COMPARIVA PAULETTE E SI VOLTAVA TUTT’ASSERGI

     COMPARIVA PAULETTE
E SI VOLTAVA TUTT’ASSERGI

 

- di Fernando Acitelli -

 

 

È esistita la grande stagione di Paulette! Non sapevo come si scriveva il suo nome ma l’importante era il suono: Paulette o Polette non cambiava e per me sarà sempre quel suono a distinguerla. Altri, in seguito, azzardarono anche Paolina, come la sorella di Napoleone, ma, lo ripeto, in me valeva quanto ascoltato cioè Polette: il suono incantava. E anche gli abitanti di Assergi la pensavano così. Me la ricordo ancora adesso come uno degli affreschi più belli. Viveva in Francia ma i suoi genitori erano di Assergi: precisamente Desolina Corrieri, (Desolina, come un personaggio del romanzo Il mulino del Po di Riccardo Bacchelli) e costei era figlia della Comare della Foletta, Maria, e di Franco. Il padre di Polette si chiamava Franco Faccia, uno dei figli della sempre cara Zagotta di cui ancora oggi prevale in me il soprannome mentre sono ancora distante dal suo vero nome.

Paulette! Polette! Già il suono scuoteva l’animo, qualcosa che a quel tempo non poteva rimandarmi ai versi di Paul Verlaine o al vaudeville di Georges Feydeau, ma che dentro smuoveva qualcosa: tante carezze, questo pensavo. Un nome mai sentito ad Assergi pur tra le tante ragazze che d’estate tornavano dalla Francia. Essendo la Zagotta la nonna di Paulette, era chiaro che custodissi bene in mente i luoghi che riguardavano la vecchia signora, vale a dire la sua casa in quella rientranza della Strada Ritta, da Petetta per intenderci, e vicino ad Annarella, la madre di Checco di Ballarine; a breve distanza, anche, dall’arco di Felicetta. Ma lo spettacolo della nonna di Paulette era la tracenna nella quale trascorsi un pomeriggio con mia zia Brigida: non ricordo perché finimmo lì. Situata vicino al Camposanto, quella costruzione m’appariva un luogo splendido e dal quale si poteva più facilmente lanciare un pensiero ai nostri morti. Il sole di quel pomeriggio, la loquacità della Zagotta, i suoi sorrisi che io amavo anche perché, cosi facendo, finivo con l’innalzare Paulette.

Quella ragazza tornò d’estate un paio di volte, al culmine della sua bellezza. Alta (ma io ero un fanciullo!), con i capelli neri e un po’ gettati sulla fronte, e poi con quel particolare che non lasciava scampo a chi la incontrava: la minigonna! A quel tempo la minigonna stordiva! Uno tornava a casa senza ricordare dove era stato, cosa avesse fatto. La minigonna ondeggiava in aria, ed io con lei poco prima delle nuvole. Ma chissà cosa avrei voluto fare? E se alla visione di ben modellate gambe s’abbinava un viso con i fiocchi, ecco che s’usciva più che rasserenati. Ma era anche vero il contrario e il fatto che lei rappresentasse qualcosa d’irraggiungibile, spostava il sereno in tristezza. Così finivo per idealizzare quel luogo, in quelle estati era sicuramente il più importante per me. Le sue vacanze non prevedevano grandi spostamenti nel paese ed io la vedevo sempre attorno alla casa della sua nonna materna. Gli spazi che la riguardavano erano proprio da quell’uscio alla loro ara di fronte: il suo muoversi tra questi due luoghi avveniva con leggerezza, quasi in punta di piedi e la possibilità d’incrociarla durante questi suoi spostamenti era grande. Anche adesso quello spazio è decretato dalla sua lontana presenza (almeno questo accade a me) ed è come quando certe strutture del cervello – la sotto corteccia - sanno restituire i profumi, le lontane fragranze di un determinato luogo.

Paulette non si vedeva mai in giro e per poterla incrociare era necessario passare nei luoghi sopra indicati e magari stazionare lì e attendere con pazienza il suo apparire. Si potevano chiamare tranquillamente appostamenti, un po’ come i bravi, cioè gli sgherri di don Rodrigo nel romanzo I promessi sposi quando attendevano il prete don Abbondio sulla strada di casa. L’appostamento poteva anche andare bene soltanto che in quel luogo non c’erano scale esterne come in molte case di Assergi e l’unica possibilità era decretata da un muretto poco prima della sua casa: tante volte mi ci mettevo di punta, mi sedevo sul muretto oltre il quale c’era l’orto di Mario Acitelli, e fantasticavo. Del resto il tempo a mia disposizione era infinito essendo quello della fanciullezza, e allora rimanevo lì a comporre sogni. Questo fatto che non la vedessi in giro un poco m’intristiva e neanche nei giorni della festa potei scorgerla in Piazza. «Ma com’è possibile che sta tutto il giorno in casa?». – mi ripetevo. Forse passando la banda o la processione non dico che sarebbe uscita di casa ma era probabile che si posizionasse dietro i vetri e così il suo viso sarebbe stato compreso tra la cornice della finestra. Un dipinto! Mi sarei dunque dovuto incolonnare dietro i musicanti oppure seguire il ritmo della processione. Ma non avevo pazienza, saltavo da un posto ad un altro, m’invaghivo di tante immagini, di tanti luoghi, dovevo avere uno sguardo per tutto. Ma almeno nel giorno del Ferragosto sarebbe potuta sortire, certo, farsi ammirare, chiedevo soltanto questo, e quando nei giorni feriali gli altri in quel tratto di strada descritto si voltavano verso di lei (ed erano in tanti), dire che ci rimanevo male è poco.

La ricordo assieme ai suoi fratelli, alti, ben messi, con indosso per lo più una camicia bianca e dei calzoni neri, stretti. Posso dire, nel ricordo, che fosse quella la loro divisa ufficiale e insomma era un trio che si distingueva dalla Porta del Colle fino alla casa di Antonio e Linda. Oltre non andavano. Il trionfo degli anni ’60 a ben vedere, e incrociando i due fratelli non potevo che pensare ai Beatles, grazie anche alla loro chioma a frangetta. Magri, snodati, atletici incarnavano il fascino di quell’epoca. Osai dei veri zoom sugli stivaletti che calzavano e li tenni sempre a mente via via che avanzavo verso la giovinezza. Già all’apparire dei due fratelli, ero aggredito da un favorevole stupore: il loro abbigliamento sembrava trasformare in meglio lo scenario. Uno dei due era proprio bello, quasi da fotoromanzo. Conoscevo i loro nomi, Giuseppe e Mario. Un giorno li sentii pronunciare dalla nonna: fu la Comare della Foletta che mi permise d’impossessarmi di quei nomi. E mi ripetevo: «Beati loro che stanno tutti i giorni con Paulette!».

Si seppe che avevano perduto il padre giovane, un altro motivo, all’epoca, per tenerli in gran considerazione.



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