IL MULINO DELLA NONNA - di Angelo De Angelis

IL MULINO DELLA NONNA

- di Angelo De Angelis -


Eravamo giovanetti innamorati quando dalle sue labbra sentii uscire i primi racconti sul Mulino. Erano ricordi che nella sua mente occupavano l’angolo del mito, delle spensierate giornate all’aria aperta di lei bambina che accompagnava i genitori in campagna. Le corse sui prati insieme al fratellino mai diventato adulto, i piedi bagnati nell’acqua del fiume, ceste piene di gamberi pescati con le mani, il profumo dell’erba verde, il fruscio dell’acqua che pigramente scorreva lungo la pianura, il cocomero immerso nella fredda acqua dell’Aterno legato ad un ramo d’albero sulla sponda per tenerlo al fresco… e poi tante persone trasportate sul cassone del camioncino che aiutavano nei lavori dei campi, il pranzo di mezzogiorno con le sagnette ammassate e tagliate a mano, cotte sulle fornacelle a legna del cucinone posto all’interno del Mulino.
Il camioncino, veicolo che nei ricordi di quel periodo è sempre associato al mulino: un vecchio camioncino Fiat 615, comprato usato dal padre; aveva la sua stessa età: entrambi nati nel 1955. Una piccola cabina con un’unica larga panca che accoglieva all’interno tre posti affiancati, anzi “due posti più uno”, con quel più uno aggiunto in fretta ed in maniera furtiva a penna da suo padre sul libretto di circolazione, per evitare la multa della polizia stradale che li aveva fermati per un controllo al Cermone.
Dopo alcuni mesi da quei primi racconti tra giovani innamorati, il Mulino, i prati, il fiume, il camioncino, ed anche suo padre, sua madre, nonna Apollonia ed il paese di Barete entrarono nella mia vita.
I racconti legati al Mulino non si affievolirono, non svanirono tra la bruma della vita quotidiana, ma acquistarono nuovo vigore, nuovo impeto e nuove voci si aggiunsero a quella di Lorenza, narrando il lavoro, le speranze, le gioie, i dolori, le tragedie che intorno a quel Mulino si sono generate, generazione dopo generazione.
Arriva una cartella esattoriale per il pagamento di una tassa per la derivazione delle acque. E’ riferita al Comune di Barete, è riferita al Mulino. Chiesi cosa fosse: era la tassa dovuta per l’utilizzo dell’acqua del fiume per far girare le macine.
Quelle macine ormai non giravano più da anni, da quando una grande tragedia si compì davanti al Mulino; alcune macine furono tolte e trasportate, al traino di una coppia di mucche, fino in paese dove nelle intenzioni doveva allestirsi un nuovo, più moderno mulino alimentato ad elettricità anziché ad acqua, ma quel progetto non trovò mai compimento.
Prendo la cartella ed inizio il giro per Enti: Comune, Provincia, Regione. Approdo al Genio Civile e mi dicono cosa fare per azzerare quella tassa che non aveva più motivo di essere. Poi trovo, nei vecchi archivi, una sorpresa. Il progetto del Mulino: porta la data del 1885 ed è stato redatto dall’ingegnere civile ed architetto Giuseppe Inverardi di Aquila.
Giallorenzo Pasqualucci era un funzionario regio addetto alla riscossione della tassa sul macinato. Lavorava ad Avezzano e per lavoro girava per i mulini di tutta la Marsica. Osservava, faceva inventari del grano presente e delle farine giornalmente lavorate. Vestiva sempre elegante, con la giacca nera lunga fino a mezza coscia, pantaloni stirati, scarpe lucide e l’immancabile cappello che dalla forma a cilindro si stava, per moda, lentamente trasformando in bombetta. Quando usciva dai mulini i suoi abiti neri sembravano essersi trasformati in abiti di un fantasma, con un’aura di polvere finissima bianca che ad ogni movimento, ad ogni sternuto, ad ogni alito di vento, si staccava dalle vesti e iniziava a svolazzare nell’aria.
L’esperienza maturata in tanti anni di attento esame dei conti e della tecnica di lavorazione del grano portarono Giallorenzo, che era ormai uomo maturo, a  realizzare un sogno che da tanto gli frullava per la testa. Vide un terreno in vendita che si trovava lungo il fiume Aterno, a due passi da Barete, suo luogo di origine, si innamorò del posto come anni prima si era innamorato di una ragazza che pure in quel paese era nata e che lo aveva seguito ad Avezzano. Nacque così il progetto che mi ritrovai tra le mani in quella calda mattina di oltre quarant’anni fa, un progetto che titolava orgogliosamente “Mulino Pasqualucci”.
Venne il momento di visitare e ammirare il Mulino. Era molto tempo che mio suocero non vi si recava; mi chiese di accompagnarlo.
Una costruzione semplice e suggestiva, a forma di parallelepipedo con muri di pietre ben squadrate e tenute insieme da un’ottima malta di calce. Mura solide, perfettamente allineate. Si leggeva chiaramente su di esse la maestria degli esecutori, che certo dovevano rappresentare il meglio tra quelli che all’epoca praticavano l’antica arte dei mastri costruttori.
Quattro piani di costruzione. Il più alto, sottotetto, era occupato dalla piccionaia, dove migliaia di piccioni avevano trovato riparo, fornendo agli occupanti del Mulino carni in abbondanza. Poi, con l’abbandono, divenne sicuro riparo per i volatili.
Sotto si trovavano le camere da letto, utilizzate dai proprietari e dai lavoranti.
Al piano inferiore, rialzato di poco rispetto al terreno, trovava posto la cucina. Dietro la cucina, la sala con le macine, due fisse a terra, due che giravano mosse dalla sottostante turbina azionata dal fluire dell’acqua del fiume. Sopra le macine le tramogge in legno dove, con l’aiuto di una gru a braccio girevole anch’essa di legno, venivano svuotati sacchi e sacchi di grano.
Il piano seminterrato era quello più solido e meglio costruito. Doveva resitere alle vibrazioni delle macine, al lento ma instancabile fluire dell’acqua, all’umidità che l’acqua lasciava dietro di se. La cantina era umida, muffita, Impossibile conservarci derrate alimentari, così divenne ripostiglio dove nascondere cose che non servivano più.
Oltre la cantina una meraviglia: la sala macchine dove ancora riusciva a distinguersi ciò che restava del RITRECINE, la ruota di legno che accoglieva a sé l’acqua che dalla RAFFOTA si incanalava veloce all’interno di una condotta ripida e che dava alla ruota idraulica la spinta necessaria per far girare la macina che stava al piano superiore. C’erano due ruote idrauliche con due sovrastanti coppie di macine in grado di lavorare contemporaneamente. L’acqua, dopo aver ceduto ai retreceni l’energia acquisita, sfociava placida nello SCERTO, un laghetto collegato al fiume da un breve canale lastricato di pietre.
Erano ben visibili  sul terreno i segni del CANALE che dal fiume portava l’acqua alla raffota ed era ancora presente la DIGA, munita di una CHIUSA che, azionata a mano, consentiva al momento opportuno di deviare l’acqua del fiume verso il Mulino.
Nell’aria un odore di antico, di vita interrotta improvvisamente, di strane presenze che aleggiavano intorno alla costruzione. Qualche lavoro di manutenzione da fare, come il ripristino di una piattabanda di finestra il cui crollo imminente avrebbe rovinato anche parte del tetto.
Infissi divelti da visitatori notturni inquieti che li hanno poi utilizzati per accendere un fuoco. Gradini di pietra lavorata portati via e riutilizzati in chissà quale nuova casa. Un’aria di abbandono che però conferiva a quel posto un’atmosfera dolce, romantica, d’altri tempi… se non fosse stato per le quelle strane, oscure presenze.
Siamo in piena “Belle Epoque”, si prospetta un periodo di grande ottimismo ed il ventesimo secolo si preannuncia pieno di benessere, di novità tecnologiche come il cinema, l’illuminazione elettrica, la radio, il vaccino per la tubercolosi, i raggi X; le automobili cominciano a percorrere le polverose strade del mondo, aeroplani cominciano a solcare i cieli; larghe fette di popolazione vedono a portata di mano un grande miglioramento della qualità della vita.
E’ il 1913; Giallorenzo si è ritirato dal lavoro già da qualche anno. Ha realizzato il suo sogno e vede quel sogno fiorire grazie al lavoro del figlio Remo, ormai adulto, che gestisce in autonomia l’opificio. In quell’anno Giallorenzo muore. Remo sposa Apollonia, anch’essa di Barete; nel 1915 nasce Lorenzo. La vita si rinnova e si rinnova anche nel nome; ad un dolore segue la gioia per una nuova vita che inizia la sua avventura terrena.
Ma presto i sogni di un mondo migliore subiscono il tracollo ed il ventesimo secolo diviene il “secolo breve”, il secolo durante il quale la belva umana si scatena con tutta la sua cattiveria che presto sconvolgerà la vita di milioni di persone in tutto il mondo.
E’ il 28 giugno 2014: a Sarajevo viene ucciso l’Arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono d’Austria – Ungheria e sua moglie Sofia. Il precario equilibrio politico degli stati europei subisce una forte spallata.
Scoppia la grande guerra e l’Italia, dopo un iniziale tentennamento, vuole fare la sua parte nello scacchiere europeo: un’inutile strage di uomini, di risorse e di ricchezze si consuma sul fronte italiano, nelle tre Venezie ed anche nel resto d’Europa e dell’estremo Oriente. Il dramma si diffonde in maniera capillare in tutte le città, in tutti i paesi, fino ai più remoti casali delle nostre campagne e delle nostre montagne. C’è mobilitazione generale; decine di ragazzi di Barete non torneranno più alle loro case.
Remo parte anche lui: arriva la cartolina ed il dramma, la paura, piombano su quell’isola laboriosa e felice che era il Mulino sul fiume Aterno. Torna per brevi periodi di licenza e l’incertezza per il domani viene esorcizzata scommettendo sul futuro: nel dicembre 1917 nasce Lucia, mia suocera.
Arriva il 4 novembre del 1918; la battaglia di Vittorio Veneto pone fine all’inutile strage: la guerra finisce.
Remo torna al suo Mulino, dove la vita laboriosa non è cambiata e non si è mai interrotta. I due bambini Lorenzo e Lucia limitano Apollonia nel lavoro, che Remo con orgoglio e dedizione comunque riesce a portare avanti da solo. Apollonia ha le mani d’oro: tesse, ricama, lavora al tombolo, taglia e cuce i vestiti suoi, del marito e dei suoi figli… e sta per nascere un terzo erede.
Si sa: in quegli anni in cui il lavoro manuale era prevalente su quello intellettuale, i figli erano la benedizione del cielo, erano l’investimento per il futuro, erano l’assicurazione per la vecchiaia, la pensione e l’assistenza per quando il peso degli anni non avrebbe più consentito di lavorare. Ma anche allora i figli non erano un semplice strumento di lavoro e sostentamento futuro; erano le tenere creature che come oggi catalizzavano emozioni e amore, erano gli uomini e le donne in erba da accudire, da coccolare, da educare alla vita.
Il Mulino sembrava benedetto dal cielo, era centro di laboriosità, era un punto di riferimento per il paese; il luogo dove tutti dovevano andare per trasformare il grano in farina, dove tutti respiravano con gusto la sottile polvere bianca che aveva il sapore, l’odore delle proprie fatiche e del proprio sostentamento.
Un luogo benedetto dal cielo…
La fine della guerra porta la pace, ma anche un pesante fardello che tanti soldati, tornati a casa, distribuiscono a piene mani ai genitori, alle mogli, ai figli, ai fratelli, agli amici: un morbo subdolo, potente, invisibile che ancora oggi fa paura: la Spagnola.
Fu un disastro a livello mondiale. Fece più morti il terribile morbo che la guerra stessa, che pure era stata tanto cruenta, quanto una guerra, da che uomo è uomo, non era mai stata. Ancora oggi non si sa quanti dovettero soccombere alla malattia, forse cinquanta milioni di anime, forse cento milioni.
Il Mulino era isolato dal paese, vicino al fiume, ma era frequentato da tante persone e qualcuno portò il morbo e la morte. Remo, all’età di soli 38 anni, fu portato via dopo qualche giorno di febbri alte e di delirio, lasciando Apollonia con i due figli da accudire ed uno ancora in grembo, con una pesante attività economica che per qualche tempo dovette essere interrotta.
Ma Apollonia non si perde d’animo e fa diventare mestiere la sua abilità nel cucire, ricamare, fare merletti all’uncinetto ed al tombolo. Nella sua grande casa di Barete istituisce una scuola di taglio e di cucito, di tombolo e di ricamo: le ragazze bene del paese e dei paesi vicini sono accolte ed a loro insegna la sua arte senza tempo. I lavori più belli li tiene per se e diventamo corredo per la figlia Lucia, e poi per la nipote Lorenza ed alcuni capi sopravvissuti a due generazioni entrano a far parte anche del corredo dei pronipoti, i mei figli.
Corre l’anno 1919: nasce il terzogenito al quale Apollonia da il nome di Remo, facendo così rivivere il ricordo del marito; la tristezza per la cattiva sorte è bilanciata dall’allegria portata dalla nuova vita e dalle tante ragazze che frequentano quel piccolo atelier di paese.
Passa qualche anno, i bimbi sono cresciuti, è il 1927; il dottore dice ad Apollonia che i bimbi avrebbero bisogno di aria di mare per crescere meglio, per irrobustirsi. Non ci pensa due volte, è determinata in tutto ed è anche molto intraprendente e “moderna”. Prende un mese di ferie, tramite conoscenze prenota una casa a Rosburgo, riempie la valigia di cartone pressato con l’essenziale per tutti e quattro e parte col treno: L’Aquila- Sulmona- Pescara- Roseto- Giulianova… e Rosburgo? Perché dopo Pescara non c’è più la fermata di Rosburgo? Lo chiede al controllore che, stupìto, le dice che Rosburgo non esiste più, il suo nuovo nome è Roseto degli Abruzzi. Che donna di carattere Apollonia: scende alla fermata di Giulianova, arrotola il fazzolettone nero che le cinge il capo, ne fa una ciambella che mette in testa, sopra la valigia come fosse una conca dell’acqua e si mette in marcia percorrendo la ferrovia a ritroso, per dieci chilometri, fino a Roseto, i bimbi di dodici, dieci ed otto anni davanti e lei dietro.
Finisce la vacanza, la vita riprende al Mulino, come prima della guerra. Ed il racconto di quei tempi prende la voce di nonna Lucia, che con nostalgia ripercorre le lunghe giornate passate tra sacchi di grano e farina, il fiume, la campagna, il cavallo, la scuola di Barete; al Mulino non c’è corrente elettrica, non c’è acqua corrente, l’acqua si prende al vicino fiume col secchio e per bagno c’è una buca coperta con assi di legno nella vicina campagna. Le parole di nonna Lucia danno vita a racconti di tempi meravigliosi, carichi di nostalgia; non si stanca mai di ripetere quelle storie alle nipoti, le mie figlie, fino all’esasperazione.
E’ la fine degli anni novanta, alla televisione trasmettono un documentario inglese che tratta di “antropologia sperimentale”: una famiglia volontaria di padre, madre e due figlie femmine adolescenti si offre di vivere in un casale di campagna, come si viveva cento anni fa: è l’attuazione ed il resoconto della vita “meravigliosa” di nonna Lucia al Mulino. Guardiamo tutti con interesse e simpatia. A metà trasmissione, quando dopo una settimana le protagoniste dell’esperimento, non avendo shampoo a disposizione, si lavano i capelli con un tuolo di uovo e con della cenere,  le mie figlie esclamano “Ma che caxxo si rimpiange, nonna, la vita che faceva al Mulino” !
Nonna Lucia certamente rimpiangeva il periodo della fanciullezza, forse l’unico periodo vissuto con serenità.
Passano gli anni, e passa, a pochi metri dal Mulino nientemeno che una linea ferroviaria che da L’Aquila raggiunge Capitignano. E’ il 1922; il progetto prevede una tratta che dall’Aquila raggiunge Teramo e poi Giulianova, ma i soldi non bastano e la linea realizzata riesce a sopravvivere solo grazie all’industria estrattiva di Capitignano e Campotosto; non va oltre il 1935. Al mattino dall’Aquila e dai paesi dell’alta valle dell’Aterno parte una sbuffante locomotiva a vapore con vagoni che trasportano gli operai diretti alle cave di torba di Capitignano e Campotosto; durante il giorno i vagoni merci trasportano la torba fino all’Aquila, la sera i vagoni passeggeri si riempiono di nuovo degli operai che dalle cave di torba tornano alle loro case.
Il Mulino sull’Aterno guarda indifferente quell’andirivieni che viene utilizzato per scandire le ore della giornata. Gli anni passano ancora; Remo e Lorenzo diventano uomini, Lucia è votata alla cura della famiglia; Apollonia gestisce con fermezza e durezza ogni attività di famiglia, che sembra ancora una volta benedetta dal cielo.
Ma le nubi di guerra si addensano ancora una volta sul mondo ed anche questa volta, come nel 1915, i ragazzi attendono con apprensione l’arrivo della cartolina di precetto. E le mamme vivono col terrore di quel momento.
Lorenzo e Remo partono per la guerra. Sono arruolati nel corpo degli Alpini, uno al IX Battaglione, l’altro al V Battaglione Mortai divisionale: Albania, Grecia… poi la Russia.
Si ritrovano sulle rive del Don. Soffrono la fame, il freddo, la paura di un nemico invisibile che traversa il fiume ghiacciato.
Poi, a dicembre 1942, la ritirata; torna in patria soltanto Lorenzo, che ha perso di vista il fratello Remo durante la battaglia di Nicolaevka, dove, facendo leva sulle ultime energie rimaste, gli Alpini sfondarono l’accerchiamento russo aprendosi la strada verso il ritorno a casa. Dei quasi centomila soldati partiti cantando “giovinezza” furono poco più di diecimila i sopravvissuti, uno ogni 10 ragazzi partiti. Una intera generazione di giovani spariti nel ghiaccio della steppa senza confini o morti nei campi di prigionia russi.
Al Mulino la vita va avanti nell’angoscia e nella speranza di ricevere lettere con le notizie dal fronte, ignari della tragedia che si sta consumando. E intanto la guerra si avvicina. Cominciano a circolare prigionieri inglesi e americani fuggiti dai campi di concentramento tedeschi delle retrovie; arriva la notizia del bombardamento dello stabilimento della Zecca e della Stazione dell’Aquila, con oltre trecento morti. Ci sono stragi di civili a Onna, a Filetto; sono fucilati nove giovanetti aquilani, colpevoli di aver sparato qualche colpo di pistola contro pattuglie tedesche.
Al Mulino Apollonia si comporta come tante madri di guerra: danno cibo, acqua e ricovero ai prigionieri in fuga, a rischio della propria vita. Nel cuore di quelle mamme ci sono i loro figli che riconoscono negli occhi spaventati e bisognosi di aiuto dei ragazzi in fuga. E il desiderio è lo stesso per tutte: “aiuto questi ragazzi e sono certa che altre mamme aiuteranno i miei figli se ne avranno bisogno”. Anche Lorenzo ha ricevuto pane e il caldo tepore delle isbe durante la dura ritirata; ha ricevuto quei doni che gli hanno salvato la vita da mamme russe che come Apollonia riconoscevano negli occhi di Lorenzo quelli del loro figlio.
Remo, scomparso nel nulla, disperso, è ricomparso all’improvviso nel 1993 quando Gorbaciov, promotore del nuovo corso potitico della perestrojika e della glasnost, rese pubblici alcuni contenuti degli archivi segreti dell’Unione Sovietica. Si seppe cosi che Remo, fatto prigioniero a gennaio 1943, fu internato nel Campo di prigionia di Vilva Viesvold, sugli Urali, e qui morì di stenti, di fame e di malattie il 20 luglio 1943.
La guerra finisce, Lorenzo torna al Mulino; non c’è più l’allegria di una volta. Nonna Apollonia non si da pace per il non ritorno che pesa come un macigno ed al quale si rifiuta di dare un senso compiuto.
Nel paese c’è miseria. La guerra ha lasciato un lungo strascico di morte, di dolore, di carestia; finisce anche la piccola economia indotta dal conflitto ed il boom economico è di la da venire.
Gira voce che al Mulino sia nascosto un tesoro, riportato da Lorenzo reduce dalla campagna di Russia. Qualcuno ci crede: in tre si presentarono, un fazzolettone che copre naso guance e bocca, armati di doppietta. Apollonia e Lucia, atterrite, sono messe di spalle ad un muro. Il cane reagisce, ed un colpo di fucile lo fa tacere per sempre. Tenta di reagire anche Lorenzo, di ritorno da Barete lungo il sentiero che porta direttamente al Mulino. Anche lui è fermato da un colpo di fucile che lo colpisce in pieno petto.
Il Mulino fu abbandonato, Lucia seguì la sua strada, la sua vita. Apollonia si ritirò nella sua casa di Barete, vivendo nel ricordo e nel dolore ed inseguendo la giustizia terrena, che non fu mai capace di perseguire i responsabili del crimine.
Ed oggi? Oggi l’austera costruzione giace, snaturata dalla sua semplice e funzionale struttura, sotto un altissimo muro di sostegno che l’ha quasi sepolta. Una superstrada che segue l’antica via degli Abruzzi e che ha scelto di utilizzare il vecchio tracciato della ferrovia Aquila-Capitignano sfiora il vecchio Mulino passando in rilevato nelle immediate vicinanze. E’ stata snaturata anche dagli ampliamenti che hanno trasformato lo storico Mulino Pasqualucci in un improbabile Circolo Canottieri Aterno, dove non si respira più l’odore caldo del grano appena macinato, ma si mangia comodamente seduti attorno a tavoli elegantemente apparecchiati.
Sono andato anch’io più volte a quel ristorante vicino al fiume: è diverso in tutto dai racconti che correvano tra i due giovanetti innamorati che stavano costruendo un loro progetto di vita insieme; è diverso da come l’ho visto e vissuto fino al giorno della sua vendita, che ne ha trasferito il valore nella casa che quei due giovinetti, ormai vecchi, da anni abitano insieme. E’ rimasta però indelebile la sensazione di presenze misteriose, di anime che tra quelle pietre sono nate, sono cresciute, hanno amato, hanno lavorato, hanno sofferto ed hanno cessato la loro esistenza terrena; e di quelle anime ho conosciuto i nomi, qualche volto, una parte della loro piccola storia, ascoltata dalla voce di chi quella storia l’ha vissuta o l’ha sentita narrare; sembrano fatti insignificanti e lontani nel tempo, ma sono minuscole tessere inserite in quella che è la grande storia del mondo, da tutti studiata sui libri di scuola.



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