PICCOLI RICORDI SU ANGELO CIALFI - di Fernando Acitelli -

    Quando c’è poco da dire, in verità c’è tanto da dire

 

 - di Fernando Acitelli -

 

Mi ricordo lievemente quando morì la moglie, un pomeriggio con l’aria grigia e dentro di me come un baccano di fotografie che cadevano al suolo. L’inconsistenza della vita, una vera scalata cercarne i significati. Furono momenti tragici già alla vista dei figli che, anno più anno meno, erano miei coetanei. Doveva essere una tarda estate verso la metà degli anni ’60. Anni in cui ogni malattia sembrava avere impresso, già al suo manifestarsi, il sigillo d’una conclusione tragica. E a quel punto rimaneva soltanto la chiesa, San Franco, i secoli della tradizione cristiana e poi immagini che in noi non sembravano svelare la “sala d’aspetto” di Dio ma, piuttosto, le evanescenti regioni del sogno. E come si sa, nelle lande in cui dominano le visioni, vale tutto come creazione di luoghi, personaggi e anche speranze.

L’entrata della loro casa, un poco arrampicata, con una scala solo in basso un po’ alla vista ma comunque “chiusa”, mi comunicava una fatica, ma può esistere qualcosa nella vita che non comunichi travaglio? E se le case ad Assergi – naturalmente quelle antiche – davano sempre l’immagine di un salire verso luoghi rassicuranti dove ancora sembravano aleggiare le presenze degli antenati, ovvero d’una saggezza già meditata ed archiviata, il fatto che non potessi avvistare nulla di quella casa, m’addolorava. A volte dei luoghi possono sollevare anche un tepore nel cuore, farci pensare ad un nido favorevole, rendere “accomodabile” una realtà. Con quella morte giovane ed i figli piccoli tutto mi s’ingigantiva dentro ed era come se quell’accesso difficile alla casa non m’aiutasse a comporre un poco di sereno, naturalmente “brandelli di sereno”. Si trattava in verità di considerazioni d’un bambino ma fu come se quel pomeriggio fosse ancora più tragico. Guardavo i due bambini che dovevano essere viepiù protetti e m’immedesimavo in loro e Maurizio mi pareva il più investito da quella tragedia, già longilineo come il padre, pettinato ed impaurito per il modo in cui la sua giovane esistenza era stata aggredita. E l’entrata di quella casa per me rimase sempre legata a quell’evento tragico e non vi fu una volta in cui, sfilando là davanti, non ripensai a quanto accadde in quella remota estate. Il tempo poi s’esibì, al solito, in un ottimo lavoro ed i bambini divennero grandi, svilupparono le loro potenzialità, e lei, Angela Maria, si mutò in una bella ragazza, disposta al sorriso ma anche pronta, decisa nelle risposte. Maurizio si slanciò come il padre, riprendendone anche l’andatura e i modi silenziosi. Il fatto che io non avessi mai visto la madre mi vietava che potessi fare dei raffronti con lo sguardo dei figli e magari dire: «Oh, il viso di Angela Maria è identico a quello della madre…» E si sarebbe potuto congetturare anche sulla voce. Pure questa mancanza, questo pensiero aveva un suo valore.

Di Angelo Cialfi ricordo che mi salutava sempre ogni volta l’incrociavo,   e quando non era al lavoro ecco che un minimo di spensieratezza, il sacro “ozio”, li poteva cogliere nel luogo di raduno delle “ultime notizie” ovvero il belvedere di ‘NaPorta. Devo comunque dire che di quel luogo lui amava per lo più le retrovie, ovvero lo stazionare dalle parti della casa di Lucia Sacco e di Clelia di Poiana, ecco, era quello il suo posto privilegiato. Era come se per lui risultasse troppo chiassoso il luogo delle “ultime notizie”, il belvedere con gli inviati dai vari fronti, e preferisse qualche amico che la pensasse come lui e che al frastuono di fatti già ascoltati, consumati o rielaborati, preferisse una birra Peroni in santa pace da Olimpia. Lì un cantuccio lo poteva trovare e la conversazione era d’un altro tipo, senza troppe persone che con le loro voci si sovrapponevano, ognuno con la verità già confezionata. Al caldo buono della sala di Olimpia il tempo passava più serenamente e si poteva non essere d’accordo con l’amico su una certa questione ma lì dentro il tono della voce era basso e si dovevano rispettare le regole del vivere civile e dunque non andare in escandescenza come invece accadeva spesso al belvedere di ‘NaPorta. Queste erano ovviamente le mie sensazioni ogni volta che entravo in quel luogo e ci fu un’estate che vi entrai spesso perché dei chewing gum contenevano dei francobolli da collezionare. Fu forse quello uno dei primi esempi di gadget ed i francobolli siglati Magyar Posta, ovvero dell’Ungheria, erano i più richiesti. Non sapevamo che tutto sarebbe poi crollato altrimenti ora, con quelle riproduzioni, sarebbero stati possibili degli interessanti raffronti. Chissà dove sarà finita quella collezione!... E così in quella sala attigua al bancone si potevano vedere seduti i richiedenti silenzio, i questuanti della quiete e con la birra Peroni che trionfava sul tavolino. E la serenità era in quegli uomini, ed essi avrebbero voluto prolungare quel tempo fino a farne un assoluto, anche dormire lì come in un’infinita notte di Natale. Fuori da quel luogo c’era la vita con tutti i suoi effetti collaterali, sui quali Angelo Cialfi poteva benissimo raccontare.

Angelo aveva bisogno di ‘NaPorta e al pari tempo quel luogo aveva bisogno di lui. Sembravano uno il puntello dell’altro e ad una eventuale sua assenza si sarebbe avvertito come un dissesto, qualcosa su cui interrogarsi. Erano dunque funzionali l’uno con l’altro ed in una ingiustificata lontananza di Angelo, si sarebbero di certo avvertiti degli smottamenti, naturalmente anche tra gli amici. Inoltre, i muri vedevano e archiviavano tutto.

Ricordo la Strada Ritta d’inverno nel primo pomeriggio, splendidamente deserta ed in un tempo immobile. Il sole non gliela faceva a scaldare i muri di pietra e forse soltanto il muschio, qua e là, se ne giovava. In assenza d’un camino di casa, i gatti migravano da un sottoscala ad un balcone, ad una finestra di tepore. A quell’ora tutti erano a casa e forse vegliavano sulla propria ombra. Qualcuno sarebbe uscito nel tardo pomeriggio finendo da Olimpia per quel desiderio di confidarsi con qualcuno, per avvertire meno freddo nell’animo. Poi costoro sarebbero usciti da quella sala salvifica per recarsi a cena ma si sarebbero rivisti più tardi, dei veri eroi ad uscire col gelo, imbardati come reduci, ed il bagliore della sigaretta di Angelo era come un flash che avrebbero visto già dalla casa di Giulio della Postina.



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