I DUE BATTISTA - di Fernando Acitelli

                    I DUE BATTISTA

- di Fernando Acitelli -

 

I luoghi rimandano al tempo archiviato. Anche se sono trasfigurati e l’essenzialità delle case è scomparsa, le persone a me paiono ancora muoversi tra quei muri antichi, tra le abitudini consolidate, tra i modi di dire che davano coraggio. E se si passa in questi luoghi dello spirito, il rischio è di sognare ad occhi aperti e avvistare davanti agli usci superstiti persone che hanno salutato il mondo già da tempo. Ne ho esaminate tante di queste “vite di uomini non illustri” per dirla con lo scrittore Giuseppe Pontiggia. E tra questi è da ricordare senz’altro Battista Pace. Tornava d’estate e subito si metteva all’opera consacrandosi al ritmo di quella stagione che lo aveva visto bambino, fanciullo, giovanotto, uomo fatto. Non poteva stare fermo, e dopo l’inverno a Milano riconquistava i suoi spazi e le passeggiate che componeva ogni giorno gli servivano “anche” per cogliere atmosfere dissolte, per riviverle con l’esperienza della maturità. Anche il sole di Assergi gli era necessario, quella luce che scaldava ancora i muri delle case e sapeva espandere tutt’intorno un sentimento di salute.

La casa di Battista Pace era ad un passo dall’abitazione di Palazzone, di Pirame, e poco prima di dove aveva residenza ‘U Calacine, un vecchio uomo che viveva ad Assergi ma era originario di Rocca Calascio. La casa di quest’ultimo era poco dopo quella di Battista Pace e poco prima di quella di Sor Checco, sublime ebanista, là dove si vedeva uscire anche Berardino Pace che sorrideva sempre e sembrava avere il cuore identico al suo sguardo. Intagliava il legno ‘U Calacine e per pomo del suo bastone aveva realizzato un uccellino.

I ricordi di Battista Pace potrebbero riassumersi in poche frasi a superare i decenni, ed egli avrebbe potuto dire: «Lì scorgo gli anni ’20, mia madre, la scuola; in quest’altro luogo emergono gli anni ’30, e così le prime esplorazioni, la vista della fatica sui volti degli amici di mio padre; sulla strada statale si possono rammemorare camionette e blindati tedeschi e dunque gli anni della guerra; e poi la Liberazione, la pace, le persone che si ritrovano e nuovi progetti che prendono corpo; certo, anche il mio spostamento al nord, in una Milano operosa, con echi napoleonici, austriaci e manzoniani». La statua a Carlo Cattaneo ricorda le cinque giornate e la sua idea di repubblica federativa mentre l’ingegnere Carlo Emilio Gadda con L’Adalgisa compone suntuosi racconti milanesi. È la Milano dell’etica del lavoro e questo non soltanto nelle fabbriche ma anche nell’arte: spicca la Milano di Brera, il bar “Jamaica”, Giò Ponti e Enzo Mari. Gli scrittori in Galleria, il Premio “Bagutta”. Dunque inizia veramente la vita di Battista Pace e, quando torna ad Assergi, il suo è tutto un narrare come Milano sia veramente la capitale morale dell’Italia. Negli incontri estivi è tutto un ordito che compone connettendo in un sol colpo i momenti della sua vita.  Egli ha un modo speciale di trattare la materia del passato, del presente e del futuro. Non critica le epoche trascorse, espone la sua quotidianità e celebra le innovazioni che ci saranno. A tale proposito parla spesso della “Carlo Erba” casa farmaceutica, e lo fa da addetto ai lavori visto che è impiegato alla “Farmitalia – Guidotti”.

Tra il verde ondulato attorno ad Assergi, un occhio attento su valli e alture avrebbe potuto avvistare il camminatore Battista, che, al pari di Henry David Thoreau  con il suo libro Camminare, s’impegnava in fantastiche attraversate tra la natura amica e poneva al centro della sua riflessione quell’aria incontaminata del Gran Sasso a confronto con la nebbia chimica della sua Milano. Ma erano istanti, non poteva più staccarsi dalle sue atmosfere meneghine. Però le immagini della mietitura, della falciatura non lo abbandonavano e spesso si calava in quegli scenari. Allora lo si vedeva aiutare chi a lui ricorreva e non era evento raro ammirarlo su un motocarro con il capo ricoperto da un fazzoletto risolto con quattro nodi di modo che rimanesse ben fermo.  E si tornava dai campi, dunque lui era a rendersi utile come probabilmente era stato nel tempo della sua gioventù.

Nell’estate del 1968 il fratello di Battista, Domenico, tornò dall’Australia. Quando lo vidi non faticai molto a ricondurre quei suoi tratti a Battista. Veniva spesso a casa dei miei nonni perché c’era stata amicizia tra le due famiglie. Quell’agosto fuggì lesto e una sera vedemmo Domenico venire a casa per i saluti visto che ripartiva: passarono un’ora buona a parlare nella sala. Io quella sera avevo molto da fare con il camino, così tanto impegnato che lo feci infuocare.  All’improvviso si sentì lungo la canna del camino un rumore come non avevo mai sentito e poi un fuoriuscire di fumo. La paura fu tanta ed accorsero subito i miei che si resero conto di cosa stesse accadendo. Tutti scesero nella Piazzetta e videro dal comignolo tutta una pioggia di lapilli e sembrò una ripetizione, in piccolo, degli spari in piazza. Mio zio Antonio e Domenico furono i primi ad intervenire, così raggiunsero il tetto attraverso tre rampe di scale e poi, dall’ultimo balcone, li attendeva una scala che li avrebbe condotti all’apice del camino. Frattanto sulle scale interne si susseguivano i secchi pieni d’acqua ed era un trasporto continuo da parte dei famigliari. Mio zio Antonio e Domenico provvidero a riportare tutto in quiete. Alla fine quello spettacolo “vulcanico” si placò e per un poco si commentò l’accaduto anche con Domenico che si sarebbe dovuto svegliare all’alba in direzione Roma per 

prendere poi l’aereo con direzione Australia. Io me ne rimasi in disparte e ancora una volta i commenti parlarono d’un fanciullo con una vivacità senza freno. L’indomani, comunque, mio nonno trovò i rami adatti per pulire tutta la canna fumaria. Attesero a quel compito mio zio Antonio in alto e nonno Lorenzo in basso. Forse il mio intervento giocoso risultò utile perché prima o poi, come seppi, la canna fumaria doveva essere pulita. Ma quella sera anche Domenico, il fratello di Battista, si distinse in quell’emergenza.

Battista era una persona educata, rispettosa, e ogni volta che mi incontrava si fermava a parlare. Naturalmente sapeva che anch’io ero fatto della stessa pasta.

Dal taccuino di mio padre: Battista Pace, via Procopio, Milano – (nei pressi della Fiera).

***

Battista Lalli abitava di fronte alla casa dei miei nonni alla Piazzetta del Forno. Quell’abitazione era diversa dalle altre di quel distretto: non emergeva la pietra, sembrava una novità rispetto a tutto quello che c’era attorno: la casa di Peppe Lalli, quella di Domenica Scarcia, ovvero la Cupella, poi quella delle Pizzelle, la casa nostra e poi tutta la strada fino all’Arco Rutelone e via a proseguire. Quella casa di Battista aveva due balconcini appaiati, due finestre d’abbaino sopra, e due porte al piano terra che però non dovevano essere loro: in una, quella prossima alla fontanella, vi vedevo qualche volta entrare la moglie di Gianbattista di Pipirde mentre dell’altra ne usufruiva la madre di Laurina, ovvero Angela Rosa. Battista era il cugino carnale di mio padre perché mia nonna Teresa era la sorella del padre di Battista, cioè Laurino Lalli. Diligente nello sguardo e anche nei movimenti, Battista esibiva qualcosa di geometrico una volta in strada. Sguardo astuto, baffetto lieve, della Vienna dei primi anni del ‘900, fu per tutta la vita dedito al lavoro e alla famiglia. Come si diceva ad Assergi anche per gli altri: “Nen se vede e nen se sente...” - che era, a ben comprendere, un complimento e ne evidenziava il carattere riservato. E pensare che, quando Laurino stava al mulino, risuonava nella valle la voce di sua moglie Clelia: «Laurì, sta esso lo citolo?». E di quella voce non poco preoccupata s’impossessavano tutte quelle persone che vivevano dalla Piazza fino alla casa di Cristina Longa. Qualche donna s’affacciava alla finestra e vedeva Clelia verso il muro della Piazza E certo che il piccolo Battista stava lì, magari gironzolava attorno al padre, o forse lo lasciava per esplorazioni audaci sul ciglio della Refota e “agliu scert”. E chissà se il buon Laurino aveva sentito la voce preoccupata di sua moglie Clelia... Sì, di certo l’aveva ascoltata ma non che potesse gridare dal basso per rassicurarla, non c’erano i segnali come accadeva tra gli uccelli, nei quali tutto accadeva come una melodia.

E comunque, il bambino Battista Lalli era cresciuto, s’era mostrato al mondo con il suo visetto delicato, con l’educazione al sommo e poi s’era sposato: sua moglie Laurina, il figlio Dino. La vita andava, procedeva senza scosse. Ogni volta che, grazie all’autostrada, giungo a L’Aquila, procedo verso Assergi e in questo modo transito sopra all’Hotel Ristorante “Gran Panorama” dove per tanti anni lavorò zio Battista. È un momento di commozione perché quella sua vita ritirata meriterebbe un saggio filosofico, come per l’ultima tratto della vita del grande scrittore svizzero Robert Walser. Una vita custodita e per me rimaneva un unicum quella serata in cui lo vidi al posto ‘NaPorta. Sarebbe stato necessario, a quel tempo, un telefonino per riprendere quella partecipazione clamorosa. Lo vidi al centro delle conversazioni e fu come se la sua presenza fosse stata continua sul quel muro filosofico. Da quella volta non lo vidi più in quel luogo ma era anche vero che gli anni passavano e che la quiete diventava ogni giorno più preziosa. E questo, naturalmente, anche per lui.

Quella sua casa nuova la innalzò da solo e questo tanto per testimoniare di quale pasta lui era fatto. Poco propenso a chiedere agli altri aiuto, e poi dentro di sé quell’orgoglio che era poi un po’ il timbro della sua esistenza. Quella casa aveva tutto, anche uno spazio antistante: era protetta e poi immersa nella natura. Se non ricordo male era ad un passo dalla famosa via dei Rignali.

Da ultimo la sua macchina, la Bianchina. Era l’automobile perfetta, adatta a lui, così lieve di statura e perfetto al posto di guida. Lo si vedeva di mattina guadagnare i Frati e poi imboccare deciso la statale 17 bis con direzione L’Aquila, e dico questo quando non c’era ancora il raccordo autostradale. Lui era la Bianchina, questo richiedeva anche il paesaggio, era sicuramente un accoppiamento giudizioso. I due Battista li ricordo così, il primo nato (se non ricordo male) nel 1920, mentre il secondo nel 1924. Sono microstorie, lo so, ma almeno servono a ricordarli.

 



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