Un resoconto delle guerre nelle nostre contrade - di Giacomo Sansoni

 

GUERRE: L’UOMO VILIPESO, L’UOMO LOGORO, L’UOMO SALVO E SALVABILE

- di Giacomo Sansoni -

 

La prima guerra mondiale, al paese arrecò 18 morti, nuvole di preoccupazioni, batticuore, trepidazione, attese e speranza di poter racconciare, senza lacerazioni incolmabili la tela usata della vita; ancora distacco, assenza d’affetti, carenza di braccia e di bracia, non al tatto le conseguenze; altri e più lontani i scenari di sofferenza e di morte. Qualcuno, come mio nonno, tornò con comparabili provazioni, sperimentazioni terragne e cretoso attaccamento alla vita, condivisibili slanci per quei monti benché nuovi, simili nella pelle, con stesse provazioni sinclinali e carsiche nostalgie provate al nuovo ruminìo di confine. Nuovi i fiumi incontrati e ponderati con le rime leggere del Raiale; più tronfi, forse consapevoli di conquisa vanagloria, turgidi come corpi meno adusi al digiuno. Tornò con pregata benedizione, usata con fiato affrancato, non quello asmatico e rantoloso dei fanti, ma addomesticato e ingentilito nel labirinto ottonale del flicorno tenore, elargito tra le crome smarrite delle albe e i diesis dorati dei tramonti, a sprone prima e rinfranco dopo; vento ruvido d’abbrivio e vento gentile sulle arpe dolenti, tra rancori e dolori, che fanno nido tra le foglie degli uomini.  

Tornò con attese dentro il petto e su esso una radura arata, una febbre iterata con scansione ricorrente che mal s’accordava a quella sempiterna dell’ansia del ritorno, dopo sette anni, partito per il servizio militare di durata triennale e senza congedo subito alla guerra tutta. Oltre la febbre quando si erano, da tempo sanati i danni del corpo, legò il suo, come ramo di pioppo a quello di salice della ritrovata fidanzata, che divenne moglie e poi madre, con naturale germinabilità di talea dei cinque germogli che sarebbero stati i suoi figli, la prima mia madre. La guerra anni dopo lo ricordò e lui non la dimenticò e la ricompose a quadretto nella bottega di falegname, con la pergamena del cavalierato di Vittorio Veneto e la croce ferrea di guerra. 

L’altra guerra però arrivò dentro la vita, dentro le case e i dolori di tutti, ed è memoria più vicina, quasi al tatto, per noi, che fummo zigoti in un tempo appena posteriore, a distanza di un ragionato iato bonificale delle gravate placente della carne e della storia.

Anche in queste contrade, che si sarebbero intese appartate, aduse al silenzio, chiostrate dai monti, che si gloriano di saper fare professione arginale non solo ai venti miseri, salvo poi introitare quelli più permalosi e ingagliarditi con una veemenza centuplicata in virtù del dirupo barico, tra il cielo e la valle, ma anche per gli eventi del mondo largo, i cui strepiti trovano bonifica osmotica,  entro la culla limbale, che accondiscende le smemoraggini.

Eppure la storia, a volte si sorprende, non quella delle minuterie, ma quella che si direbbe grande. Grande per eventi, per fatti, per nomi, per temerarietà di professare strade meno logore? Storia grande? Storia grande fu?

Dal suo arresto, il destino di Mussolini fu deciso nel corso di una riunione segreta che si svolse al Viminale il 27 luglio del 1943 alla presenza del maresciallo Badoglio, del capo della polizia Senise e del capo della polizia militare del Comando Supremo, generale Polito. Senise suggerì di inviare il Duce su un'isola e  affidarne la custodia ai Carabinieri. Badoglio convocato il comandante dell'Arma, generale Cerica, gli impartì le istruzioni per la sua sorveglianza, ordinando di sparare a vista contro chiunque avesse tentato di prenderlo con la forza. Intanto, nella caserma dei Carabinieri, il Duce aspettava che gli annunciassero la partenza per la Rocca delle Caminate, nella quale aveva desiderio di ritirarsi a vita privata, come già espresso al Re. All'una di notte gli fu recapitato, da parte del generale Ferone un testo intestato a "S. Eccellenza il Cav. Benito Mussolini" che aveva sembianza rassicurante. Diceva: "Il sottoscritto Capo del Governo, tiene a far sapere a V.E. che quanto è stato eseguito nei vostri riguardi è unicamente dovuto al vostro personale interesse, essendo giunte da più parti precise segnalazioni di un serio complotto contro la vostra persona. Spiacente di questo, tiene a farvi sapere che è pronto a dare ordini per il vostro sicuro accompagnamento, con i dovuti riguardi, nella località che vorrete indicare". La risposta dettata da Mussolini fu: "Desidero ringraziare il Maresciallo d'Italia Pietro Badoglio per le attenzioni che ha voluto riservare alla mia persona, unica residenza di cui posso disporre, è la Rocca delle Caminate dove sono disposto a trasferirmi in qualsiasi momento. Desidero assicurare il Maresciallo Badoglio, anche in ricordo del lavoro comune svolto in altri tempi, che da parte mia non solo non gli verranno create difficoltà di sorta, ma sarà data ogni possibile collaborazione. Sono contento della decisione presa di continuare la guerra con gli alleati, così come l'onore e gli interessi della Patria, in questo momento, esigono, e faccio voti che il successo coroni il grave compito al quale il Maresciallo Badoglio si accinge per ordine e in nome di S.M. il Re, del quale, durante 21 anni, sono stato leale servitore e tale rimango. Viva l'ltalia!" Mentre Mussolini cercava brandelli di sonno su un divano, in città, in una Roma, esausta e silenziosa nella cappa della calura, poco o nulla si sapeva. In Germania, presso il suo quartiere generale, Hitler era furibondo, con la smania di comminare pesanti rappresaglie all’Italia, con intensione di scagliarsi contro la monarchia, il governo, le armate e la flotta, perché aveva intuito che a breve  Roma si sarebbe arresa agli angloamericani, pertanto la decisione di liberare il Duce fu immediata e infatti il giorno dopo, il 26 luglio, convocò diversi ufficiali tra i quali sceglierne uno cui affidare la difficile missione. La scelta cadde sul capitano delle "SS" Otto Skorzeny che aveva affascinato il   Führer per la sua complessione atletica, per la sicumera dei suoi modi, nonché per la raccomandazione avuta da parte del gerarca Ernst Kaltenbrunner, nelle grazie di Hitler per la sua fedeltà e per essere nato a Linz, in Austria, città cara al Führer. Pertanto affidò la missione a Otto Skorzeny con la seguente investitura: "Vi affido un incarico di enorme importanza, la liberazione del più grande degli italiani, Mussolini, che io non voglio e non posso abbandonare nel momento del pericolo"  Skorzeny si attivò e incontrò Himmler poi, con il generale Kurt Student, comandante di una divisione di paracadutisti, andarono a Roma per scoprire dove il Duce fosse custodito. Mussolini, convinto di non essere in stato di arresto ma, come gli diceva Badoglio nella sua lettera, di essere sotto la protezione dei Carabinieri, venne avvertito dell'imminente partenza che desiderò o sperò assecondante le sue richieste. L' incarico di accompagnare il prigioniero fu affidato al Generale Polito, capo della polizia militare del Comando Supremo il quale, alla domanda del perché non si dirigessero verso la Romagna, rispose che aveva ordine di non rivelare la destinazione cui erano diretti. Giunti a Gaeta Mussolini e Polito trovarono l'ammiraglio Maugeri e si imbarcarono sulla corvetta "Persefone" che salpò all'alba. A Roma, nel frattempo, al termine di un burrascoso Consiglio dei ministri, Badoglio, maestro di trasformismo politico, telegrafava a Hitler, di cui temeva le reazioni, in questi termini: "La guerra per noi continua nello spirito dell'alleanza. Tanto tengo a confermarvi con la preghiera di voler ascoltare il generale Marras che verrà al vostro Q.G. da me incaricato per una particolare missione per Voi". La richiesta era un colloquio del Re con il Fuhrer, ma il Fuhrer, appena gli fu inoltrata la richiesta, la disattese totalmente, anzi si lamentò duramente per il trattamento inflitto al "suo amico Mussolini" e convinto che il Sovrano italiano e Badoglio fossero in malafede, confermò a Skorzeny I'ordine di liberare ad ogni costo il Duce. Da Gaeta, la corvetta "Persefone" si diresse per Ventotene dove giunse alle 5 circa del mattino, ma dopo una verifica a terra, fu deciso di proseguire per Ponza, che per Polito era più idonea per sistemare il prigioniero. Il prigioniero fu trasferito in una casa a due piani, colorata in verde. Mussolini esausto quando raggiunse la casa manifestò la sua stanchezza a chi lo scortava e espresse il desiderio di un letto per riposare. Fu portato in una stanza squallida dove c'era soltanto una rete senza neanche il materasso e le lenzuola, alché il Duce dopo uno scatto di ribellione, dovette rassegnarsi e si sedette a terra, con la testa sconsolata tra le mani. Questo, come la renitenza a non voler interloquire con il Duce da parte di Polito e del colonnello Pelaghi, ormai sordi alle sue richieste, come se la faccenda non li riguardasse, aveva valenza umiliante. Qualche segno di comprensione umana, Mussolini li ebbe da due marescialli dell'arma, Avallone e Sebastiano Marini, che provvidero a fargli avere un brodo caldo, del pane, un uovo e un po' di frutta. A Roma, il governo aveva quasi dimenticato il "prigioniero". Badoglio e compagni non pensavano ad altro che a scantonare le eventuali, temute rappresaglie tedesche e a prendere contatti con gli Alleati, benché ancora nemici, per concludere un rapido armistizio. Dopo minuziose ricerche, alla fine di luglio, i tedeschi conobbero il luogo della prigionia di Ponza e informato da Himmler, il Fuhrer incaricò l'ambasciatore Mackensen di chiederne notizie direttamente dal Re con la richiesta di poter visitare il "prigioniero". In vece del Sovrano, rispose così Badoglio: "Una visita non è assolutamente opportuna. Se il Fuhrer vuole, può scrivergli". Il 1 agosto, furono recapitati a Mussolini una cassetta di frutta e due bauli di abiti e biancheria, inviati da Donna Rachele, poiché dal giorno dell'arresto, il Duce non si era potuto cambiare. Con i vestiti, la consorte Rachele gli aveva inviato il libro la "Vita di Cristo", del canonico Ricciotti, che aveva trovato aperto sul tavolo nella Villa Torlonia, e una busta con una fotografia del figlio Bruno, una lettera di Edda e diecimila lire. Per il riacutizzarsi di dolori duodenali, il Duce passò quei giorni lunghi periodi piegato su sé stesso, seduto sul bordo del letto, in quella scarna stanza. La notte del 6 agosto, dopo la mezzanotte, Mussolini lasciò Ponza diretto alla Maddalena con I'ammiraglio Maugeri e 80 carabinieri di scorta. I rapporti con i tedeschi, intanto, erano sempre più logorati, falsati, condensati in una nebula di ambiguità e diffidenze. Il 6 agosto del 1943, a Tarvisio si riunirono il Ministro degli Esteri Guariglia, il Capo di S.M. Generale Ambrosio, Von Ribbentrop e il maresciallo Keitel. I tedeschi con lo scopo di sondare le intenzioni dei governanti italiani, gli italiani, cercando di ingannare l'alleato, simulando, con proclami di circostanza, la concordanza degli obbiettivi e la continuazione del conflitto, in realtà il ministro Guariglia aveva già inviato, per via aerea, il 4 e il 5 agosto, a Lisbona e a Tangeri, emissari per chiedere di trattare con gli angloamericani, e per avocarsene la credibilità quale pegno attestante, vennero fornite indicazioni precise della dislocazione delle truppe tedesche in Italia. In quella riunione però la dissimulazione italiana mostrò crepe, le quali urtarono il maresciallo Keitel, contro Ambrosio, facendo interrompere il colloquio. Keitel comunicò al Führer che occorreva mettere in atto il predisposto piano di inviare altre truppe nella Penisola, perché si disse certo che gli italiani erano pronti a tradirli. Alla Maddalena l'ammiraglio Brivonesi prese in consegna Mussolini al quale era stata destinata per residenza, villa Weber, una costruzione con un giardino di pini, protetta da numerosi carabinieri, dove gli fu concesso di tenere un diario di due quaderni, che lui intitolò "Pensieri pontini e sardi". Anche la Maddalena, però divenne insicura, come fu fatto presente, sia dal generale Basso, comandante delle forze della Sardegna, con una lettera al ministro Sorice e poi dal generale della polizia del Comando Supremo, Saverio Polito, inviato espressamente sull'Isola dal capo della Polizia, Senise. In seguito a tali segnalazioni, Polito fu incaricato di scegliere un altro luogo più adatto, ma nel viaggio di ritorno a Roma, subì un incidente d'auto e dovette essere sostituito con l'Ispettore Generale Gueli il quale, in un suo memoriale dirà che alla sua convocazione, il capo della Polizia gli dichiarò che doveva salvaguardare la persona di Mussolini e impedire che i tedeschi lo rapissero, senza tema di dover far fuoco sul prigioniero, facendolo trovare cadavere.  L'indomani, Gueli si recò in Sardegna e constatò la precaria condizione del Duce. Con le loro navi, gli inglesi, se avessero conosciuto il luogo di prigionia, avrebbero potuto facilmente prenderlo o bombardare la villa, seppellendolo sotto le macerie. Dopo il sopralluogo e aver manifestato le sue perplessità in merito alla sicurezza, andò nei pressi dell'Aquila dove, in quel momento, non c’erano truppe tedesche e si convinse che il Gran Sasso si prestava bene per il trasferimento di Mussolini. Il giorno di ferragosto, nella villa Federzoni vi fu un ennesimo incontro italo-tedesco, nel quale furono presenti i generali Roatta e Francesco Rossi e, per la Germania, il maresciallo Rommel e il generale Jodl. Il colloquio fu inverosimilmente teso, dove non si evitò di dare prova di ipocrisia da parte di Roatta di ribadire il legame ai patti, nonostante si fosse in trattativa con gli alleati.  Vittorio Emanuele redisse un promemoria per Badoglio, con giudizi negativi sull'azione di governo da parte del maresciallo. Il Re poneva l’accento sul fatto che non bisognava recriminare sul passato e non dovevano escludersi gli ex fascisti dalle pubbliche attività. "Ove il sistema iniziato perdurasse, scrisse, si arriverebbe all'assurdo di implicitamente giudicare e condannare l'opera stessa del Re..."  Però Badoglio imperterrito  si votava alle proprie vendette, subiva le pressioni dei rappresentanti dell'antifascismo e antimonarchici, e aveva fretta di concludere l'armistizio per sottrarsi ad eventuali rappresaglie tedesche. Intanto l'ufficiale incaricato da Hitler di liberare Mussolini era stato informato della permanenza del Duce alla MaddalenaSkorzeny e il tenente Warger, che parlava perfettamente l'italiano, si recarono in Sardegna  e Warger, vestito da marinaio perlustrò ogni dove, intrattenendosi con tutti e avendo discorso con un fruttivendolo, riuscì a carpire una confidenza, che trovò oggettiva conferma, quando il fruttivendolo gli mostrò Mussolini che, per congiura del caso, era proprio in quel momento sul balcone della villa. Tornarono a Roma per riferire e poi, volarono di nuovo alla Maddalena, ma due caccia inglesi abbatterono il loro aereo facendoli cadere in mare con conseguenze che non compromisero la loro vita. Hitler confermò a Student, protagonista di clamorose imprese con i paracadutisti tedeschi, la liberazione di Mussolini dalla Maddalena, ma nella mattinata del 28 agosto Mussolini fu trasferito sul Gran Sasso. Nel suo giorno di compleanno, il  29 luglio il Fuhrer gli aveva fatto pervenire un regalo, 24 volumi con le opere complete di Nietzsche, in preziose stampe, entro un cofanetto finemente intarsiato. A Roma, l'atmosfera politica era sempre più incendiata e in quel clima di panico e di viltà, si compì l'assassinio dell'ex Segretario del PNF, la M.O. Ettore Muti, che fu ucciso di notte da un sicario della polizia nella pineta di Fregene, quando erano andati ad arrestarlo con l’accusa di aver complottato contro lo Stato. L’idrovolante che trasportava il Duce dalla Maddalena, ammarò all'idroscalo di Vigna di Valle, nel lago di Bracciano e da lì, dove lo attendevano il successore di Polito, I'Ispettore di P.S. Giuseppe Gueli e un maggiore dei Carabinieri, fu prelevato da un'ambulanza che, con fretta lo portò verso Assergi. All'Aquila la macchina ebbe un guasto, poi dopo una breve sosta ad Assergi, nella villa della contessa Rosa Mascitelli,  il Duce venne inerpicato con la funivia, condotto sull’altopiano di Campo Imperatore e alloggiato nell’albergo omonimo, a quota 2112 metri, già requisito e sgomberato dai turisti. Da quell’eremo Mussolini scrisse una lettera alla sorella Edvige, nella quale le manifestava i suoi abbattimenti e le confidava di essersi riaccostato alla religione dai giorni di Ponza. Le parlava di un suo testamento, redatto nel maggio del 1943, precisando il luogo dove era custodito a Palazzo Venezia, le sue volontà, che il fato per confronto, volverà in forma tragicamente ironica, di non volere funerali e onori funebri.  A Roma l'inviato del Fuhrer minacciò gli italiani per orecchie del ministro degli esteri italiano di dura rappresaglia per avere subodorato che gli italiani stavano trattando con gli alleati. Ancora Badoglio si prodigò nella sua indomita arte dell’inganno teatrale, nascondendo trame, atti e volontà, e mistificando e avallando ipocritamente la saldezza dell’alleanza e dell’immutato destino comune. Molti, fra cui Farinacci, Preziosi, Vittorio Mussolini, Pavolini, Orio Ruberti e Renato Ricci, avevano trovato rifugio oltre frontiera in località dov’era il Q.G. di Hitler; mentre Ciano, Edda e i figli si trovavano a Monaco. Badoglio chiedeva alla polizia prestazioni dure verso i fascisti. Nonostante la firma dell’armistizio a Cassibile, sia Guariglia che Badoglio insistevano ipocritamente, con l'ambasciatore Rahn, che nulla era mutato nei rapporti fra Roma e Berlino. Ormai la diffidenza del Reich era palese e Badoglio considerato bugiardo e vigliacco, per cui per Hitler, la liberazione di Mussolini, verso il quale si sentiva legato da sincera amicizia, si imponeva con veemenza esiziale. Il 6 settembre 1943, a resa avvenuta e firmata, però tenuta ancora segreta per evitare rappresaglie, a Roma Badoglio  decise di convocare l'Ispettore di polizia Giuseppe Gueli, responsabile della "custodia" di Mussolini, al quale chiese se non fosse il caso di trasferirlo in altro sito dal momento che non era più  segreta la sua presenza a Campo Imperatore. Gueli lo rassicurò e il maresciallo non modificò o attenuò l'ordine già impartito di far fuoco, all’occorrenza sul prigioniero se avessero tentato di liberarlo. I movimenti delle forze germaniche, intorno la Capitale, erano preoccupanti e il capo della Polizia Senise, decise di discuterne con il Ministro dell'interno, Umberto Ricci, per considerare, fra l'altro, l'opportunità,  di annullare l'ordine di "uccidere" Mussolini in caso di fuga. Sia il Ministro che il capo della Polizia consapevoli ormai dell’erto precipizio che avevano preso gli eventi, di comune accordo telefonarono a Gueli e gli ordinarono di "regolarsi con prudenza", che voleva significare, "accetta il fatto compiuto, evita di sparare al prigioniero".  Oltre alle volontà sottaciute, quelle più patenti o quelle che osmoticamente avevano imbibito le coscienze di tutti i coinvolti in questo gnommero gaddiano, decisamente di straripante tragicità sociale, forse nella coscienza di Ricci, avesse operato quel senso di colpa, il ricordo di quando, Carmine Senise aveva telegrafato il 20 novembre del 1940, quando aveva assunto la carica di capo della P.S.  promettendo al Duce di servirlo con fedeltà e rettitudine, con promessa di profonda devozione e riconoscenza infinita? Per ordine del Führer, intanto, il generale Student e il capitano Otto Skorzeny, sicuri della presenza di Mussolini al Gran Sasso, prepararono l'intervento della liberazione.

Il duce in questa stazione autunnale della sua vita aveva transitato dapprima alla “Villetta” di Fonte Cerreto e qualche giorno il 28 agosto del 1943, dopo all’albergo di Campo Imperatore, sull’altopiano del Gran Sasso d’Italia, con l’intera zona del Gran Sasso che era divenuta una delle località più rilevanti d’Italia, per lo sviluppo del conflitto in corso. Il massiccio, con l’albergo sull’altopiano fu considerato luogo di prigionia inaccessibile “fortilizio inespugnabile” come definito dall’ispettore Gueli. Al fine di renderlo quasi inespugnabile furono approntati presidi militari, dislocati nei pochi punti ritenuti più accessibili. L’accesso carrabile principale era quello che da Assergi procede verso la base della funivia del Gran Sasso, in contrada Fonte Cerreto e si inerpica fino all’altopiano di Campo Imperatore.

La decisione di liberare Mussolini fu assunta personalmente da Hitler, alcune SS e l’ex ufficiale Otto Skorzeny, che approntarono una delle operazioni militari più spettacolari e meglio riuscite della seconda guerra mondiale, la Fall Eiche: Operazione quercia, che fu condotta congiuntamente da forze terrestri e aeree e si contraddistinse per una organizzazione ineccepibile. Da questa liberazione del Duce, il corso del conflitto, in Italia evolse verso una guerra civile, con la nascita della RSI, alleata alla Germania nazista e delle prime formazioni partigiane, sorte anche sulle montagne abruzzesi, che si schierarono dalla parte degli alleati contro gli occupanti nazisti e i fascisti repubblicani. Sono memoria di molti al paese, quando tutti erano impegnati nelle operazioni stagionali dei campi: mietitura e trebbiatura del grano e cereali, compresa mia madre che mi dispensò le apprensioni del periodo, raccontandomi dei tanti velivoli, mai visti prima, che contesero il cielo agli uccelli e si susseguirono in quei giorni, dal trasferimento fino all’operazione di liberazione e le temerarie trasvolate delle cicogne, termine con cui venne appellato qualsiasi oggetto volante, evidentemente frutto di qualche vulgata nominale. Anche mio nonno, che in quel periodo era cameriere dell’albergo di Campo Imperatore, mi raccontò come una volta che aveva sostituito la cameriera ufficiale del duce: Lisetta Moscardi, lo avesse ricevuto sorpreso, per non dover accogliere la florida ragazza, originaria del paese contiguo di Camarda, la quale gli aveva risarcito un ristoro estetico, entro quello della sovranità delle vette, di quell’altra muliebre, vetta estetica. Lisetta, gentile, fine e ammodo, di presenza generosa, con la sua crocchia a cipolla, folta e vaporosa del colore maturo del grano, che ingentiliva il suo tenero collo elegante, con la quale Lisetta, il Duce aveva saputo intessere sguardi, intese e discorrimenti decisamente allevianti, un raggio di sole, nel nuvolato piceo cielo del duce.

In vista di un probabile attacco tedesco, l’ordine superiore del prefetto dell’Aquila Senise all’ispettore Gueli, ovvero quello di trasferire Mussolini da Campo Imperatore a Fano Adriano, nel versante teramano, fu disatteso, in virtù della scarsa imperatività espressa dal suo superiore, in forma di un discrezionale “regolarsi con prudenza” in caso di attacco tedesco, come a dire “non sparate”, quando il capitano delle SS Otto Skorzeny  scenderà dal primo degli alianti e si precipiterà all’albergo. Massima prudenza quale invito alla resa, infatti furono anche tolte le mitragliatrici dal tetto dell’albergo e i 150 carabinieri e poliziotti non imbracciarono neanche le armi, che tennero appese in spalla. Nessuno sparò un colpo, non vi furono feriti, se non qualche paracadutista infortunatosi nell’atterraggio. Come fosse stato sancito un sottaciuto consenso convenuto tra Badoglio e i tedeschi, non si sa però vero è che la fuga del Re era resa facile, forse in cambio della consegna di Mussolini. Nessuna prova documentale al riguardo: queste cose non si scrivono, però è innegabile che il Re e Badoglio erano terrorizzati all’idea di cadere prigionieri dei tedeschi. Innegabile che i tedeschi avessero bisogno di Mussolini per istituire un governo fantoccio, che contribuisse a sostenere spese e carichi dell’occupazione. Per cui Mussolini divenne merce di scambio, gli fu evitata la consegna agli alleati, come condizione prevista nell’armistizio, anche perché il processo a suo carico avrebbe fatto emergere i crimini di guerra compiuti da Badoglio in Etiopia. Prova di tali taciute concordanze, può ben essere considerata la facilità o facilitazione della fuga del Re, che il 9 settembre, con il corteo reale, composto da una settantina di auto, procedette indisturbato sulla Tiburtina, senza intoppi, fino all’imbarco sulla corvetta “Baionetta” nel porto di Ortona, presidiato dai tedeschi.

L’operazione Quercia fu condotta il 12 settembre del 1943 da una decina di alianti, che atterrarono sulle rocce dell’altopiano di Campo Imperatore e i tedeschi entrati nell’albergo, dove il duce era custodito lo prelevarono, facendolo salire su una cicogna, aereo leggero da ricognizione. Il 14 settembre il Fuhrer gli impose di mettersi alla testa della Repubblica sociale italiana con capitale a Salò, sul lago di Garda. Iniziava così l’ultimo capitolo della vita di Mussolini, che si concluse il 27 aprile 1945 a Dongo sul Lago di Como, quando fermato dai partigiani, fu fucilato miseramente il giorno successivo, insieme a Claretta Petacci.

In quel clima di intrigo nessuno si premurò di avvisare il posto di blocco dei carabinieri ad Assergi e

mentre in alto si festeggiava la riuscita dell’evento di liberazione e si scattavano anche foto, nelle quali liberatori e guardiani, avallavano sorridenti l’indolore evento; a valle, nel posto di blocco di Assergi si consumò una tragedia. Raro che, al paese arrivassero mezzi motorizzati, tranne la corriera che spuntava dalla curva del brigante, guidata da Ciaglia, così chiamato forse non per il suo cognome ma per soprannome descrittivo, per la sua difformità della bocca, forse un difetto dovuto ai postumi di una paresi.

Verso le 14 comparve una moto con sidecar con sopra due soldati tedeschi che avevano mitragliatrici a tracolla e pistola alla cintola, seguiti da altri mezzi militari. L’aliante che doveva prelevare Mussolini, intanto atterrava Campo Imperatore.

I tedeschi armati si avvicinarono al presidio dei carabinieri, composto in totale da nove uomini, dei quali Pasquale Delita e Salvatore Alonzi, che erano di guardia, si disposero per impedire l’accesso ai militari tedeschi. Ne conseguì una sparatoria che portò Faragnoli e Gliottone alla determinazione di resa con deposizione delle armi, insieme a Giovanni Natale, il quale uscito allo scoperto sulla strada per deporre le armi, fu colpito al petto da una raffica di mitragliatrice tedesca, cadendo riverso a terra, così come dal rapporto dei carabinieri di Assergi n. 25 del 19.09.1943. Furono feriti anche i due carabinieri: Pasquale Delita e Onesto Occhiuzzi.

Poco lontano, l’assergese Pasquale Vitocco, padre di cinque figli, il più grande di 15 anni, la più piccola di 3, guardia forestale, intento ad accudire gli animali al pagliaio, aveva notato l’insolito trambusto e benché non in servizio, però vestendo per carenza  altri abbigliamenti, la divisa del corpo forestale, che poteva essere scambiata per divisa militare, senza intenzione di atti definitivi, al fine di allontanarsi da quel teatro pericoloso, preso dal panico si mise a correre verso i campi e giunto al margine della strada, venne fatto segno a colpi di mitragliatrice; un colpo lo raggiungeva all’altezza dell’ultima costola inferiore sinistra, perforandolo da parte a parte, uscendo davanti al lato destro, come da rapporto. Dopo essersi impadroniti delle armi dei carabinieri, i tedeschi lanciarono una bomba a mano all’interno della palazzina, dove erano rimasti Occhiuzzi e Delia, che furono feriti non gravemente, quindi si occuparono dei feriti e stabilirono che per Natale non c’era più niente da fare e per il Vitocco disposero il trasferimento all’ospedale di L’Aquila, però dopo che l’ambulanza arrivata avesse prima assicurato le cure ai feriti tedeschi nello sbarco dell’operazione di liberazione, pertanto Vitocco, trasportato dai paesani alla casa che era  la prima a sinistra, entrando dall’arco della porta principale del paese, fu disteso sul tavolo da cucina, fasciato alla vita per contenere l’emorragia e con apprensione accudito dalla moglie per molto tempo, trasferito solo alle ore 21 all’ospedale di L’Aquila, dove morì il giorno successivo.

Nei giorni 13 e 14 settembre i reparti tedeschi, rimasti in zona, proseguirono i rastrellamenti alla ricerca dei carabinieri che non erano riusciti a disarmare e catturare, perché fuggiti in tempo. Al paese si diffuse una marea di preoccupazione e paura, ci sarebbero stati altri strascichi, altre condanne? La sera il paese si svuotò quasi completamente, tutti si nascosero in una stalla, un pagliaio, una grotta, a dormire, per chi sapeva o poteva dormire, per chi le fatiche avevano saputo attivare la melatonina. Quella e le notti successive, finché il tempo non si riappropriò del tempo delle stagioni, delle fatiche dell’uva, della parca vendemmia, della raccolta delle mandorle, delle noci, delle mele amare e della  odorosa vinificazione e cottura del mosto e l’autunno si genufletteva al dispotismo dell’inverno in queste contrade nelle quali alle prime nevi il ghiaccio diventava marmo permanente, con le nevi che tutto assediavano, ottundevano e rarefacevano in una nuvola di sospensione degli uomini, mentre i rovi, gli spini e i rancori cercavano ancora la carne e il sangue, nel cuore a chicchi a chicchi s’annida

la malavoglia e si paventano altre, ed anche le litanie dei venti e il turbine che annoda. Frana e s’introflette il tempo, per guerra, s'accampano le ore, e la morte del tempo e della pazienza che viene dopo le chine nei colori imbroglia ogni voglia, ed alle metafore si fa incline; prima dell'ultimo male

ch’è d'opale e s'ha dentro e del quale, più non v'è scampo, cadono a larga spanna di semina, a gocce a gocce le ore, come rosari di perle, e le parole che son rocce di speranze colmeranno le gerle, e quando non saranno più affanno, le ritroveremo a valle, oltre lo stretto inganno, quando il rivo della speranza s'allarga e male più non fanno.  Fino ai primi scioglimenti, dall’aprile inoltrato ed anche maggio.

Questo evento ha avuto altre ricostruzioni meno verosimili, che narrano che Giovanni Natale fu colpito mentre fuggiva e il Vitocco, colpito mentre era intento a dare l’allarme al vicino posto di blocco, se non addirittura di un suo coinvolgimento diretto nel conflitto. In questo caso le testimonianze dei familiari, indicano la differente dinamica per la quale il forestale morì nel tentativo di mettere in salvo la famiglia, senza nessuna intenzione di incrociare le armi con i tedeschi. A suffragare tale ricostruzione v’è il rapporto del brigadiere Caruso che rilevava come non vi fosse stato tentativo di allarme, visto che il posto di blocco, distante circa un chilometro, era dalla parte opposta verso cui si dirigeva il Vitocco, peraltro colpito alle spalle.

Si muore per inerzia del clima infausto creato. Per gli archi armati che restano ancora tesi nelle mani delle misere pedine, quando nel teatro sono già rifatte le quinte e nuove le svisate delle recite. Si muore perché i luoghi e i tempi sono soggiogati dal concale dominio del deterministico rancore, come le onde gravitazionali tengono in ostaggio i pianeti.  In questa e nelle storie umane dove è gravoso il dominio metamorfico, sono le sembianze, gli atteggiamenti e il camaleontismo che dei teatri fanno teatro e recita e giustificabilità  in cerca di autori e nuove recite a soggetto. Funzionari dello stato che omettono o modificano disposizioni ricevute, in virtù dell’acquisizione di guicciardiniani particulari o redditizie convinzioni, pedine, al cospetto del discrimine tra le paure del corpo e dei rigori dell’arbitrio gerarchico, i miseri che sono miseri, perché hanno dovuto da sempre barattare, per necessità il diritto al proprio libero arbitrio.

Evento questo, non foss’altro che certifica lo stato di uno stato liquefatto, di istituzioni allo sfarinamento, decomposizione, albergazioni di sotterfugi, fughe dalle responsabilità, creazione di una  realtà cavalcheresca, tramonto e decadenza etica, i cui fili logori e sfilacciati, si tenterà di rincorsare, non senza errori, arbitri, giustizie sommarie e nuove dolenzie, con la chiamata alla resistenza e  alla speranza di nuove riedificazioni sociali.

Per tutto il mese di settembre del 1943 le truppe tedesche erano mobilitate nella caccia dei prigionieri anglo-americani e soldati italiani sbandati, operando rastrellamenti in tutto l’Abruzzo. Durante una di queste operazioni, il 25 settembre, due giorni dopo l’uccisione dei Nove Martiri a L’Aquila, una pattuglia catturò in località “Fugnette” presso Filetto, cinque giovani dei luoghi e li condussero verso Assergi per accertamenti. In località “Capolaforca” il giovane Franco Gambacurta, nato a Roma nel 1927, e occasionalmente a Filetto, contrariamente agli altri che, in seguito furono rilasciati, fu immediatamente fucilato con la falsa accusa di essersi liberato di una pistola, non essendo altro che un ragazzo di sedici anni.

Per chi crede, il perdono può riabilitare le atrocità commesse al prossimo? Prossimo di altra lingua, altra cultura, altra o simile prospettica cecità, traguardata da sponde opposte di contesa? Anche l’autoperdono vale? o la presunta espiazione per aver trovato rifugio al corpo e all’anima, o solo al corpo o solo all’anima, il transito entro la permissiva cruna gerarchica della chiesa? Quand’anche si possa presupporre che tali atti siano nati maturati e vissuti per macerazione personale? Senza che sia mai stata svelata, sommessamente sussurrata, comunicata o estrinsecata volontà di un rimorso di un seme di riparazione, un minimo gesto intonato?

La storia ha ferite e, quando si direbbero risarcite, con cicatrici che sono segno indelebile, per chi ha e avrà occhi ancora, ecco che altri eventi, fortuiti, forse casuali, come membra nelle mani di un insipiente cerusico, forse impietoso, tornano a sanguinare.

Nel 1969 il sacerdote tedesco Matthias Defregger venne nominato vescovo dal Papa Paolo VI. Ma chi era Matthias Defregger? Un prete consacrato nel 1949, dopo aver terminato gli studi universitari in filosofia e teologia. E prima? Un capitano dell’esercito tedesco: 114° Divisione Cacciatori delle Alpi, che il 7 giugno del 1944 comandò una sanguinosa azione di rappresaglia nel paese contiguo di Filetto con la strage di 17 innocenti ed inermi cittadini l’incendio dei corpi martoriati, il saccheggio e l’incendio delle umili abitazioni. E dopo? Dopo tali fatti fu promosso al grado di maggiore e nel dopoguerra mai fu sottoposto ad alcun giudizio da parte di alcun tribunale alleato e che in seguito, in patria aveva continuato a frequentare disinvoltamente anche raduni di reduci teutonici. Cerchiamo  di cercare i confini più larghi e deterministici, cui racchiudere questo evento circoscritto alle nostre romite latitudini. Perduta la battaglia del Sangro, l’esercito tedesco cercò di riorganizzarsi sul sistema di colli a nord del torrente Moro, da Orsogna al mare, passando per i centri di Arielli, Canosa Sannita e Tollo. Lungo l’intera linea del fronte, giunta nell’inverno 1943/1944, i tedeschi avevano utilizzato numerosi casali rurali per farne capisaldi protetti da reticolati e zone minate, garantendosi una efficace difesa, vinta soltanto nel mese del giugno 1944. Anche in questa zona le truppe germaniche fecero ricorso alla cosiddetta “terra bruciata”, che comportò la distruzione pressoché totale degli abitati interessati dal fronte, ed anche queste zone pagarono un pesante tributo in termini di civili uccisi. È in questo contesto che matura l’eccidio di Filetto. Già erano avvenuti episodi tragici in quel luogo, quale l’uccisione di un ragazzo, accusato di aver causato la morte di un tedesco, il quale invece era stato ucciso da un suo commilitone che lo aveva scambiato per un prigioniero inglese.

Ancora la sera del 5 dicembre del 1943, verso le otto della sera, una pattuglia tedesca, venuta a conoscenza della presenza di civili in quella zona, aprì il fuoco con mitragliatori e bombe a mano e prima di allontanarsi, minarono la grotta al fine di far crollare la volta e seppellire quanti rifugiati nel suo interno. Fortunatamente la grotta fu distrutta solo parzialmente e la maggior parte dei rifugiati si salvarono.

Il contesto sociale in cui la strage maturò è simile a quella di tutti i piccoli paesi di alta montagna in cui le attività prevalenti erano la pastorizia e l’agricoltura di montagna praticate su fazzoletti di terreni in ambito familiare, con vicariante solidarietà. Poche le famiglie benestanti con grossi appezzamenti di terreno. In seguito agli ordini di sfollamento dai paesi a ridosso della linea di fuoco dove incessanti erano gli scontri tra truppe alleate e tedesche, donne e uomini furono costretti a cercare ripari di fortuna, in grotte, naturali o scavate nel terreno. In una di queste, in località Piano Sale nel territorio di Filetto, avevano trovato rifugio 19 persone, per lo più sfollati dei comuni di Guardiagrele, che soltanto due giorni prima dell’eccidio aveva subito un pesantissimo attacco aereo e carristico che aveva causato 29 vittime, con Orsogna divisa in due con i neozelandesi asserragliati nel cimitero ed i tedeschi barricati tra le macerie del centro abitato.

Molte le accuse infondate, le sentenze sommarie come quella emessa, senza ricerca di verità, abbattutasi in forma esiziale sulla persona dello studente sedicenne romano Franco Gambacurta, di origini abruzzesi, il quale sfollato dopo i bombardamenti del quartiere San Lorenzo di Roma, s’era rifugiato presso lo zio a Filetto e, sfuggito alla morte là la trovò inesorabile ad attenderlo nel nuovo luogo a qualche chilometro di distanza verso sud-est da Assergi e, per tempo un piccolo spicchio di sole, c’è Filetto, piccolo borgo montano sui 1.100 m di altitudine, dove i tedeschi-austriaci, appartenenti alla 114^ Jaegerdivision (Cacciatori di Montagna) inquadrata nel LI° Corpo d’Armata Alpino (51° Gebirgsarmeekorps) operante in Abruzzo, prima nella zona di Sulmona e poi in quella dell’Aquila, sotto il comando del maresciallo maggiore Schaefer, dai sottufficiali Schreiner e Schwetz (sanità), dal caporale Swatschina, dai soldati Wehn e Saurbier e dal radiotelegrafista Ruppert, con una infermeria, un deposito viveri, un ufficio e una stazione radio e telefonica.

Nel giugno del 1944 le truppe tedesche, incalzate dagli Alleati, erano in procinto di abbandonare gli avamposti nell’Italia centrale, così come il piccolo raggruppamento tedesco ben sopportato entro la povertà del piccolo paese di Filetto, alle falde del Gran Sasso. 

Il 1° maggio del 1944 venivano giustiziati presso Filetto il caposquadra della G.N.R Augusto Rossi, il vice-brigadiere della G.N.R. e Ermanno Innocenzi addetto all’ufficio materiali della 130a Legione della Guardia Nazionale. Sembra che il Rossi fosse implicato nell’irruzione compiuta il 31 gennaio del 44 al casale di Esterino Sebastiani di Tempera, che fu ucciso per aver dato ospitalità a prigionieri alleati. Inoltre, si disse che Rossi avesse in tasca delle ricevute tedesche di premi in denaro, per la segnalazione di alcuni POW (prisoner of war: prigioniero di guerra, (circa 1.500 lire l’uno). Dopo l’uccisione del Rossi, qualcuno tentò di terrorizzare i familiari, gettando i suoi panni insanguinati dinanzi all’ingresso della casa.

Il 7 giugno 1944, verso le 16.30, mentre il commando era in procinto di caricare il materiale radio, per la partenza prevista per la sera, verso Paganica, vennero assaliti da una decina di partigiani scesi dai 1.840 metri del Monte Archetto, che tesero a prenderli di sorpresa, con l’intenzione di farli prigionieri senza usare le armi. I partigiani della banda “Di Vincenzo” sotto il comando del capitano degli alpini Rasero erano stati richiamati da un certo Cupillari che, forse aveva chiesto l’intervento dei partigiani allo scopo personale di impadronirsi di una macchina da scrivere che i tedeschi avevano svenduto ad un altro abitante di Filetto. In realtà era consuetudine che i tedeschi, prima di sloggiare, si liberassero svendendo il materiale superfluo, spesso precedentemente razziato. In considerazione del fatto che il Cupillari, bravo ed agiato studente liceale, figlio di un grande invalido cieco della prima guerra mondiale, non fosse spinto dal bisogno, lo scopo della richiesta di intervento ai partigiani, formulata con sottoscrizione di alcuni compaesani era probabilmente da intendersi quale mossa per ostacolare la razzia di animali, di rastrellamenti e trasferimenti di prigionieri, nonché la malcelata necessità e speranza, da parte dei partigiani, di potersi appropriare  di utili materiali radiofonici, comunque il  Cupillari e chi lo sollecitò, agirono sicuramente con leggerezza, esponendo i compaesani a gravi pericoli.

L’azione militare fu smascherata dalle grida di alcune donne che tentarono di dissuadere i partigiani dall’attacco evitando azioni sanguinose, proprio quando i tedeschi stavano andando via. Allarmati, alcuni tedeschi si asserragliarono nel palazzo Facchinei in via Romana, nel centro del paese, allertarono i commilitoni di stanza a Paganica ed aprirono il fuoco con mitra e bombe a mano, ferendo i partigiani Francesco Sgro, Tito Marcocci e Emilio Giamberardini. Medicato sommariamente nel vicino Pescomaggiore, lo Sgro venne ospitato dal parroco di S. Gregorio don Adolfo Riddei, e poi ricoverato in ospedale con l’aiuto del dottor Luigi Leone. Il Marcocci invece in seguito catturato dai tedeschi e inserito fra gli ostaggi di Filetto, riuscì miracolosamente a salvarsi. Fra i tedeschi il ventenne soldato Ludwig Wehn, subì lo sfondamento del cranio, il sergente Adolf Schreiner di Tubinga, fu gravemente ferito al petto, gli altri  compreso Hermann  Schafer scamparono all’attacco. Il conflitto si concluse con la morte di un tedesco e il ferimento di un altro soldato e di tre partigiani. Il maresciallo Schafer con il maresciallo della sanità Goebel e l’ispettore Muller fuggirono, a bordo di una motocicletta verso Camarda, paese posto alla fine di una discesa di circa due chilometri a rotta di collo, in cerca di rinforzi, aprendosi la strada con bombe a mano, le cui schegge colpirono Fulvio Dario Facchinei alla testa, curato nell’ospedale da campo di Paganica. In un angolo angusto di tempo, arrivò l’allarme ai commilitoni di Camarda, mentre al contempo i partigiani riconquistavano i loro monti e una colonna di veicoli corazzati e autocarri tedeschi, pieni di soldati, sollevando nuvole di polvere e rabbia, risaliva la strada verso Filetto, inducendo i paesani a trovare rifugio nelle grotte dell’eremita S. Crisante. Qualcuno più anziano e meno risoluto restò in casa, come il claudicante sessantaquattrenne Ferdinando Meco che era a prendere l’acqua alla fontana, il quale venne ucciso a fucilate intorno alle ore 17 dai primi soldati giunti in paese. Intorno alle 17.30 veniva abbattuto, mentre richiudeva la porta di casa il sessantacinquenne  Antonio Palumbo, agiato proprietario terriero, che era sfollato con la famiglia nel paese della moglie, ed aveva intrattenuto amichevoli rapporti col maresciallo Schafer, il quale tornato verso le 18, insieme al caporale Ermlich, alla vista del Palumbo, morto fra le braccia dalla moglie Onorina e delle figlie Lina, Angela e Lidia, dapprima espresse commiserazione verso la vittima, poi inveì contro il sottufficiale responsabile dell’uccisione, insultandolo, minacciandolo di punizioni e gridandogli in faccia di aver assassinato inutilmente un galantuomo . Di tutta risposta, l’alto e biondo omicida, eccitato ed adirato, accusandolo di essere un collaborazionista dei partigiani, estrasse la pistola e gli sparò a bruciapelo, uccidendo anche lui. Questa versione non risulta condivisa da tutti i testimoni, alcuni dei quali riferirono invece che Schaefer morì per un colpo partito accidentalmente dal suo stesso fucile, mentre tentava di sfondare col calcio dell’arma una porta chiusa, per perquisire una abitazione. I tedeschi setacciarono il paese, perquisirono tutte le case alla ricerca di armi e di partigiani, costringendo con urla e percosse i civili italiani ad abbandonare le proprie abitazioni.

Fu il diciassettenne Mario Marcocci, la vittima più giovane dell’eccidio, il quale appena catturato   dai tedeschi, costretto a forza a caricarsi sulle spalle il cadavere dello Schafer per portarlo su un au-tomezzo militare, fu a sua volta freddamente assassinato.

Nessun computo di vite ha valore. Una vita è una vita e tutte le vite sono una vita. Escludendo il soldato tedesco Schreiner, ferito e trasportato all’ospedale militare di Barisciano, dove dopo un intervento chirurgico, morì il giorno successivo,  la sera del 7 giugno risultarono uccisi a Filetto due militari tedeschi, le cui morti  sono entrambe imputate all’azione partigiana.

Dall’Aquila, il maggior generale Hans Boelsen, nominato dal primo giugno comandante della 114^ divisione, consultatosi col suo vice, generale Rauptmann, ordinava di eseguire la rappresaglia, dando incarico al capitano ventinovenne Matthias Defregger, comandante da un paio di mesi del battaglione trasmissioni di stanza a Paganica.

Lo stesso Defregger scriverà alla vedova Schreiner: “Signora, ho il triste compito di annunciarle che suo marito è stato assassinato in un’imboscata di banditi, avvenuta in pieno giorno (…) Le comunico che mi sono recato sul posto della disgrazia per dirigere personalmente l’azione di epurazione e vendetta”.

Una trentina di uomini, quasi tutti contadini, vennero catturati, legati e radunati nell’aia principale del paese sotto la luce dei fari dei camion, mentre i bambini e le donne, che alla vista dei preparativi della fucilazione si erano messe a gridare e a gettarsi per terra, furono allontanati nella zona in località Vollanella, a circa un chilometro dal paese, sulla via per Camarda, dove furono tenuti per tutta la notte.

La notte fu fredda, come spesso lo era e lo è a quelle altitudini anche a giugno e soprattutto per quel freddo che viene da dentro e non si rassegna a nessuna brace. La luna era piena, inquisitoria, severa e lontana.

Le donne allertate da voci, entro il petto covavano la speranza che a dirimere la controversia giungesse da Paganica il capitano buono non quello nero, come vociferato dai conoscitori delle gerarchie locali tedesche.

Dopo una trepidante e snervante attesa, arrivò il temuto “capitano nero”  Defregger, che al tempo della riapertura della ferita nel 1969, molti testimoni ricordavano ancora con terrore, come una figura imponente, “invasata” entro stivali e giacca di pelle nera, che impartiva ordini spietati, urlandoli con fermezza ed agitando un frustino. Il ritardo con il quale l’ufficiale giunse al paese sembra fosse dovuto al fatto che il generale Boelsen avesse inizialmente ordinato di uccidere tutti gli abitanti e di distruggere il paese, poi che avesse invece ristretto la rappresaglia ai soli abitanti di sesso maschile e infine a soli 30 adulti maschi tra i 16 e i 60 anni. Forse il comando aveva anche preso in esame, scartandola poi, l’ipotesi di arrestare tutti gli uomini di Filetto per usarli nei lavori di fortificazione delle retrovie. Qualcuno s’adoperò nella preghiera di ottenere un ridimensionamento della rappresaglia, voci riferiscono che in nome dell’arcivescovo Confalonieri, perorò il giovane seminarista filettese Silvio Marcocci, ragazzo intelligente, figlio di un dipendente del Vaticano, che, assisteva gli ostaggi, il quale ordinato prete dopo la guerra, si spretò successivamente e andò a vivere in Venezuela.

Defregger affidò il compito al sottoposto sottotenente della 1^ compagnia  Paul Erich Ehlert, il quale chiese invano di essere esonerato per motivi morali, facendo leva sul fatto che era un teologo luterano diplomato e sgravandosi da quel fardello che passa per la sentenza visiva, incaricò a sua volta un caporale. Ecco ancora l’uomo che si illude che la responsabilità di some gravi possa diluirsi in altre coscienze? Come se un mezzìtte* di sale, bevuto con più acqua, cioè più diluito non è sempre un mezzìtte di sale. Accettare che collettivamente, senza riprovazione e sdegno si possa uccidere in guerra, anche con onore e gloria quando individualmente è abominio indegno, e come sperare che gli eventi non introitati per la vista possano acquisire lenimento.

Entro l’attonita notte, dal gruppo dei prigionieri vennero rilasciati due ragazzi di quattordici e quindici anni che furono riuniti al gruppo delle donne e bambini. 

*Mezzìtte: misura locale di capacità per granaglie

Gli altri vennero condotti in una radura a distanza ragionata di poche centinaia di metri, all’ingresso del paese. Furono messi in fila per tre lungo un muretto e falciati da tre mitragliatrici disposte per il tiro incrociato. Molti, quelli posti nelle file posteriori, non colpiti a morte, col favore del buio riuscirono a salvarsi gettandosi a precipizio lungo le scarpate, qualcuno visto, urlava implorando aggrappandosi ai fucili dei tedeschi, così restarono sul terreno altri nove morti.  Alcuni ostaggi, sebbene feriti, riuscirono a sottrarsi restando immobili e fingendosi morti, col favore delle tenebre.

Mariano Morelli, che durante l’esecuzione si dette alla fuga, fu ferito dalle pallottole che gli devastarono i polpacci, egli si finse morto, fu rivoltato sulla schiena da un tedesco e un italiano che gli dette un calcio in testa e attese la sentenza del colpo di grazia che avrebbe dovuto infliggergli il tedesco che, forse per sbagliò o per atto di clemenza sparò un colpo di rivoltella a vuoto. All’indomani Morelli fu rinvenuto ferito da alcuni abitanti, medicato sommariamente dall’allora studente in medicina Mario Cerutti e trasportato in motoretta da un coetaneo tedesco, di cui era diventato amico, un certo August, a Paganica, dove fu curato dal dottor Attilio Cerone, allora giovane che poi sarebbe stato per anni il medico condotto di Assergi, che ricordo basso, pelato, laconico e molto scrupoloso, il quale lo indirizzò all’ospedale dell’Aquila, dove fu curato per molti mesi.

Per tutta la notte continuarono a salire a Filetto camionette tedesche e continuò la caccia ai fuggiaschi, cinque di essi furono riacciuffati, costretti a trasportare in una stalla le salme degli uccisi, poi legati con funi e massacrati a loro volta con raffiche di mitraglia. Le salme dei fucilati, con qualcuno ancora moribondo, vennero ammucchiate nella stessa stalla, ricoperte di paglia, cosparse di benzina e date alle fiamme con tutta la casa. La vendetta tedesca era compiuta col sacrificio complessivo di 17 filettesi.

Caddero sotto il fuoco tedesco: Gradito Alloggia, Cesidio Altobelli, Antonio Celestini, Loreto Cialone, Pasquale Cialone, Clemente Ciampa, Raimondo Ciampa, Giovanni Gambacurta, Carlo Marcocci, Domenico Marcocci,  Luigi Marcocci (omonimo del sopravvissuto), Mario Marcocci, Tito Marcocci, Ferdinando Meco, Antonio Palumbo, Sabatino Riccitelli, Agostino Spezza.

Una delle vittime il trentaseienne Domenico Marcocci, uomo piuttosto rude, che mai aveva voluto iscriversi al partito fascista, quando i tedeschi riunirono gli uomini, reagì con un pugno inferto ad un militare tedesco, consentendo a molti compaesani di scappare approfittando del trambusto. Anch’egli tentò di scappare e nonostante ferito alle gambe, fu costretto a trasportare le salme dei compaesani uccisi e prima di dare fuoco alla stalla in cui furono portati i corpi, fu legato a un palo con le mani dietro la schiena e bruciato vivo, evidenza macabra il suo ritrovamento con le unghie di una mano letteralmente infilate dentro il palmo dell’altra, quale indice di estrema sofferenza fisica.  

Le donne piangenti e terrorizzate per ore dalle minacce di tedeschi e fascisti altoatesini, che avevano supplicato di non ucciderle e di non fare del male ai piccoli, avevano udito gli spari, poco attenuati, le urla dei familiari uccisi e inermi assisterono agli incendi delle case.  Alla fine della irricordabile giornata di violenza, un terzo delle casupole contadine, circa un terzo del paese era bruciato, nel corpo e nell’anima. Intorno alle due di notte i tedeschi lasciavano Filetto, beffeggiando le donne con frasi simili: “Dite ai vostri uomini di venirsi a scaldare”, “Vi abbiamo preparato gli arrosti per domani”. La maggior parte delle donne per paura degli incendi o di altre violenze preferì passare la notte fuori del paese.

I tedeschi, il giorno dopo tornarono a completare l’opera di distruzione e saccheggiamento, furono portati via vettovaglie e bestiame, con prontezza e collaborazione da parte di fascisti locali e furono appiccati altri incendi. Con l’intervento del parroco don Ferdinando Cinque furono evitate nuove violenze sulle persone. 

All’eccidio era presente anche qualche fascista locale, vista l’accuratezza e rapidità del rastrellamento, del saccheggio metodico, soprattutto nelle proprietà degli antifascisti, inoltre all’indomani della strage, sia sui corpi degli uccisi, sia nel prato in cui avvenne l’eccidio non furono ritrovati i portafogli delle vittime, rinvenuti vuoti nei pressi di Paganica.

Ancora dopo due giorni, quando gli scampati all’eccidio rientrarono sgomenti e atterriti al paese, ormai ridotto in macerie, videro le vittime, ancora dov’erano cadute, le quali furono rimosse solo quando fu concesso il permesso dal comando di Camarda e, per molti, a causa del fuoco, fu ardua anche l’opera di riconoscimento, benché nel cuore erano presenti tutti gli assenti.  Quando Angelo Cupillari scese dalle montagne e tornò a Filetto, rischiò di essere linciato dalla folla.

L’11 giugno del 44, sempre ad opera della 114^ Jaegerdivision, fu compiuto un altro eccidio nel paese di Onna, nella valle del fiume Aterno.

Ad Onna, dopo l’8 settembre, si era insediato un reparto di sussistenza tedesco nella villa rurale di proprietà della famiglia aquilana Pica Alfieri, dove veniva cotto il pane da inviare al fronte, ed altri edifici logistici. I nazisti avevano abbandonato il paese il 25 aprile del 1944, però per la particolare posizione geografica di Onna, divenne un luogo di sosta per i soldati in ritirata verso il nord, dopo la battaglia di Cassino e lo sfondamento della linea Gustav da parte delle truppe alleate. Ogni giorno si fermavano in paese decine di soldati della Wermacht per rifocillarsi e riprendere di notte la marcia. Nella ritirata, venivano requisiti animali e viveri. Il 2 giugno 1944, Il pomeriggio del 2 giugno quando in paese erano rimasti solo alcuni guastatori incaricati di sabotare le linee ferroviaria, elettrica e telefonica, un tedesco a cavallo ubriaco requisì un cavallo al ragazzo Mario Papola, il quale raccontò tutto al padre Silvio il quale, insieme alla moglie e alla figlia diciassettenne si recarono dai tedeschi a chiederne la restituzione, aiutati nell’intercessione dall’interprete Americo Colaianni, presso la villa Pica Alfieri dove erano stati portati. I tedeschi però non ascoltarono le loro suppliche, anzi puntarono loro le pistole. In quel frangente giunse il proprietario terriero Giovanni Ludovici detto Nino, anch’egli andato a chiedere la restituzione di una cavalla requisita. Ne nacque una violenta colluttazione e il Ludovici, benché ferito a una mano, sottrasse la pistola ad un tedesco e lo colpì a sua volta. Il tedesco restò a terra non si sa se ferito, spinto o perché ubriaco, Nino buttò la pistola e fuggì nella campagna, mentre i Papola e il Colaianni si rifugiarono nella vicina stalla dei Ludovici. Quando i tedeschi fecero irruzione nella stalla sparando, tutti riuscirono a fuggire da un’apertura posteriore, tranne la giovane diciassettenne Cristina Papola, che venne catturata perché ritenuta sorella, parente o fidanzata del giovane fuggiasco. La ragazza che, alla richiesta di indicare dove si fosse rifugiato il Ludovici, si chiuse in un mutismo fu violentata, trascinata per le vie del paese e uccisa con tre colpi di pistola al fondo della via del fiume. Ludovici andò prima a Paganica, poi cercò rifugiò in casa del possidente don Antonio Palumbo, che era stato amico del defunto padre don Carlo Ludovici, agiato proprietario terriero. Il Palumbo, che morirà pochi giorni dopo per mano dei tedeschi, gli consigliò di rifugiarsi in una casetta in montagna di sua proprietà, ma egli si recò su Monte Archetto unendosi ai partigiani della “Di Vincenzo”.

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il 7 giugno si consumerà l'eccidio dei Martiri di Filetto, quando ad Onna dopo l'assassinio di Cristina Papola, niente lasciava presagire la tragedia che, in una settimana si sarebbe consumata. 

Proprio quando gli alleati erano prossimi a L’Aquila, infatti la città sarà liberata due giorni dopo, il  13 giugno, il generale Boelsen trovò la scusa dei fatti di Onna per infliggere una punizione esemplare a coloro che si erano mostrati ostili al regime fascista. Tre camionette giunsero ad Onna nel tardo pomeriggio di domenica 11 giugno, sorprendendo gli abitanti del paese. Con i mitra spianati operarono un rastrellamento, radunando circa 30 onnesi che vennero condotti verso l’ingresso del paese, nel rione Parisse e posti a ridosso di un muro. Fu loro chiesta la consegna di Nino Ludovici, a loro dire responsabile della morte di un soldato tedesco, in cambio della liberazione degli ostaggi. Le donne del paese videro Bartolina De Paulis e Rosmunda Ludovici, madre e sorella di Nino e le additarono ai soldati nel vano tentativo di far avere loro tali informazioni, che non ebbero. L’ultimatum tedesco, con gli alleati vicini, concedeva non più di  dieci minuti.

Nel frattempo qualcuno dei prigionieri era riuscito a sottrarsi al controllo.

Le due donne e quindici degli uomini catturati furono condotti al primo piano della casa dei Ludovici in via del Fiume, oggi via dei Martiri e qui ammazzati con le mitragliette, la casa fatta saltare in aria. Non ancora soddisfatti i tedeschi, la sera fecero esplodere altre dodici case, i cui proprietari additati come ostili al regime.

Due giorni dopo si celebrarono i funerali dei Martiri e quel giorno arrivò ad Onna una pattuglia italiana della compagnia motociclisti Nembo, avanguardia delle truppe alleate dell’VIII Armata. 

Questi i morti:

Luigino Ciocca (1929), studente e cherichetto;
Zaccaria Colaianni (1906), contadino;
Renato De Felice (1910), agricoltore ed ex-soldato;
Bartolina De Paolis (1899), negoziante, madre di Giovanni Ludovici;
Ermenegildo Di Vincenzo (1906), ex-soldato;
Antonio Evangelista (1926), operaio;
Rosmunda Ludovici (1919), sorella di Giovanni Ludovici;
Giuseppe Marzolo (1915), fabbro, falegname ed ex-aviere;
Mario Marzolo (1920), carpentiere, falegname ed ex-aviere;
Alfredo Paolucci (1919), carpentiere ed ex-soldato;
Domenico Paolucci (1913), contadino ed ex-soldato;
Osvaldo Paolucci (1923), ex-soldato;
Cristina Papola (1927), studentessa;
Iginio Pezzopane (1928), studente e cherichetto;
Pasquale Pezzopane (1926), ex-soldato;
Pio Pezzopane (1927), studente;
Guadenzio Tarquini (1925), agricoltore.

Nel 2009 il borgo, epicentro del terremoto, fu raso al suolo con morti. Oggi la Germania in un gesto di riconciliazione e solidarietà, come definito dall’ambasciatore Michael Steiner ha concesso aiuti nella ricostruzione. Alla causa della ricostruzione di Onna Volkswagen ha devoluto un milione di euro; Air Dolomiti, in collaborazione con le città di Lipsia e di Halle e con il ministro dei Trasporti, dell'Edilizia e dello Sviluppo Urbano Wolfgang Tiefensee, offrirà a cento cittadini onnesi un soggiorno in Germania, per allentare la tensione di questi ultimi mesi.

Filetto ed Onna vengono quindi accumunate da una serie di coincidenze: il periodo e gli orari in cui furono compiuti gli eccidi, il reparto che se ne macchiò, il numero delle vittime 17° Filetto 17 più la povera Cristina Papola a Onna, la presenza in entrambi i paesi di un Iniziatore “responsabile” morale vilipeso dalla comunità (il Cupillari a Filetto e il Ludovici ad Onna).  Sia a Filetto che ad Onna, la morte non ha avuto motivazioni ideali, si è abbattuta ciecamente, come una catastrofe naturale, su gente inerme, estranea ai motivi scatenanti la violenza e ignara. Per questo, nei due paesi non c’è memoria nè orgoglio per l’avvenimento, forse più un rancore e deplorazione sotterranee, nei riguardi dei partigiani che disarmarono la reazione tedesca, quasi pari a quella nutrita verso gli esecutori materiali delle stragi.Gli stessi uomini della 114^ Jagerdivision, qualche giorno dopo l’eccidio di Filetto e di Onna, furono ancora responsabili della strage di 40 patrioti a Gubbio ed altri nel centro-nord Italia.

L’eccidio di Filetto assurse alle cronache mondiali per collisione delle parallele del caso, quando nel 1969, in occasione del 25° anniversario, il settimanale amburghese “Der Spiegel” rivelò che il capitano Matthias Defregger, responsabile della strage, era il vescovo ausiliare del cardinale Doepfner nella diocesi di Monaco di Baviera, ovvero il numero due della chiesa cattolica Tedesca. Fu ricostruita e circostanziata tutta la storia post-bellica di Defregger, il quale era stato promosso maggiore subito dopo la strage, sfuggito alla giustizia militare alleata, aveva completato i suoi studi di filosofia e teologia ed era stato consacrato prete nel 1949 dal cardinale Faulhaber. Nel 1961 aveva partecipato a Bad Tolz ad un raduno di reduci della 114^ Jaegerdivision con celebrazione della messa al campo; nel 1962 nominato vicario generale del cardinale Julius Doepfner; il 14 settembre 1968 elevato alla dignità episcopale da Paolo VI.

Nel 1969, per iniziativa del deputato comunista aquilano Eude Cicerone fu riaperto, presso la Procura della Repubblica dell’Aquila, il caso Defregger. Qualcuno la ventilò come di una speculazione politica comunista. Le difese di Defregger vennero prese dall’ex parroco di Filetto, all’epoca parroco di Assergi, don Demetrio Gianfrancesco. Nel 1956 era morto il maggiore responsabile gen. Boelsen e il vescovo Defregger, senza mai essere stato estradato in Italia, fu assolto in istruttoria, nel 1970 dal procuratore generale di Francoforte dott. Dietrich Rahn, con la giustificazione che aveva solo obbedito agli ordini dei superiori. Infatti la legge tedesca prescriveva dopo 25 anni il reato di “concorso in omicidio” per coloro che avevano commesso delitti su ordine dei superiori. In particolare, il procuratore concluse che “l’uccisione degli ostaggi non era stata malvagia né crudele, né stata comandata per motivi abietti”. L’unico modo di riaprire il caso ed ottenere l’estradizione in Italia sarebbe stato quello di riconsiderare i fatti di Filetto un delitto commesso “per motivi abietti” o “per bassi moventi” (vendetta, sadismo, etc., delitto per il quale la legge tedesca – all’art. 211 del codice penale – non prevede prescrizione).  Il dibattito giuridico si concentrò quindi sul problema se quella di Filetto sia stata una rappresaglia militare “esecuzione” o una strage “massacro” compiuta con particolare crudeltà; in altri termini se sia stata una uccisione o un assassinio. I sostenitori di quest’ultima tesi fecero notare che le vittime dovettero assistere per almeno sei ore ai preparativi della loro esecuzione, con enorme sofferenza morale, che la strage fu eseguita di fatto dinanzi a donne e bambini, che le salme furono bruciate insieme al paese e inoltre che i morti civili furono eccedenti rispetto all’unico tedesco effettivamente ucciso dai partigiani. Non fu fatto nulla e gli stessi filettesi si dissociarono in gran parte dall’iniziativa di Eude Cicerone. Qualcuno aderì alle iniziative di riconciliazione promosse da don Demetrio e coronate in un viaggio in Germania, durante il quale i parenti delle vittime si incontrarono col vescovo Defregger.

Benché i filettesi avessero espressero coralmente il desiderio che il capitano-monsignore venisse a Filetto, vestito da vescovo, come era diventato, ad inginocchiarsi e pregare sulle tombe delle vittime, prostrandosi pentito almeno come prete, il Monsignor capitano non venne mai, perpetrando sordamente  e con sordidezza l’eccidio.

Il vescovo Defregger morirà per cause naturali, a Monaco di Baviera all’età di 81 anni il 23 luglio  del 95. Per iniziativa di don Demetrio, il giorno 23 agosto Defregger venne ricordato a Filetto con una Messa di suffragio, anche in considerazione del fatto che alcuni filettesi, rappresentati da una  delegazione dei parenti delle vittime s’era recata a Monaco e gli avevano concesso il perdono cristiano  La cerimonia però si svolse in una chiesa quasi deserta, con tutto il paese fuori, non ancora disposto a concedere il perdono collettivo.

La guerra continuò a mietere vittime e lacerazioni anche dopo. Non pochi i morti e gli invalidi a causa di mine e ordigni militari vari, fino ai giorni della nostra infanzia, con perdita di dita di un nostro coetaneo, poco più grande.

Stoico, vivo, santo e sovrano chi benché sovrastato dalle coazioni della storia, dalle pochezze e nefandezze umane, resta con la coscienza salda tra le mani, sovrastata dalle comuni sane comprensioni,  sotto il cielo largo della sincretica giurisdizione Kantiana. E’ quanto avvenne in quei momenti di arruffata  e attonita palude esistenziale del conflitto a fuoco tra gli asserragliati nella casa del Facchinei, in via Romana e i partigiani all’esterno. In quel frangente, quando un soldato  tedesco, trovatosi fuori di tale teatro, entra in una grotta alle porte del paese, dove un certo Giuseppe Facchinei già vi aveva trovato riparo, spaventato paventa la sua fine, ma il buon Giuseppe lo invita a stare calmo e non avere paura perché non era sua intenzioni arrecargli violenza e lo invita a togliersi il cappello militare e ad indossare un cappello da contadino, indicandogli di fuggire in direzione di Camarda.

Il militare, incredulo per tale atto di clemenza, arrivato a Camarda, dove era in atto la reazione tedesca, fu costretto a risalire verso Filetto con i commilitoni, pronti per l’atto di rappresaglia e, quando vide fra le persone rastrellate, Giuseppe Facchinei, gli si avvicinò chiedendogli dove fosse la sua famiglia e dove preferiva essere portato in salvo. Giuseppe preferì Paganica. Così in qualche modo, il soldato riuscì a farlo sottrarre dagli altri rastrellati e lo fece condurre, con un mezzo militare a Paganica.

Viva gli uomini che in un mondo disumano restano uomini.  L’anno successivo alla strage nel 1945, a guerra finita, Giuseppe perse uno dei suoi ultimi figli: Clemente, bambino dodicenne, che rimase ferito a morte dallo scoppio di un ordigno bellico che aveva raccolto per gioco. Quanti anni ancora perché i bambini potessero tornare al gioco. Qualche gioco elargito nelle befane alle scuole dell’obbligo, ancora agli anni sessanta oggettivi pensieri pensati dal piano Marshal.

 

A Nord-ovest del borgo di Assergi, nella valle del Vasto, Lungo il fiume Raiale è posto il casale, masseria Cappelli, dove la storia non si si arrese, anzi vilipese la amenità del luogo. Tra le bande partigiane formatesi dopo l’8 settembre 1943, v’era il gruppo “Campo Imperatore” comandato da Giovanni Ricottilli, che aveva partecipato alle campagne militari sul fronte greco-albanese e di Russia ma che, dopo l'otto settembre 1943 aveva rivolto il fucile contro i tedeschi ed i fascisti, costituendo prima la Banda “Campo Imperatore” e poi transitò nella “Brigata Maiella”, meritandosi in combattimento la Medaglia d'Argento al Valore Militare e quale secondo il noto pugile Alfredo Vivio. Di questo gruppo facevano parte, Gaspare Santella, Alfredo Alfonsetti, Renato Franchi e Peppe Ferella capo del gruppo di Tempera, mite, di complessione minuta, che svolse la sua professione di calzolaio per una vita intera in una stanza sulla strada “ritta”, quella che conduceva alla piazza della chiesa, nel paese di Assergi, con onestà  e dedizione, indossando sempre una quasi divisa con un cappello con visiera, tanto da sembrare un folletto, uno gnomo laconico, con operosità spronata dalle ingiurie del tempo invernale che metteva a repentaglio gli scarponi trafitti da chiodoni per non rompersi l’osso del collo sul ghiaccio e le ciappette per preservarne la punta, che a noi bambini subito oggettivava le favole dei folletti e del calzolaio dei fratelli Grimm.

Il 1° maggio 1944 una squadra di partigiani aveva catturato presso Camarda due spie fasciste, che furono uccise vicino alla Piana di Fugno, sul Gran Sasso. Alfine di evitare rappresaglie, un gruppo di essi, in cui erano presenti Vivio, Luigi Bruno, Gilberto Fioredonati,  decisero di trasferirsi dal casale Cappelli, presso la Jenca, nel bosco di Chiarino. In questa operazione di spostamento sei 
partigiani, guidati da Giovanni Ricottilli, scesi per rifornimenti ad Assergi, essendosi attardati, al ritorno decisero, prima della nuova soma di strada di riposarsi e pernottare al casale. Gli altri erano Dante Carosi, Aurelio Mascaretti, Giovanni Vicenzo di Sepino di Campobasso e due slavi, Basekic e Badonic. Poco dopo la mezzanotte venero circondati da un centinaio di repubblichini e tedeschi che con corde e scale, presero d’assalto il casale. Il primo che venne assalito fu Giovanni Vicenzo che era di guardia, il quale riuscì a dare l’allarme, così ne nacque un furibondo scontro armato, nel quale rimase ucciso il Vincenzo, colpito da una bomba a mano. Intorno le tre di notte, tentarono di fuggire, ma solo il Ricottilli vi riuscì, precipitandosi a valle verso il fiume. Tutti gli altri vennero catturati e  condannati a morte, furono condotti a L’Aquila al carcere di S. Domenico. Gli slavi furono subito impiccati, gli altri invece riuscirono ad evadere il 10 giugno.
In onore del caduto, la banda, che si ingrandì nel tempo fino ad includere circa 150 uomini, preva-lentemente comunisti e socialisti, assunse il nome di “Banda Patrioti Giovanni Di Vincenzo” stor-piando il cognome del compagno, che operò, divisa nei due gruppi autonomi denominati “Campo Imperatore” e “Arischia” arricchita da russi, slavi e un inglese. Tra il gruppo “Arischia” combattè anche il folignate Mario Tradardi, sostituto procuratore dell’Aquila, in seguito comandante della 2a Compagnia del Gruppo Patrioti della Maiella, morto a Brisighella (RA) nel dicembre successivo.

Nel maggio 1944 nella “Di Vincenzo” si aggiunse, dal CLN di Roma il monarchico e badogliano Aldo Rasero, maggiore degli alpini, incaricato di coordinare le bande aquilane.
Per questo nuovo gnommero del caso, soggezione concale al dominio deterministico del non affrancamento umano, si contarono altre vite recise e sono: Giovanni Vincenzo, caduto in combattimento Giovanni Antonelli, nove fucilati e sei feriti. Come racconta il pastore Angelo Spagnoli che allora aveva 13 anni, il padre Angelo, contravvenendo agli ordini, corse al Casale Cappelli e trovò Giovanni Vincenzo dilaniato, coperto di sangue, senza un braccio, che riconobbe dalla sbrindellata camicia a righe verdi che indossava la sera precedente quando aveva cenato con loro, presente Tatà, alla casetta di San Pietro del Vasto, dove molti anni dopo, il 14 luglio 2003, nel suo stazzo, vicino alla chiesetta della Jenca incontrerà, il papa Giovanni Paolo II, che per perdersi e ritrovare, tra gli affanni dottrinali aveva in quei luoghi cercato, rarefazione dal bordone rumorale, precipitazione colloidale del silenzio e distensione agostiniana al suo tempo. La sera di quella cena qualcuno, due paesani di Camarda avevano notato Giovanni Vincenzo, a casa dei Spagnoli in San Pietro della Jenca e riferendolo li consegnarono  ai fascisti e nazisti. La mattina seguente il casale  Cappelli al Vasto, che era composto dalla stalla e pagliaio al piano inferiore, due stanze al piano superiore, una camera e una cucina, fumigava ancora.

Tre righe di sangue segnavano il muro di una stanza del piano superiore, ancora impresse per trent'anni e forse sempre, con il tempo arreso, che non seppe fare altro che acuirne il rancore ruginoso, rendendole scure e nere. Fuori il Casale v’erano molte bombe a mano inesplose e cartucce per moschetti. Il corpo del partigiano Giovanni Vincenzo rimase lì per una trentina di giorni, prima al piano superiore poi calato, da un uomo di Aragno che all'epoca teneva il Casale, giù alla stalla. Solo a liberazione avvenuta i partigiani recuperarono i resti del Vicenzo che furono tumulati nel cimitero di Assergi, dove il giovane partigiano riposa ancora. Erano in sei, quella notte, quattro catturati. Riccottilli che riuscì a scappare tornò al Casale, sessant'anni dopo ed era un vecchietto arzillo, quando raccontò come era fuggito a valle e poi valicando colli, raggiunto Collebrincioni, raccontò come, lanciando una pistola in faccia ad un fascista che presidiava la porta d'ingresso, riuscì a scappare.

"Giovanni Di Vincenzo, con cuore italiano e fede purissima di partigiano, asserragliato in questa casa unitamente a cinque compagni, stretto da vicino dalle orde nazifasciste, alla resa disonorante preferiva la resistenza ed il supremo sacrificio. 5 maggio 1944". Questa lapide hanno apposto i partigiani dell’Aquila, sulle mura del casale il 14 giugno 1944.



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