Il rumore di Assergi che ti riempie l’anima

Il rumore di Assergi che ti riempie l’anima

 

- di Marco Ippoliti -

Se ho visto cadere la neve dalla finestra della mia camera romana è perché sono stato svegliato dal silenzio inusuale, prima dell’alba, nella grande città che di solito è interrotto dai frettolosi tacchi sulle scale, portoni che sbattono (guai ad accompagnarli), e macchine che partono per la meta della giornata, subito imprecando per il traffico che pochi metri dopo la prima curva già era bloccato e impazzito.

Si, il silenzio, un momento come si dice “ovattato” un “non rumore” nuovo per chi non è abituato alla bianca coperta che lentamente ma inesorabilmente scende in una notte invernale cittadina.

E  invece posso solo immaginare, sulla stretta via della Porta del Colle o nella Piazzetta del Forno quella fredda farina bianca che dovrebbe annullare il via vai verso le stalle dove i preziosi compagni di lavoro attendono fiduciosi la meritata razione di fieno o un secchio di pastura e una amorevole spazzolata
Posso solo immaginare come ci si possa sentire, non più accompagnati dal rumore del proprio passo sui sassi, guardando di porta in porta se c’è qualcuno da salutare.
Soli con le ginocchia che scricchiolano piano e il cuore che batte forte.
Ma bisogna andare lo stesso, anzi, oggi più che mai, anche nel silenzio della neve, anche se nessuno ha ancora spalato il centro della via, anche se nessuno avrebbe la voglia di lavorare.
C’è il silenzio e una luce maggiore, che sa di argento, che sa di purezza candida e pungente.

Ma poi, un po’ più in là nel tempo, in una qualunque mattina più morbida e temperata di agosto, quel silenzio viene interrotto da una trombetta, più stonata di una festa di carnevale, ubriaca, con l’eco quasi inesistente.
Una, due, tre volte, e poi con la voce quanto più potente possa permettere l’ora ancora giovane, annunciare che anche oggi si possono comprare scarpe da ‘u scarparejo, che “…è arrivato!”e porta un prezioso campionario o scaricare le cassette dei “pummarò””pe’ fa li pummidori” da consumare durante l’anno.
E mettersi nella bisaccia, frutto e ricompensa di quel passeggio “comunicativo” tre o quattro monetine che non duravano più del primo pomeriggio, investite nel passatempo degli uomini di allora, tanto criticato, quanto forse necessario, forse meno grave di tanti vizi di oggi, per  quel che un buon bicchierino di vino poteva regalare a giornate che sarebbero diventate solitarie e altrimenti tristi.

Si entrava, scendendo a sinistra, appena dopo la Torre dell’orologio, verso la piazza, da Olimpia, varcando una porticina i cui cardini stridevano acutamente, e una molla riaccompagnava con poco garbo l’uscio alla sua chiusura, avvisando dell’entrata di qualche avventore.
Neanche il più scaltro dei felini avrebbe potuto varcare silenziosamente quella soglia, per non parlare poi del pavimento che portava alla sala. Avviso? Allarme? Monito?
Si era presentati dai propri gravi passi che calpestavano quegli antichi legni, chiari, polverosi.
Ogni piè sospinto era un tocco, sordo e imponente, in un buio corridoio abbastanza lungo da percorrere per un bambino timoroso di ogni crepuscolo.
Quella specie di fischio arrugginito andava e tornava con decibel che salivano e scendevano e, quale antico badge, ci portava all’interno per comprare il latte fresco appena munto, che portato a casa, in parte diventava burro.

Ad Assergi poi risuonava la musica della banda che fungeva da corollario alla festa del Santo Patrono del paese: San Franco.
Tutte le bande del mondo vengono da Chieti, con il nome ben impresso sulla Grancassa maltrattata bonariamente dal musico più robusto e con la cravatta che a mala pena arrivava al petto.
Tutte le bande hanno un specie di divisa tirata fuori qualche volta l’anno.
Pantaloni neri, camicia ormai bianca solo nei ricordi, un gilet con qualche bottone saltato, uno stanco berretto, ottoni dorati ereditati dal nonno e tanta melodia, frutto non di studio professionale  ma di passione e cultura popolare.
Tutte le bande hanno qualche ragazzina che agita il bastoncino e attende dalle finestre qualche mercanzia offerta dalle “commari” da mettere nel cestino di vimini.
Qualche uovo, un pezzo di formaggio, del lardo, del vino che in aggiunta ai panini preparati nella Sacrestia a fianco della Chiesa, davano ristoro a quel gruppo di suonatori che di buon ora erano giunti con il loro immancabile pulmino/torpedone color grigio topo.

E il festoso rumore della musica dava a chi, come me, che ancora si crogiolava nel letto, e a tutti gli altri l’avviso dell’avvio dei festeggiamenti cosi aspettati, che firmavano il centro dell’estate.

Solo il rumore dei “Botti” fermava le note, e dalla valle del fiume bianche le nuvolette di polvere da sparo  si dissolvevano chiassosamente, accompagnando in Processione il Santo, i Vessilli e le Reliquie per le vie paesane.
Si i botti, perché di giorno è il rumore, non la luce dei fuochi di artificio, ad accogliere i “Pilligrini” giunti da tutto l’Abruzzo.
Marcellino ne era terrorizzato e papà Pino con le sue manone ne copriva le orecchie rassicurandolo, non sempre riuscendoci.

Il rumore del chiacchiericcio e delle preghiere si mischiava quasi misteriosamente, e naturalmente il sacro e il profano erano gli ingredienti, peccaminosi e mistici della festa.

E tutto era ulteriormente condito dalle campane, il rumore principe, che dall’austero campanile, se ricordo bene ancora azionate a mano, ridondavano sulla piazza, imponendosi maestosamente sulle grida delle bancarelle di cianfrusaglie e quella delle noccioline tostate.

Solo un asinello ragliava solitario, legato al batacchio di un portone, esternando, chissà, le sue pene d’amore.
I rumori di Assergi, le vibrazioni dei ricordi, che nessun supporto tecnologico potrà mai registrare.


 



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