BREVE STORIA DELLA FAMIGLIA IPPOLITI

 E il Paradiso? Esiste un paradiso?

Credo di sì, signora, ma i vini dolci

 non li vuol più nessuno”

Eugenio Montale

                                                                                                                              - di Fernando Acitelli -

 

M’avvalgo di quei pochi ricordi che però possono costituire un piccolo affresco di modo che s’abbia l’illusione che anche chi ci ha lasciati viva ancora tra noi. È il caso di Pino Ippoliti, scomparso pochi giorni fa, una persona buona, sempre disposta al saluto, sorridente, mai rancorosa e non credo che lui si sia mai potuto arrabbiare in famiglia. Del resto il suo aspetto bohemien, unitamente alla sua andatura, ne facevano un tipo difficilmente assimilabile negli ingranaggi burocratici; in verità sarebbe andato bene in una soffitta di Parigi all’inizio del XX secolo, in quell’atmosfera “maledetta” in cui si conviveva tra pittori e poeti, tra Picasso, Utrillo, Modigliani, De Chirico, Paul Éluard. Peccato che non si sia risolto a tanto, negli anni ’40 era ancora possibile salutare tutti ed immolarsi all’arte con direzione Parigi. Del resto, anche il fratello Aldo era versato in atmosfere fuori dell’ordinario, di fuga dal consueto, dal già detto, e la sua era un’ansia conoscitiva ad ampio raggio. In particolare ricordo che in un tardo agosto di cui l’anno però mi sfugge, venendo ad Assergi, Aldo aveva raccontato le sue avventure sulla fortezza inca del Machu Picchu e osservazioni ravvicinate del lago Titicaca. Dunque altri paesaggi, altri scenari, altri modi di relazionarsi col mondo. Ma tornando a Pino: era una persona alla quale non sembrava bastasse la realtà e che in quelle regioni “surreali” che gli erano proprie e che incarnava potesse trovare più sopportabile la vita. E questo che penso, credo abbia delle valide ragioni: vi sono persone che cercano di scovare nel reale e dunque anche negli individui tutt’intorno, l’interpretazione del mondo e queste persone posseggono quella “scintilla” che li può certamente far vivere male ma che segna comunque a loro favore una distinzione. Ricordo che transitare sotto la loro casa, di fronte a quel luogo con arco che la tradizione popolare segnala come “Le scale della vecchia”, significava anche ascoltare un quieto borbottare e se Pino faceva delle precisazioni ad alta voce su una determinata questione, ecco che la moglie Laura sembrava approvarle aggiungendovi però delle sottolineature che alla fine risultavano azzeccate e vincenti e allora la rotta da seguire era quella e difficilmente Pino contrastava quella posizione. Da tener presente, comunque, che si trattava di mie suggestioni e non è detto che le sensazioni colte “al volo” avessero un fondamento, del resto ce lo avevano insegnato i Greci, un conto è l’opinione (la doxa) e un altro è il dato certo (l’episteme). Ma a me andava bene così, almeno sfilando là davanti sentivo una dialettica colorita, “ad alta voce”, sotto certi aspetti “scanzonata” e sembrava che in quella casa la scansione del tempo fosse meno feroce. Quando Pino m’incontrava, era subito a domandarmi: «Allora Nando, tutto bene?» e poteva indossare bermuda, maglietta e sandali e certamente era impegnato in qualcosa. Credo di ricordare l’ultima volta che lo vidi: usciva da quel cancello situato tra la fontana della Porte del Colle e la casa di Vittoria. Sorridente come sempre, gli lessi nello sguardo una spensieratezza che mi lasciò contento. Mi ricordo anche che non doveva essere un grande fautore della cravatta e le rare volte che l’incontrai con giacca, camicia e, appunto, cravatta, non mi sembrava lui e mi pareva che soffrisse per quel nodo di seta colorata al collo.

Quanto a Marco, Roberto e Marcello, il mio ricordo si lega ad estati spensierate, almeno fino a quando Marcello, adolescente, vispo, intelligente, accorto, riflessivo, fu tra noi. Se ne andava in giro con la sua aria trasognata, da giovane poeta, con quella chioma che era molto più che bionda, sfiorava il bianco, e a me dava l’impressione d’una tonalità da principino danese.

Marco, biondo anch’esso come Marcello, aveva dei sani principi ed era il primo ad intervenire quando qualcosa non gli garbava. Era veramente il fratello maggiore, il vicario di Pino quando s’era in compagnia; chiariva subito i punti che non gli erano chiari in una certa conversazione. Se non ricordo male, poteva giocare a calcio in più ruoli nelle squadre che componevamo nei campetti già prima di quello sommo della Cogefar.

Roberto era il secondo figlio e aveva tutto lo sguardo della madre. Era un po’ bizzarro, un anticonformista rivedibile, critico ad oltranza di tutto quello che non rientrava nei suoi parametri estetici. S’è detto bizzarro, e lo era veramente se una volta mi raccontò che per meglio pettinarsi, per far sì che la riga al centro gli venisse perfetta aveva escogitato un modo secondo lui spettacolare, e cioè andare sul motorino appena dopo aver passato l’asciugamano sui capelli bagnati. Dopo quel giro, alla maniera di Nanni Moretti, l’acconciatura sarebbe stata fenomenale. Di sera era solito dire: «La sigaretta, a quest’ora è un’amica…» E, dopo questa sua dichiarazione di poetica, mi spiegava le qualità della macchina fotografica dello zio Aldo, la fenomenale Hasselblad.

Della sorella di Pino e Aldo, Annamaria, ho un ricordo che non può andare oltre la sua presenza ad Assergi nel periodo estivo ma, seppure con queste mie lacune, riuscivo a cogliere il suo sorriso e ne ricordo ancora la voce squillante.

Quanto alla signora Laura, c’è da ricordare la sua educazione, il sorriso ed i suoi modi gentili di cui potei rendermi conto anche quando fui invitato a pranzo diverse volte, per lo più nell’estate del ’79, su quella terrazza che ad agosto era un piccolo belvedere nel cuore di Assergi.



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