ITALO ACITELLI, MIO PADRE - KIRK DOUGLAS, ATTORE - PENELOPE FITZGERALD, SCRITTRICE

ITALO ACITELLI, MIO PADRE
KIRK DOUGLAS, ATTORE
PENELOPE FITZGERALD, SCRITTRICE

 

- di Fernando Acitelli -

Si potrebbe subito pensare: «Ma cosa c’entra mio padre con un attore americano e una scrittrice inglese?» La risposta è semplice, hanno in comune l’anno di nascita ed il mese. Ricognizione casuale effettuata in diversi momenti ma a me favorevole. È sempre lo stesso procedimento usato per tutti coloro che, entrati nella mia orbita, devono essere studiati. Quando s’è vicini a qualcuno, come nascita o come morte, è come se fossimo meno soli e questo è ancora più vero per i nostri cari. Gli costruiamo attorno un sentimento ma alla fine esso serve come consolazione a noi. Nel caso in questione un film visto al cinema in tempi memorabili, Spartacus, mi provocò la curiosità di sapere quando era nato il protagonista Kirk Douglas. L’interesse per Penelope Fitzgerald nacque in seguito ad alcuni libri letti. Vedere le date di nascita e di morte è sempre stata una mia disposizione d’animo.

 

Tutto si concretizzò in una settimana di quell’anno, poco più. Il primo a nascere fu Kirk Douglas, che vide la luce il 9 dicembre. L’evento inglese di Penelope Fitzgerald accadde il giorno 17, mentre mio padre sbocciò al mondo ad Assergi, nella casa di Francesco Acitelli, in via del Colle, 14, ed era il giorno 18. Mio nonno Alfonso era al fronte e dunque non partecipò a quell’evento. Si racconta che mia nonna Teresa, assistita dalla levatrice Franceschina, sospirò una volta riconquistata la quiete: «Guardame se tè tutt fatt bone». La risposta di Franceschina non tardò a venire: sì, mio padre/cucciolo aveva tutto fatto bene e dunque mia nonna Teresa poteva stare tranquilla. Ma era il nascere d’inverno che dava da pensare perché si poteva contare soltanto sul calore del camino se si stava in cucina e poi sullo scaldaletto, sul “prete” come veniva chiamato. In più c’era da fare i conti con la neve, con la strina, le beferine e così non doveva essere proprio allegro sbocciare al mondo nel mese di dicembre. Ma tante generazioni nacquero in quella stagione, e, a dire il vero, in quel triennio 1915-18 la preoccupazione più grande – al di là delle stagioni – fu per chi stava al fronte, a combattere contro gli elmi chiodati degli Imperi Centrali, tra il Piave e l’Isonzo. Naturalmente anche Assergi pagò il suo tributo di sangue.

 

Dunque quando mio padre nacque, Kirk Douglas aveva già nove giorni e non era ancora possibile vedergli sul mento, come segno caratteristico, quel piccolo avvallamento o fossetta che quando si diventa grandi attira irresistibilmente gli occhi altrui. Era nato ad Amsterdam, cittadina nello stato di New York, e dopo le tante stagioni dei giochi riservate al bambino sentì crescere forte il richiamo dell’arte. E come funziona sempre in America c’è una scuola che provvede all’insegnamento – in questo caso un’accademia - e poi segue chi ha veramente il sacro fuoco dentro di sé. Dopo la laurea in lettere e il diploma all’accademia d’arte drammatica, Kirk Douglas raggiunse i fronti della Seconda Guerra mondiale, del resto quella era la generazione. La U.S. Navy fu il suo scenario. Egli dunque è nella marina e cerchiamo così d’immaginare il futuro Kirk Douglas (che all’epoca del conflitto mondiale si chiamava ancora Issur Danielovitch, essendo di origini bielorusse) con il gabbano blu d’ordinanza, i pantaloni un poco svasati e poi quella sua chioma dorata. Non è un tipo alla Querelle de Brest, il protagonista del romanzo di Jean Genet, ma un testone yankee che combatte sempre per le cause giuste. Chissà se durante le manovre – a terra o sull’oceano - abbia confidato ai suoi compagni d’avventura, nei pochi momenti di quiete, i progetti che ha in mente, non scherzandoci sopra perché, almeno come figura, può dire la sua come attore: è imponente e poi, come si dice, è un tipo che “buca lo schermo”.

 

È subito dopo la fine della guerra che inizia la sua carriera, prima in teatro e poi davanti la macchina da presa ed è un’ascesa continua con registi di prim’ordine, da Billy Wilder a William Wyler a Vincent Minnelli ad Elia Kazan fino ad un giovane talento come Stanley Kubrick, che lo dirigerà in Orizzonti di Gloria e Spartacus. Il resto è storia, e dunque il figlio Micheal, attore notevole, e poi la notizia che Kirk Douglas ha raggiunto i 103 anni, congedandosi dal mondo nel 2020.

 

Il pretesto narrativo è che l’attore, la scrittrice e mio padre compaiono sulla Terra a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro, in quel magico dicembre del 1916. È questo il collante che tiene in piedi queste esistenze e anche il mio progetto che, se si distingue per il sogno, ha però una forte carica di sentimento. Anche questi amici avranno idealizzato quel dicembre innalzando così il segno del Sagittario e poi avranno sempre pensato al proprio compleanno già molto prima che s’avvicini; e forse già alla fine dell’estate puntavano l’occhio e l’animo verso il mese che contiene il Natale. E così accade che pensando a mio padre io dedichi qualche istante anche agli altri due personaggi ma può anche succedere che, mentre  vedo un film con Kirk Douglas, io rifletta sul mio genitore; e ancora, finendo in libreria, all’apparire su uno scaffale del nome di Penelope Fitzgerald finisca di nuovo su mio padre e perché no, anche sull’interprete del film Spartacus. E insomma, si tratta di sublimi divagazioni, di trastulli.

 

Penelope Fitzgerald nacque in Inghilterra, nella cittadina di Lincoln, l’antica Lindum che era una colonia romana della Britannia settentrionale. Iniziò a scrivere tardi, a sessant’anni, quando le immagini archiviate e i giorni accumulati erano indubbiamente tanti. Proprio i vissuti interiorizzati chiedevano d’essere raccontati e ad essi Penelope si riferì in alcuni suoi romanzi. Aveva studiato a Oxford, s’era laureata nel 1938, aveva lavorato per la BBC durante la guerra e poi conosciuto il lavoro in una libreria; aveva inoltre vissuto in una chiatta, un house boat, sul Tamigi. Ecco, già dalle immagini che questi luoghi evocano c’è materia narrativa e dunque non stupisce che, ad esempio, abbia ricevuto il prestigioso premio Booker Prize per il romanzo La casa sull’acqua. Il suo lavoro in una libreria a Southwold, nel Suffolk, le consentirà successivamente di scrivere il suo romanzo migliore (questo a detta della critica), vale a dire La biblioteca. Inoltre al poeta tedesco Novalis dedicherà il romanzo Il fiore azzurro. Già queste tre prove narrative sono a me sufficienti per sentire la scrittrice inglese a me vicina, del resto dei tre romanzi appena citati mi piacciono i luoghi e le avventure che vi sono narrate: vivere su una chiatta può significare tante cose e forse la più importante è l’assenza di un condominio e di condomini. Certamente l’umidità del fiume prima o poi presenterà il conto ma se si pensa alla quiete e all’assenza di grida e altri rumori non si può che ritenere giusta quella scelta. Quanto a lavorare in una libreria si può dire che Penelope Fitzgerald è stata fortunata e m’immagino quel suo luogo di lavoro come quello che si ammira nel film Adele H. di Truffaut, un vero scrigno quella libreria, posto sommo dove rifugiarsi per avvertire quel tepore interno che scalda le esistenze e dona speranza. Ma erano altri tempi, dolorosi e romantici, e si scriveva ancora intingendo il pennino nel calamaio. Quanto al romanzo per il poeta Novalis, Il fiore azzurro, mi pare che sia tutto chiaro. Da uno spirito lirico come Penelope Fitzgerald non ci si poteva aspettare altro che un tuffo nella poesia.

 

È più facile parlare degli altri che dei propri genitori. Il sano distacco che c’è nei confronti di persone che abbiamo incontrato nell’arte – nello spettacolo, nella letteratura – ci consente una più disinvolta narrazione. Posso dunque far brillare il giorno 18 dicembre per mio padre ma delineare la traiettoria della sua vita è impresa ardua perché sarebbe materia per un romanzo e difficilmente si potrebbe riassumere un profilo in una manciata di righe. Dunque: nascita in via del Colle 14, successivo spostamento nella casa chiamata di Milord, alla Pisterola, nascita del fratello Fernando nell’ottobre del 1919, morte del padre a Roma nel giugno del 1924, spostamento a Roma e inizio d’una vita senza un genitore. La scuola, il gioco del calcio, una lieve spensieratezza malgrado l’atmosfera che si respira. La fase più spensierata è quella dell’adolescenza e della prima giovinezza, è lui che diventa il capofamiglia e, terminati gli studi, inizia a lavorare. Ma c’è la visita militare e così si presenta al distretto che si trova al Castro Pretorio: è tutto vestito come un signorino credendo che la questione si possa risolvere in una mattinata ed invece rimane lì per tre giorni dormendo alla meglio (mio padre riferì nel fieno) insieme a tutti gli altri ragazzi convocati. Poi l’avventura militare e così la ferma che non durava dodici mesi ma quasi due anni. Destinazione Civitavecchia, reparto “Genova Cavalleria”, con campi ad Oriolo Romano e Avezzano. Terminato il militare torna a casa ma siamo già nel 1940; non fa in tempo a riorganizzare un po’ la vita, a sentirsi lievemente spensierato che scoppia la guerra. Destinazioni: Trieste, Balcani quindi Africa Settentrionale. Spostamento dall’aeroporto di Castelvetrano fino in Africa. Fatto prigioniero a Tunisi l’11 maggio del 1943 e da lì condotto a Casablanca dove rimarrà per circa un mese. Successiva partenza per gli Stati Uniti sulla nave Liberty Ship con tutti i prigionieri di guerra. Arrivo a New York e proprio lì apprende che Roma è stata bombardata dalle truppe alleate. Tutti i prigionieri vengono condotti in predisposti hangar per le operazioni di disinfezione e allora la scena sarà questa: ogni prigioniero nudo e degli addetti americani che, provvisti di una macchina a spruzzo a similitudine di quella che serve che dare l’acqua ramata alle viti, cospargono quei corpi con sostanze atte ad una purificazione che è scientifica e non metafisica. Un paio di giorni a New York e quindi spostamento in treno fino nel New Mexico, praticamente dalla costa orientale a quella occidentale degli Stati Uniti: tre giorni in treno. Il primo campo del suo essere PRISONER OF WAR sarà quello di Lordsburg appunto nel Nuovo Messico, dove rimarrà per circa sei mesi; da lì a Hereford, Texas, nel Campo dei “Non Collaboratori”. E qui vi saranno personaggi che diverranno famosi in Italia al termine delle ostilità, come il pittore Alberto Burri, artista di statura internazionale, il giornalista Gaetano Tumiati, e il giudice Dante Troisi, il primo in Italia ad inoltrarsi nella Letteratura con il romanzo Diario di un giudice.

 

Esisteva una disposizione secondo la quale chiunque tra i prigionieri avesse un parente sul suolo americano poteva avviare le pratiche per uscire dal campo di concentramento. Mio padre aveva lo zio Ascanio, che era il fratello del padre e sposato con Elisabetta Acitelli. Costui, insieme alla moglie, si spostò da Detroit fino al campo di concentramento di Lordsburg, nel New Mexico, per andare a far visita al nipote ma mio padre rifiutò di avviare le pratiche per uscire dal campo di concentramento perché intendeva rimanere con i suoi compagni di sventura. Lo zio Ascanio non la prese bene e nelle volte che si videro dopo la guerra glielo ricordava sempre. Ma lo “zio d’America” non capiva proprio perché non aveva fatto la guerra. Bisogna essere stati sotto le bombe per comprendere cosa significa l’amico che ti sta vicino in quei momenti. E comunque, dopo tre anni di campo di concentramento, mio padre torna in Italia ed è il  marzo del 1946: parte con la nave Marine Tiger da Long Beach, attraversando il Canale di Panama e sbarcando a Napoli, città polverizzata dalle bombe anglo-americane. Il resto è contemporaneità: conosce mia madre Domenica Giusti nel settembre del 1946 e forma la famiglia. Ci ha consentito di studiare, ci ha insegnato a rispettare il prossimo: avere genitori del genere è stata una fortuna. E, a proposito di fortuna, mio padre, rivolto a mia madre, aveva sempre ripetuto: «Nella vita sono stato sfortunato ma l’unica, grande fortuna, è stata conoscere te». Credo possa bastare.

FERNANDO ACITELLI

 

P. S. Certamente, con la vita avventurosa e con dieci anni regalati alla patria, mio padre avrebbe potuto narrare tutte quelle vicende. È facile per me dire che io al suo posto avrei composto una trilogia come Céline, Il castello dei rifugiati Nord - Rigodon, ma lui era un delicato, un elegante d’animo, un inoffensivo, un uomo che voleva soltanto vivere in pace.



Condividi

    



Commenta L'Articolo