto che fosse così ed il mio dispormi in disparte si poteva considerare azione lodevole anche se la combriccola di amici non che stesse conversando su dei segreti. Ma era una questione soprattutto di tono e me ne accorgevo una volta che stavo accanto a zia Brigida. E tornavano subito le fragorose irruzioni di Pallottone che abbassava il livello di serietà raggiunto. E zio Gigetto si voltava verso l’eroe della battuta senza freni e quasi lo abbracciava perché era stato pungente e lui sapeva riconoscere l’intuizione e la frase di genio: esattamente quella composta al momento giusto. Né erano esenti dal ridere sia Ercolino che Volturno che scuotevano la testa come a dire: «Quissu ne sa una più de gliu diavere!...». Ricordo Ercolino che mostrava sempre una viva saggezza e non era propenso a controbattere e questa era una sua distinzione.

Al fragore delle risate anche zia Brigida si voltava ed il suo sorriso era inimitabile, pure lievemente macchiato (al solito) di quel dolore intimo che ha a che fare con l’esistenza. E così sembrava che quella cucina dovesse mantenere sempre quel clima che se era d’una spensieratezza “a tempo”, migliorava di certo l’animo. Ed io m’entusiasmavo nel vedere sorridere i miei zii che sfacchinavano da mattina e sera, io prima fanciullo poi adolescente e quindi ragazzo lì giunto in vacanza e con un’aria trasognata, ma in verità anche addolorata.

Quanto alla somiglianza tra zio Gigetto e l’attore egiziano Omar Sharif era stato mio padre a proporre un simile accostamento. Doveva trattarsi probabilmente della metà dell’anno 1969 ed eravamo al cinema “Ariston” in via del Corso, sotto la galleria, ed ero insieme a mio padre, appunto, e a mia sorella. Tutto nacque dal fatto che nel film che quel giorno in quella sala proiettavano, Funny girl, c’erano come attori Barbara Streisand ed Omar Sharif. Come detto fu mio padre che dopo alcune sequenze del film e vedendo sullo schermo l’attore egiziano, disse: «Ma questo attore assomiglia a zio Gigetto!...». Era vero, e così tutti e tre finimmo con il vedere un po’ di Assergi in tutte le inquadrature che riguardavano Omar Sharif. In un certo senso la nostra attenzione risultò un poco alterata e i nostri pensieri divennero condizionati perché mio padre s’era esibito in quel raffronto esatto e quindi ormai tutti e tre vedevano in azione Luigi Faccia accanto a Barbara Streisand con la differenza che quel film musicale – oltretutto con una meravigliosa colonna sonora - non proponeva la casa di NaPorta, né ogni tanto appariva zia Brigida e neppure potevamo ammirare, in una sublime inquadratura, l’orologio  monoblocco con cinturino a maglie dorate di nostro zio. Eravamo noi tre, in platea, a sostituire i fondali del film con scorci di Assergi dove potevamo magari vedere zio Gigetto salire sulla sua FIAT 1100, modello splendido, oppure osservarlo nel mentre rientrava a casa.

Da quel momento in avanti, a me pareva più protetto zio Gigetto dopo che aveva avuto una sorta di “storicizzazione” grazie al colpo da maestro di mio padre. Così in tutta la filmografia di Omar Sharif non avrei visto nessun altro in azione che il nostro Luigi Faccia. E questo accadde anche nel film Lawrence d’Arabia.

Se veniamo alle fotografie, ecco che si delinea perfettamente la traiettoria esistenziale di zio Gigetto. E in questa sorta di “retrospettiva” ecco che debbo fare i conti, per l’ennesima volta, con gli affetti lacerati. Le foto indubbiamente confortano ma conducono anche lontano, verso pensieri definitivi circa l’esistenza. Così quel sorriso scomparve dalla scena della vita e se ne privarono zia Brigida con Lorena e Angelo. Lo ripeto: quella casa mi parve indifesa dopo il 17 gennaio 1984.

Si potrebbe affermare che le fotografie hanno la capacità di sostenere, transennare emotivamente i familiari ma quanto dura quell’esplorazione negli album e nelle scatole piene di ricordi? Non viene forse il desiderio di riporre tutto per non soffrire ulteriormente? Di che natura è il nostro colloquio con chi non è più tra noi? E s’è forse attenuato di molto il sentimento verso coloro che ci salutarono e che non possiamo aiutarli in nessun modo? A me quell’operazione di rovistare nei ricordi degli affetti lacerati m’ha sempre sollevato dentro quelle immagini grigie della tarda estate quando iniziava a piovere e nella Piazza s’era smontato il palco e non si poteva risalire ai cantanti che avevano fatto del loro meglio e che e che si trovavano altrove: un poco la sensazione era d’associare quella loro lontananza anche con una incredibile dipartita. Ma li avremmo visti nuovamente?

Veramente una brutta faccenda la vita riguardo agli affetti.

Poi accade di passare in rassegna le fotografie che riguardano zio Gigetto e mi sembra allora che io possa fare ancora qualcosa per lui, almeno tenere vivo il suo ricordo nella comunità che ha nome Assergi. E in cosa distinguermi per lui? Mi vengono in mente certi libri fotografici in cui il soggetto è uno scrittore scomparso. Bene. E allora in questo libro vi sarà una foto ad ogni pagina e, sotto di essa, un ricordo di un altro scrittore che conobbe colui che non è più tra noi. Molti di questi libri mi sono cari e sono conservati tra le barricate di altri libri che acquistai negli anni. Sotto le foto vi saranno dunque delle frasi brevi, incisive, con una glassa lirica che è l’unica che sa concentrare il sentimento senza un inutile profluvio di aggettivi. È proprio questo che ho in mente e sarebbe un dono perfetto, un riassunto di tutto il bene che si prova per colui che non c’è più. Per coloro, mi correggo, che non ci sono più.

Dunque zio Gigetto è un ragazzo del 1935, di quella generazione che ha respirato l’atmosfera della guerra e che già da fanciullo ha potuto vedere immagini di crudeltà per quanto riguarda gli uomini e le loro aspirazioni al dominio. Avrà sicuramente sussurrato: «Perché la guerra?». E dire questo è, per un fanciullo, già tanto. Se ci volgiamo lungo la dorsale dei secoli non vi sono che macerie tra guerre di religione, successioni al trono, conquiste di terre ricche di materie prime, e tutto questo oggi sopravvive ma è mutato soltanto “il tipo” di guerre, tutte politicamente corrette.

Dunque l’uomo non cambierà mai.

Nell’ istantanea da Studio Fotografico zio Gigetto è in camicia bianca nella giusta posa studiata assieme al mago dello scatto il cui nome è ignoto. Posteriormente, la foto reca la data del 22 gennaio 1961, dunque egli compirà ventisei anni il successivo 4 luglio; ma, oltre la data, utile come ricognizione, il sublime s’avvista nella sovrastante dedica in cui per la fidanzata Brigida vengono scritte due parole che sono oggi materiale degno d’un Antiquario; in particolare egli usa i termini “eterno” e “Amore”, quest’ultima parola addirittura scritta con la lettera maiuscola. E a vedere tanto finiamo veramente in un altro mondo e siamo assaliti da una sorta di vertigine e ci sussurriamo che il nostro tempo (forse) è scaduto e s’è quasi ai titoli di coda. La posa di zio Gigetto promuove nuovamente l’immagine dell’uomo bello ma anche responsabile, con il suo percorso illuminato dalla stella polare che ha nel cuore. Traspare, inoltre, quella spensieratezza che è naturale nei vent’anni e allora anche la mia sensazione è che non si vorrebbe più uscire da quella foto.

Si passa oltre ed ecco allora un Gigetto in versione sportiva sugli sci e in questo caso la somiglianza con suo figlio Angelo è certificata; lo scenario è quello d’un tempo che valutiamo se non memorabile almeno tranquillo, “sottovoce” quando una sortita sulla neve equivaleva ad una vittoria e la quiete ai Tre Valloni sembrava imbrattarsi di preghiera. C’è poi lo zio “eroico” nel periodo di leva, in terra e con la tuta mimetica ed il cappello d’alpino accanto al suo sorriso. Ecco, la caratteristica comune di tutte le foto è che possono mutare gli scenari ma non il suo sorriso. S’è in posa al mare oppure sulla motocicletta ma la costante è sempre con lo sguardo esposto alla gioia. È proprio quello il sigillo che distingue ogni scatto e siamo a definire quelle foto come “straordinarie”, perché non era facile a quei tempi avere a disposizione una macchina fotografica per immortalarsi.

Esiste poi una fotografia che rappresenta un “unicum”, e non credo ve ne siano altre in giro. Me lo auguro ma una foto dal barbiere non è accadimento frequente. Dunque zio Gigetto si immortalò anche in un salone di Figaro e la foto ha una forza evocativa straordinaria. E allora sembra una scena di film con il protagonista che si sottopone al taglio, alla sfumatura sul collo, e malgrado questa sua attenzione nello spostare la testa un poco in avanti, compone ancora una volta il sorriso. Dietro di lui un valente artista della forbice, che assomiglia molto all’attore Carlo Campanini, definisce compiutamente il quadro. Ma vi sono altre mie curiosità da soddisfare: che forse quella bambina che s’osserva nello specchio è Lorena? Probabilmente non lo saprà nemmeno l’interessata.

È difficile pensare a Gigetto senza zia Brigida, pare cada tutto il mosaico. E proprio il mosaico andò in schegge con due uppercut del destino in due incredibili momenti. Nelle foto spensierate, ecco ancora una volta la location di Assergi, l’uscita di chiesa, e poi il taglio della torta, e quindi il viaggio di nozze e la Piazza dei Miracoli, a Pisa, come scenario. In queste foto, lontane da Assergi il sorriso di zia Brigida accade lieve e questo, credo, per costituzione intima dei Giusti che non sono molto propensi al sorriso soprattutto quando si trovano lontani da casa. Anche mia madre doveva ascoltare gli affettuosi rimbrotti di mio padre quando s’era davanti ad un click fotografico: «Ma ti è tanto difficile sorridere?» - le diceva.

Questo fatto dei luoghi lontani e della poca disposizione ad apparire gioiosi in posti non conosciuti sembra avere una sua conferma se si osserva un’altra foto nella quale zia Brigida, accanto alla loro automobile SIMCA, è sorridente. Ma il luogo si riconosce o almeno si può intuire come a lei familiare, e sembra un tratto della statale 17 bis, dunque vicino Assergi. Zia Brigida qui è al massimo della contentezza e sia la posa, la grazia ed il sorriso sono splendidi.

Ed il sorriso ancora le appartiene davanti l’uscio di casa con Angelo/cucciolo in braccio e Lorena che, unita con il braccino alla madre, ci dona, con il suo viso, una lieta anticipazione di sua figlia Fabiana. Il clima familiare, dunque, come stato di serenità, di vicinanza ai propri affetti, come visione ravvicinata della quiete perché tutt’intorno v’è lo spettacolo di luoghi conosciuti e dunque sicuri.

Sono contento di avere ulteriori conferme a queste mie riflessioni perché in due altre fotografie zia Brigida appare sorridente. Si tratta di due scatti, ed il primo ce la mostra giovinetta sulla grande balconata che fu di Giuseppe Lalli e Peppina Giacobbe alla Piazzetta del Forno: in questa rappresentazione si riconosce una Brigida adolescente e accanto zia Lina, zia di Brigida (figlie di nonno Cristoforo Giusti e nonna Maria Alfonsina Mastracci, e quindi zia Antonietta). I bimbi in braccio sono nipoti. Anche qui, dirimpetto alla sua casa, zia Brigida è sorridente: è circondata da tre cugine e dunque si sente al sicuro e si sa come la serenità sappia far sgorgare il sorriso. Ma vi è ancora un’altra foto che incornicia questo mio pensare: è una istantanea a due e se non è la loro casa (visto il telefono a gettoni alle loro spalle), è sicuramente un luogo amico. E anche qui zia Brigida si celebra con il sorriso, di quelli che mi sono ancora oggi tanto cari, mentre per zio Gigetto è, al solito, un fatto naturale comporre quella gioiosità.

È tanto, è poco quello che ho narrato? Credo che anche in questa occasione abbia rispettato la misura, nello spirito greco della polis. Quello che mi viene da pensare è che molto più difficile scrivere dei propri cari anche se si dispone di tanti reperti, come fotografie e ricordi: il fatto che è materia incandescente. Sento che il compito  sia quello di non lasciare che queste schegge di sublime si dissolvano. Ma anche per gli amici che conobbi. Rammemorare è il mio destino e questo era anche il verbo dei miei genitori e pure a me capita di sorridere più facilmente quando ho intorno affetti e luoghi familiari.

Zio e zia, indimenticabili, per il momento vi faccio dono di queste righe.



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