ANGELO GIACOBBE, GLIU “SPAGNOLE” - A PROPOSITO DI UN SOPRANNOME

ANGELO GIACOBBE, GLIU “SPAGNOLE”

(A PROPOSITO DI UN SOPRANNOME)
 

 

 

- di Fernando Acitelli -

Ero nel negozio di Zia Antonietta e zio Raffaele: agosto del 1967. Dalla Piazzetta del Forno mi piaceva scendere le scale delle Pizzelle e finire in quello spazio un po’ angusto che precedeva una delle due entrate del negozio. Quel luogo assomigliava ad uno dei tanti vicoli di Oliver Twist. Lì aveva la cantina anche mio nonno, il posto giusto per custodire le patate che lì dentro formavano delle collinetta: subito a sinistra quelle nuove, mentre le vecchie stavano in fondo, sulla destra. Per non farle precipitare, c’era una piccolissima staccionata in basso, dello spessore d’una cornice. Quell’astuzia aveva un senso. Qualche patata, comunque, quando vi entravo con zia Letizia, era precipitata dal costone.

 

Più si procedeva verso l’interno e più la paura aumentava anche a ragione di quel giusto umido. Questa era almeno la mia sensazione. Ma tornando nel vicolo: di fronte, dopo l’arco buio, ecco in presa diretta la casa di Giulio della Postina. La porta di Lenì non si vedeva da là sotto. Quel balconcino come entrata/accesso comune  era un gioiello per entrambi. Va bene, questo detto. Le scale che avevo disceso provenendo dalla Piazzetta del Forno erano fatte con massi di pietra irregolari, per lo più tarlati e con piccole arborescenze, un verde in ciuffi che dilagava un po’ ovunque in quel luogo. Su usci innominabili di chi era partito definitivamente. Si poteva dire che erano proprio quei ricami di natura che miglioravano quel vicolo altrimenti più che triste.

 

Il sole in quel luogo arrivava un po’ ad ora di pranzo quando Onorina Giusti (de Pavere) e il marito Domenico (de Sabettella) avevano già provveduto a nettare se stessi e la propria casa. Avevano quattro figli: Antonio, Sergio, Elsa e Italo. Qualche volta Domenico si lavava il viso alla fontanella, ed era uno spettacolo vederlo. Poggiava l’asciugamano e la saponetta sul muretto retrostante e poi procedeva. Accompagnava quell’operazione anche con il suo sonoro che poteva riassumersi con la frase: «Che sollievo quest’acqua». Anche chi lo guardava provava una sensazione di benessere. Poi si poneva in faccia al sole.

 

Ad ora di pranzo il sole sembrava un miracolo su quelle scale a precipizio sul vicolo, su quel piccolo cortile, su quelle esistenze. L’abbiocco veniva spontaneo anche se in molti, dopo pranzo, preferivano il fresco sulle scale della Cupella e il lieto mormorio della fontanella. Domenico, in camicia bianca, contemplava la piazzetta e osava delle ricognizioni sulla sua esistenza. Onorina ricompariva sulla scena dopo il riposo pomeridiano, attorno alle 16,30. Appariva troneggiante e abbigliata con vestagliette multicolori. Subito, vedendo mia nonna Maria, lanciava un motto di spirito in dialetto romano: «Me so’ svegliata adesso, ce voleva proprio un riposetto». I suoi occhi da gattone, il suo buonsenso. A mia madre soleva ripetere: «Ai miei figli la sposa gliel’ho trovata io». Chissà se aveva pensato pure ad Elsa…

 

Mi sono perduto ma era fondamentale la descrizione dei luoghi e delle persone prima di finire nel negozio di zia Antonietta. Lì dentro, oltre a diverse persone che attendevano d’essere servite, c’era anche zio Checco Lalli, fratello di zia Antonietta, tornato quell’estate dall’America. Con calma ed operosità, zia accontentava tutti: il suo sorriso non l’abbandonava mai. Un odore gradevolissimo lì dentro, era come una sospensione da tutti i guai. Un odore che non avrei più sentito.

 

Io dopo aver salutato lo zio d’America, Checco, vidi un altro mio zio, Angelo, che aveva il cognome Giacobbe come mia nonna Maria e che era posizionato in quel punto che precedeva il retrobottega, luogo in un certo senso strategico dove era installato il telefono pubblico. Lo ritenevo un luogo rassicurante: sentendo un congiunto, in Italia o chissà dove sulla carta geografica, si faceva chiarezza sulle ultime notizie e poi sugli intendimenti circa la prossima ripartenza. Zio Angiolino era di spalle e non potevo salutarlo ma lo sentivo parlare spigliato nella sua lingua che aveva imparato in Venezuela. Ogni tanto si voltava e così vedevo la sua carnagione bronzea, come quella di suo fratello Battistino. Forse comunicava con zia Nella e quella conversazione si prolungava e insomma quella parlata “castigliana” stava affrescando tutto il negozio ma era un suono piacevole. Io dovevo comprare la cosiddetta “prosuttella” e attendevo con pazienza il mio turno. Ero l’ultimo ad essere giunto lì e dunque mi gustavo cosa dovevano acquistare le altre persone.

 

S’arrivò al punto che zio Checco, sentendo parlare fluentemente zio Angiolino nella nuova lingua, ad un certo punto sbottò: «Affregate compà come parle gliu spagnole!». E la sua voce risuonò nel negozio. Ma zio era troppo impegnato in quella telefonata transoceanica e dunque non sentì quella uscita veramente “alla Lalli” di zio Checco. Dico “alla Lalli” se non altro per il loro modo spontaneo (anche di mia nonna Teresa), senza forzature, di parlare in faccia. A volte mia madre mi rimproverava perché anch’io cedevo spesso in un simile comportamento ma, a parte mia madre la cui riservatezza era proverbiale, genetica, neanche mio padre si distingueva in tanto e aveva sempre le parole misurate.

 

Poi venne anche il mio turno, zia Antonietta mi servì mentre zio Checco rimase lì a gustarsi il fluire delle persone. È bene precisare come la sottolineatura di zio Checco non conteneva nulla che potesse essere considerato “censurabile”. Una battuta riuscitissima che avrebbe potuto comporre solamente chi è dotato di ironia, di humour. In questo potevo ben dichiararmi discendente della stirpe dei Lalli perché anch’io spesso ero un giocoliere con le parole. Ripensandoci oggi, ritengo che quella sua uscita fu spettacolare. Io non so se in seguito all’episodio narrato (“Affregate compà come parle gliu spagnole!”) zio Checco decretò involontariamente il soprannome poi affibbiato a zio Angiolino. Io racconto soltanto l’episodio cui assistetti ed è probabile che qualcuno che era in fila con me abbia colto quella battuta riplasmandola successivamente con quel soprannome. Avrei potuto attendere che zio Angiolino terminasse la telefonata, forse a quel punto zio Checco si sarebbe congratulato con lui per la padronanza della lingua. Ho buone ragioni per ritenere che, a proposito di quel soprannome, tutto iniziò in quella tarda mattinata d’agosto con me che mi trovavo sempre al centro della storia.

 

Le cose più belle accadono nell’ombra, quante case non visitai perdendomi chissà quali voci, quali ragionamenti!... Ed è con un’immagine che tento di riassumere tutti i miei dialoghi non ascoltati: Colonneje accanto a sua moglie Giuseppina davanti al fuoco, vicini, a narrarsi tutto quel tempo dissolto. Da casa mia erano pochi passi: entrambi ascoltai più volte (non visto) dall’uscio.



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