CHECCO IN PARADISO - di Fernando Acitelli -

CHECCHO IN PARADISO

 

- di Fernando Acitelli -

 

Ci sarà stato un primo giorno di scuola per Checco? E il fiocco? Con quale cura lo avrà stirato sua madre la sera prima? Sono tutte domande che urgono, che bussano, che chiedono udienza e tanto vorrebbero una risposta. Possiamo solamente sognare che anche quel giorno sia esistito (quel suo primo giorno di scuola!) con tutte le comprensibili paure del bambino. E una volta in classe, si sarà domandato: «Dove sono? E dove sta adesso mamma?» Magari uscendo dalla scuola avrebbe subito detto alla madre: «Ecc nen ci venghe chiuù!».

Dare voce ad un bambino è compito arduo ed è la letteratura a salvarci. Del resto abbiamo attraversato tante storie nei libri e lo stupore irrompe ovunque ed è sostanza della storia dell’umanità. Il sentimento dello stupore è, a ben vedere, uno dei più favorevoli e sollecita sempre, chissà perché, la speranza. “Credo quia absurdum” dice Tertulliano. Dunque lo stupore anche nelle questioni di fede è in rampa di lancio: “Credo perché è assurdo”.

Accreditiamo forse troppo a Checco? E chi può dirlo?!... Un uomo buono, di sensazioni in disparte, vergognoso, sempliciotto ma non per questo distante da pensieri delicati, inoffensivi, felici soltanto per se stesso e per la sua solitudine. Questi dialoghi con se stesso gli avranno di certo reso “meno complessa” l’esistenza, tutta votata ai campi, alla stalla, a definirsi anche lui capace d’una efficienza. E dunque, come risarcimento, appena dei pensieri, a volte anche spettinati ma esprimenti sincerità e con quel sano stupore di chi, vedendo il mondo, crede sia tutto vero. In verità una purezza d’animo senza sovrastrutture, ma con quella diffidenza verso gli uomini che però era sempre sul punto d’attenuarsi quando lui divideva qualche momento con un estraneo, vale a dire con un individuo non della sua famiglia. Grandiosa sarebbe stata per me una visione della loro cena senza essere visto. Ho già dato notizia di questo mio sogno parlando del fratello Antonio e certamente vale anche per Checco. Acquattato da qualche parte, avrei osservato tutta la famiglia riunita e visto così quali strategie difensive avrebbe adottato Checco, attaccato magari da Ercolino, da Silvestro. Spettacolari a quel punto le risposte di Checco: bei ganci e uppercut a base di parole. In loro non ci sarebbero stati quegli aggiustamenti decretati dalla presenza d’un estraneo e tutti si sarebbero comportati spontaneamente ed io ad osservare (non visto) le loro condotte autentiche.

Uomo di gioie tutte private, di esclamazioni lontano da tutti, di tristezze con orario continuato, Checco si sosteneva col sogno ed era lì che dava il meglio di sé: componeva così ritagli amorosi, fantastici, elaborazioni mentali nelle quali lui, finalmente, usciva vincitore, tutto lindo, profumato, insomma come mai s’era visto ad Assergi sulla traiettoria Casa-Porta del Colle-Pagliaio-Gregge con Silvestro in testa che con delle esclamazioni audaci, ad alta voce, quasi scheggiava in cielo le equazioni.

A quel fragore di suo cognato Silvestro, Checco non rispondeva, rimaneva in silenzio elaborando pensieri che possedevano sempre qualcosa di “metafisico”. Se una donna gli avesse donato un bacio, egli sarebbe stato felice per l’eternità. Le immagini che mi sopraggiungevano erano quelle legate al pittore Ligabue che chiedeva soltanto un bacio ad una donna: quei filmati che riguardano appunto Ligabue sono a tale proposito struggenti. La bellezza del mondo per Checco era racchiusa soltanto in quella scintilla che sarebbe venuta da un bacio una tantum.

Poco prima dell’ora di cena in un giorno d’agosto che precedeva la festa: provenivo dai frati e, giunto al Belvedere di ‘NaPorta, salutai alcuni amici che mi dissero di “accostare”, insomma di raggiungerli, di sedermi sul muretto. Così incominciammo a parlare ed i discorsi che s’allestirono furono molteplici, dall’imminente festa, alle ragazze alla partita di calcio in programma a Ferragosto. Intanto là davanti Antonio de Cirle dava spettacolo e quella sera era proprio lui al centro della storia. Da cabarettista inconsapevole, narrava quanto accadutogli ma lo faceva con un’insuperabile vis comica, dilatando ad arte il tessuto narrativo. Visto l’animo che ci metteva nel raccontare, nella mano destra teneva un fazzoletto per asciugarsi la fronte perché era al massimo della sua performance. In giacca blu e camicia bianca si spendeva in sublimi rappresentazioni per la felicità degli astanti che ridevano in modo largo, suntuoso, proprio come richiedono i comici di professione. Davano cioè soddisfazione all’artista, il quale, sentendosi celebrato, continuava nel suo colorito monologo. Il punto più alto Antonio lo raggiunse quando intese narrare la sua avventura in cerca di funghi: ne aveva raccolti un bel po’ e adesso non doveva fare altro che cucinarli. A sentire tanto, si levò dal muretto una voce che chiedeva: «Li hai scelti bene? Non saranno velenosi?». E allora Antonio guardò negli occhi colui che aveva formulato la domanda, quindi s’asciugò la fronte con il fazzoletto e con la dovuta calma, rispose: «E che m’importa! Li faccio mangiare prima a mia moglie e se l’indomani non è successo niente, li mangio pure io». Fragore, risate a più non posso, battimani, colorito sbellicarsi sul muretto, e lui che era al sommo dell’entusiasmo e non avrebbe mai immaginato di riscuotere tante approvazioni, tanto successo con il suo lunghissimo monologo.

E insomma accadde anche questo quella sera ma per me vi furono altre faccende da mettere in archivio. Quando i miei amici mi lasciarono io rimasi ancora sul muretto e con le persone che s’avviavano verso casa l’uomo più prossimo a me divenne Checco che quella sera (forse era un sabato) era disceso dalla sua contrada per annunciarsi, per mostrare che anche lui aveva una storia, per gridare all’Universo la sua presenza. M’accostai a lui perché avrei avuto la possibilità d’apprendere tante cose, per lo meno una sofferenza interiore non detta, che non veniva mai fuori ma che si percepiva. In verità a me avevano sempre interessato gli “ultimi”, i “non immatricolati” per una vita “normale”, i personaggi non credibili ma che forse erano i più sinceri, i più meritevoli d’attenzioni. 

Vestito con pantaloni invernali ma con una camicia bianca che lo innalzava almeno per quella sera, comprese ancora una volta che ero uno dei pochi che gli prestava ascolto. Incominciò a parlare dei suoi denti e, visto che gliene era rimasto soltanto uno, ci tenne a rassicurarmi dicendomi che il dentista avrebbe provveduto a ricostituire una nuova dentatura, perfetta, e tutto questo sarebbe accaduto presto. Inoltre da una tasca dei pantaloni tirò fuori la cosiddetta “libretta” della Posta dove aveva i suoi risparmi e me la mostrò. Io non la guardavo ma seguivo il suo sguardo. Con gli argomenti introdotti, vale a dire la dentatura nuova e i soldi custoditi alla Posta, avrebbe potuto finalmente coronare il sogno della sua vita, ovvero sposarsi. Secondo i suoi progetti era sul punto di definire una questione amorosa e dunque nel suo universo immaginifico era spuntata un’altra donna. Noi due eravamo davanti al muretto e avevamo davanti l’arco d’entrata potendo così guardare chi transitava per ‘NaPorta. Il caso volle che la donna poco prima evocata da Checco, la “new entry” della sua fantasia, transitasse proprio in quello spazio che ci stava davanti, e allora con un senso lirico insospettato ecco che Checco mi disse: «La ved come m’alluma!» Quel verbo da lui introdotto, cioè “allumare” era fantastico, non lo avevo mai sentito. Allumare, cioè fare luce con il lume. Dunque, secondo la sua versione, quella donna transitava per i luoghi dove Checco si trovava. Ma se per caso si fosse chiamata quella donna e presentata a quest’uomo sofferente e innamorato dell’amore, costui se la sarebbe di certo data a gambe perché era la realtà che lo intimoriva e in questa realtà erano le donne al primo posto. Poi ci risolvemmo entrambi verso casa e, dopo essersi così confidato, Checco avrebbe attraversato una bella serata, ma dei suoi progetti non avrebbe fatto parola in famiglia.



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