I “sanpietrini” di Assergi - di Marco Ippoliti

I “sanpietrini” di Assergi

- di Marco Ippoliti -

Ancora un estate che doveva trascorrere, ancora un qualcosa da ricordare nel tempo che fu.


E venne l’anno dei sampietrini, non quelli di via Nazionale a Roma che portavano a Piazza Venezia, gioia dei turisti capitolini e cruccio dei motoveicoli nella giornata bagnata dalla pioggia.
Venne l’anno dei sampietrini di Assergi che ne avrebbero modificato la struttura stradale e cambiato il panorama intimo delle sue strette vie.
Non lo  skyline, che si osserva dalla provinciale e da sempre è immortalato in foto e cartoline, ma la sua pavimentazione, “ai piedi” per  la posizione, ma non meno nobile ed essenziale per la collocazione.

Prima di allora ricordo il colore chiaro di quei precedenti sassi con cui erano state costruite le stradine, completamente diversi e asimmetrici, per dimensione, posizione e vetustà.
Levigati ormai dal tempo come palle da biliardo, ognuno aveva dimensione, posizione e altezza diversa, piegata da chissà quanti anni di onorata presenza in loco.
Stanchi, piegati dal tempo e dal clima. Tondi come testoline calve.
Di colore prevalentemente  avorio, con ciuffetti di erba che si intrufolavano  tra l’uno e l’altro, lasciavano scivolare maldestramente  l’austero scarpone anche senza  l’aggravamento della meteorologica precipitazione piovosa.
A volte ricoperti da un po’ di muschio, a volte “oltraggiati” da irriverenti ricordini equini.
Chissà a quale periodo risaliva la loro messa in opera, chissà che fine hanno fatto dopo la loro rimozione, portatori di ricordi antichi, chissà se hanno perpetuato la loro opera manifatturiera anche in seguito e dove, chissà.
Sono stati sbriciolati, sono diventati muretti, sono stati abbandonati nella sponda di un fiume, sono diventati “risulta” per terrapieni?
Hanno visto il trascorrere delle stagioni, hanno incontrato il nonno, la zia, il soldato, ...potessero parlare e raccontarci del loro trascorso quotidiano.
Certo io conoscevo a memoria quelli davanti casa, la mia via importante arteria del Paese non troppo ripida, ma già dalla Piazzetta del forno verso la parte alta posso immaginare quanti “ruzzoloni” siano capitati a uomini e zoccoli.
Guai a correre o peggio andarci in bicicletta.
Ma ero ancora piccolo e un anno fui accolto dalla vista di volenterosi operai di antica esperienza che cominciarono a lavorare.
Come una leggera onda, con tecnologia e modalità non troppo dissimile da quello che potrebbero utilizzare oggi, toglievano, spianavano la renella bianca che avrebbe accolto quelli nuovi e piano piano col “maleppeggio” cominciavano a disegnare la “nuova” pavimentazione che ancora oggi viene calpestata.
Il capo mastro dettava i tempi e coordinava il da farsi, calcolava la pendenza e la simmetrica sistemazione, il disegno per convogliare lo scorrere  della pioggia.
Lentamente  fino a un certo punto, perché bisognava fare tutto nello spazio del tempo di una stagione benevola.
Il  piccolo paese era grande e famelico di novità e i giorni passavano veloci.
E noi ragazzini accompagnavamo giorno dopo giorno quel fiume di pietra grigia che avanzava, apprezzandone il rinnovato aspetto.
Era tutto così nuovo, cosi pulito, cosi moderno, Assergi era un altro Assergi.
Non ricordo se qualche anno prima o dopo erano arrivate anche le luci prima inesistenti, che con giallognolo tepore, illuminavano le notti dando si sicurezza ma togliendo intimità agli amori che ogni primavera sbocciavano.
Chi legge queste righe è forse frutto di quei baci nascosti scambiati sotto gli archi.

Ogni mattina si correva un po’ più in là, scommettendo dove sarebbero partiti e dove sarebbero arrivati gli operai e con cazzuole a loro rubate, qualche volta abbiamo “aiutato” anche noi tronfi di tanta abilità, dando un po’ fastidio ma anche accompagnando le giornate faticose, dove le carriole cariche di ogni cosa facevano la spola tra la Porta del colle, ultimo parcheggio del camion da trasporto e il luogo di messa in opera all’interno delle mura.
Si scaricava il masso, la sabbia e si ricaricava il tolto, in un andare e venire come laboriose formiche.

Anche quei pesanti sampietrini sapientemente tagliati in precise forme diventavano per noi occasione di svago.


E’ qualche anno che non vengo, ma ogni volta li osservo e ricordo perfettamente il momento in cui quel sampietrino è stato posizionato ed ha preso il suo posto e li è rimasto a compiere il suo servizio.
Forse non il giorno esatto o l’ora, ma la sensazione provata.
E’ un’immagine stampata nella fotografia interna della mente.

Quegli omini andarono via un pomeriggio di fine agosto, dopo aver accompagnato le nostre giornate di spensierata fanciullezza.


 



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