L’Abruzzo nella narrativa di Domenico Ciampoli

L’Abruzzo nella narrativa di Domenico Ciampoli

            a cura di M. Elena Cialente

 

 

Per chi voglia confrontarsi con un Abruzzo arcaico e carico di una vitalità primordiale e magica, la lettura delle opere di Domenico Ciampoli si pone come un percorso indubbiamente ineludibile. Nato ad Atessa, in provincia di Chieti, nel 1852, fu avviato agli studi a Vasto, poi a Sulmona e infine, negli ultimi due anni del liceo, a L’Aquila, dove forse conobbe Teofilo Patini. Dopo il liceo si trasferì a Napoli, dove si laureò in Lettere presso l’Università Federico II e dove entrò in contatto con gli intellettuali del tempo, tra cui Francesco De Sanctis e Bertrando Spaventa. Assorbendo gli stimoli e le influenze dell’ambiente culturale partenopeo, avviò la sua produzione di narratore e di traduttore, soprattutto dal russo ( a partire da Il pugnale di Aleksandr Puškin) e cominciò a pubblicare vari saggi letterari, collaborando con diverse riviste, alcune molto prestigiose. Iniziò anche la sua carriera di insegnante di lettere, spostandosi da Campobasso ad Ancona, da Foggia ad Acireale.

A Sulmona pubblicò già nel 1876, a ventiquattro anni, il volumetto Sulmona a volo d’uccello e l’anno successivo ad Avezzano Bianca di Sangro. Racconto storico abruzzese del secolo XII. Nel 1878 diede alle stampe la prima raccolta di novelle Fiori di monte, mentre al 1880 risalgono le raccolte Fiabe abruzzesi  e Racconti abruzzesi. Appartengono allo stesso genere Trecce nere (1882), Cicuta (1884) e  Fra le selve (1887).

Nel 1884 pubblicò anche il suo primo romanzo Diana, seguito nel 1890 da Roccamarina, a cui si aggiunsero nel 1894 Il Pinturicchio, nel 1896 L’invisibile e infine nel 1897 Il barone di San Giorgio.

Conseguita la libera docenza in letterature slave, cominciò la sua carriera di docente universitario nel 1887 a Catania, dove pubblicò la raccolta di saggi Studi letterari (1891), insieme ad altre traduzioni. Nel 1890 vi fondò e diresse <>, a cui parteciparono anche Verga e De Amicis.

Abbandonato l’insegnamento, nel 1898 vinse il concorso da bibliotecario, rivestendo anche la funzione di direttore. Fu così a Venezia, Sassari e Roma, dove morì nel 1923, senza aver mai trascurato di tornare saltuariamente alla pace della sua amata Atessa.

Ciampoli ci ha lasciato più di trenta saggi critici su autori italiani e slavi e almeno cinquanta opere di traduzione dal russo, serbo-croato, bulgaro e tedesco, ma anche dall’inglese e dal francese.

Tra gli autori tradotti troviamo Goethe, Turgenev, Dostoevskij, Cechov, Tolstoj, Rabelais, Puskin, Gogol, Nietzsche.

Fu traduttore anche di Kalevala, epopea finnica.

Nella sua produzione confluiscono sensibilità, temi e canoni tipici delle correnti a lui contemporanee quali il  Verismo, il Decadentismo e la Scapigliatura[i].

In qualche modo il Nostro fece propria l’istanza presentata da alcuni intellettuali che, su riviste come “Perseveranza” e la “Rassegna settimanale”, chiedevano di poter disporre in ogni regione italiana di “un narratore come Verga, il quale unendo la finzione alla realtà, potesse ritrarne i costumi, i caratteri e per dire tutto in una parola, l’ambiente”[ii].

E in verità tutta la produzione novellistica di Ciampoli sembra rispondere a un duplice intento: denunciare le difficili condizioni di vita delle classi deboli e diffondere usi e costumi regionali nell’Italia appena unificata. Gran parte dell’opera di Ciampoli è un enorme serbatoio a cui attingere per conoscere aspetti di cultura locale, basti pensare agli antecedenti di quella che per noi oggi è celebrata come una festa d’importazione statunitense quale Halloween, ma che trova un suo antecedente in quanto narrato in Trecce nere, presente nell’omonima raccolta, dove si legge che nella notte tra il 31 Ottobre e il 1° Novembre si preparava una gran mensa per il ritorno dei defunti. La gente delle contrade interne d’Abruzzo urlava picchiando sugli usci e portando “fiaccole strane” fatte con pali sormontati da un teschio dalle cui orbite fuoriusciva la luce di una candela: <>[iii], ci chiarisce subito il narratore, delineando per noi lettori moderni una sorprendente corrispondenza con uno dei simboli chiave della festa americana, ovvero la zucca di Jack o’ lantern.

Prenderemo ora in esame la raccolta Fiabe abruzzesi del 1880, benché tutte le raccolte rispondano apertamente ad una lettura in chiave socio-antropologica di un Abruzzo ancestrale. Le novelle che la compongono sono, infatti, ispirate a leggende locali, di grande interesse per gli aspetti demologici che esse contengono, fino a diventare uno strumento di conservazione del nostro folklore.

Ne La rupe della zita il narratore, viandante lungo la valle del Sinello tra Carpineto e Gissi, viene a sapere dal suo accompagnatore il motivo per cui la rupe posta a guardia di un orrido prenda il nome di “rupe della zita”: in un lontano passato vi era in quei luoghi un castello dominato da un signore crudele, che però aveva una figlia dolcissima. Un giorno un cavaliere si rifugiò nel castello e tra i due giovani nacque un amore che rimase segreto per timore della disapprovazione paterna. Purtroppo i nemici del giovane vennero a conoscenza del suo rifugio e lo stanarono con un sotterfugio: fu presentata un’offerta di matrimonio con la ragazza, che dovette accettarla con dolore. Durante le nozze un cavaliere armato lanciò un grido tra la folla e scomparve. La ragazza svenne e fu subito condotta via dallo sposo, ma presso la fantomatica rupe il fantasma del cavaliere amato, il cui corpo fu poi ritrovato in un fosso, la rapì e la portò con sé giù nel burrone. Di lei restò solo il velo, appeso ad un cespuglio. Qualcuno continua a vedere i fantasmi dei due innamorati aggirarsi in quelle contrade.

Nella triste storia dei due giovani, che getta l’ascoltatore-viandante in uno stato di infinita mestizia, non si fa fatica a riconoscere i tratti della ghost story tessuta attorno a quel legame tra amore e morte che tanto rispondeva al gusto romantico e poi decadente su cui si era forgiata gran parte della letteratura ottocentesca e che si era magistralmente espresso attraverso la narrazione di genere fantastico.

La stessa sensibilità lascia la sua indiscutibile impronta ne La maggiorana: la novella spiega le origini di quella tradizione diffusa sulle montagne dell’Abruzzo teatino che consisteva nell’apporre un piccolo albero fiorito davanti alla porta dell’innamorata da parte del fidanzato nell’ultimo giorno di Aprile. Nel testo si fa risalire tale usanza ad una tradizione del passato che vedeva, in quel giorno, i contadini mettere in mostra sull’aia animali e frutti del loro raccolto, tra cui primizie di stagione, adornando il tutto con i fiori. Si passava così l’intera notte in compagnia, raccontando storielle e cantando. Le primizie esposte venivano poi offerte l’indomani alla Madonna. Si narra che nel corso di quella stessa notte le ragazze usassero pregare la Vergine affinché le aiutasse a trovare un marito. Fu così che una delle giovani, dopo sette anni di preghiere e di inutile attesa, chiese alla Madonna di mandarle uno sposo o di farla morire. La ragazza si ammalò e morì, ma a questo punto la realtà si scinde su piani antitetici, corrispondenti a quella frantumazione dei punti di vista e a quella coesistenza degli opposti che è tipica del fantastico: lì dove la madre vedeva il becchino, la corona funebre, il carro che veniva a prenderla, la giovane e la gente vedevano un nobiluomo vestito d’oro su una carrozza, anch’essa dorata, che giungeva a prelevarla per condurla all’altare. Ciò che era un velo funebre per la madre, era invece dagli altri percepito come un abito da sposa.  Quando la carrozza raggiunse il camposanto, tutti videro uscire dal suo interno una fanciulla che, volando sul paesello, lasciò cadere sulla sua casa un gambo dell’albero di Maggio. Di qui la tradizione detta appunto Maggiorana.

Fantasmi e atmosfere lugubri fanno da sfondo anche al racconto Il poema di Corradino. Nei Piani Palentini, presso Tagliacozzo, la leggenda vuole che per tre secoli fosse ancora visibile come nel giorno della morte di Corradino, una nuvola rossa grondante sangue, finché un giorno si appalesarono i fantasmi dei soldati del giovane sovrano: un esercito di scheletri che avanzava salendo il colle della Scurcola fino all’antico tempio. Una nuvola li avvolse e circondò l’edificio: infine non rimasero che rovine.

Nel racconto Il duca zoppo torna il topos del castello maledetto, questa volta identificato nel castello di Popoli, il cui signore, secondo la leggenda, era figlio del diavolo e di una suora da lui sedotta e morta di pianto. Il bambino era stato allevato dal signore del castello come un figlio, dono del demonio, divenendo in seguito duca di Popoli. Un giorno il castellano chiese di godere dello ius primae noctis su una timida fanciulla del villaggio, ma mentre si recava nel giardino dove avrebbe dovuto incontrare la ragazza, fu colpito da pietre e cadde da cavallo. Rimasto zoppo dopo la caduta, il duca si mostrò pentito e cominciò a fare opere di carità, in risarcimento del male commesso. Si dimostrò anche disposto a perdonare il giovane sposo che l’aveva colpito e reso zoppo, convincendolo a tornare in città dopo sette anni di latitanza. Il duca zoppo organizzò un sontuoso banchetto nuziale per il giovane attentatore e la sua amata, invitando tutti i loro parenti, ma quando chiese alla sposa e alla madre della giovane di aprire le pentole per iniziare il pranzo, in quella presentata alla fanciulla comparve la testa del giovane sposo. A quel punto entrarono le guardie del duca che trucidarono tutti i presenti, eccetto il prete, che fu imprigionato e portato alla morte per fame. Il racconto termina con l’affermazione che forse << è storia ed è in voce di leggenda>>, lasciando il lettore nell’incertezza circa la veridicità di quanto narrato, ma confermando le atrocità a cui può abbandonarsi chi ha potere di vita e di morte sui propri sottoposti. L’Unità d’Italia aveva lasciato tante ombre e condizioni di vita durissime presso gli strati più deboli della popolazione e di lì a poco Bava Beccaris avrebbe sparato sulla folla.

Non è dunque per puro caso che nella Prefazione e dedica di Trecce nere (1882) leggiamo:

«Si troverà tra povera gente, buona come l'aria de' greppi, forte come la quercia de' dossi, impetuosa come l'irrompere delle fiumare; e nelle usanze strane che vanno scomparendo con l'avanzare della vaporiera, nel grido di chi vuole lavoro e pane, nello scoppio selvaggio delle passioni, Ella riconoscerà la poesia, la miseria e il carattere de' nostri contadini».

Pur riconoscendo, secondo il suo punto di vista, "che l'arte non debba avere scopo", il nostro Autore non può negare che anche dall'arte si possano trarre considerazioni utili per il bene di chi vive in condizioni di estrema difficoltà:

 «E là, tra le nostre valli, sui nostri monti, la povera gente soffre;  e se queste pagine, che d'arte non hanno se non la nativa schiettezza alpigiana, varranno a scoprire parte di que' dolori, a far soccorrere alcuno di que' derelitti, io sarò lietissimo di averle messe fuori».

Anche la raccolta Cicuta del 1884 sembra rispondere all’esigenza di una narrativa impegnata dal punto di vista sociale: infatti, da profondo conoscitore dell’animo femminile, Ciampoli usa la scrittura anche come strumento di denuncia della difficile condizione della donna nella società patriarcale così come nella contemporanea realtà borghese. Le sue eroine affrontano con coraggio la lotta per la sopravvivenza, ma sono spesso sconfitte da una comunità piena di pregiudizi e insensibile al loro bisogno di riscatto. Gli stereotipi sociali danneggiano persino chi ha una forma di apprezzabile indipendenza economica ma è sola al mondo (come la “maestrina” dell’omonimo racconto, vittima di quello che oggi definiremmo uno stalker o la maestra di Trovatello, che deve abbandonare il suo bambino perché nato fuori dal matrimonio). In ultima analisi sembra che la donna risenta ancor più dell’arretratezza economica e della crisi del sistema agro-pastorale a cui l’Abruzzo interno è andato incontro nel corso dell’Ottocento, una terra impervia e “primitiva” in cui la montagna viene letta come uno degli elementi dominanti, proprio mentre andava spopolandosi a favore della costa o a seguito dell’immigrazione verso contrade lontane. Domina nell’ animo delle eroine di queste pagine un senso di rassegnazione verso le angherie dei “signori” e della natura stessa, che nulla toglie, tuttavia, alla grandiosa dignità della loro persona.

Leggere le novelle di Domenico Ciampoli significa immergersi in un mondo a cui non possiamo e non dobbiamo rinunciare, un universo in cui scopriamo le nostre radici e il seme di ciò che siamo, senza sottrarci al fascino della pura affabulazione.

 


[i] Per un approfondimento sui legami dell’autore con le correnti e gli intellettuali del suo tempo, si consiglia la lettura della  Presentazione al romanzo L’invisibile, a cura di Vito Moretti, Solfanelli, 2018

[ii] Cfr. la Postfazione in D. Ciampoli, Cicuta,  a cura di Silvia Scorrano, Solfanelli, 2019

[iii]D. Ciampoli, Trecce nere, Treves, 1882,  pag. 34



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