I SILENZI DI GIANNATT - di Fernando Acitelli

I SILENZI DI GIANNATT

 

di Fernando Acitelli

 

Si poteva ben dire come Giannatt fosse l’osservatore più attento di quel tratto di Assergi che partiva dalla casa dei Lalli fino alla nicchia con la Madonna. Non seppi mai il suo nome e m’adeguai a quel suono che forse doveva indicare qualcosa della famiglia perché non mi pareva un soprannome come poteva essere, ad esempio, Maria de Cicchianne detta Pompa, ma una sintesi dentro la quale era rappresentato – appena in una parola – un mondo. Era il nonno di Gianfranco e Maria Giuseppina, il padre di Nicolina ed il suocero di Lautino. Gianfranco nacque proprio quando morì don Ermanno Morelli e dunque doveva essere gennaio. «Retroverne ‘u prete ‘n terra!...» - così si disse.

La situazione che si creava in quello spazio appena descritto, vale a dire dalla casa dei Lalli alla “Bucia”, era per me incredibilmente bella. I silenzi parlavano: questa la verità. Il citato Giannatt, si spostava dall’uscio di casa arrivando alla fine degli “arboretti”. Lì giunto, indugiava un poco, osservava eventuali novità nello sguardo delle persone, possibili mutamenti nello scenario, dopodiché resosi conto che l’acqua alla fontana cantava ancora e che era quella l’immagine più bella, poteva fare dietrofront e dirigersi nuovamente verso casa. Con il bastone che lo sosteneva, egli compiva piccoli passi ed era quella la sua ronda. Si potrebbe dire che la sua “felicità” era ormai racchiusa in questi spostamenti. Ci metteva del tempo per compiere queste due traiettorie ma non che avesse tanto altro da fare e dunque era affezionato a quel segmento. Ora, se lui incrociandomi emetteva un lieve suono per salutarmi (forse il mio non vivere ad Assergi mi conferiva quasi un’aria da forestiero con l’occhio lungo, e dunque “di rispetto”), e di questo lo ringraziavo con un sorriso, c’è da sottolineare quella situazione incredibilmente bella (per me) che si creava davanti all’uscio della sua abitazione. Di fronte c’era la casa di Giovanni gliu Turch (preferisco nominarlo in dialetto così per non finire in un film di Totò), il quale rimaneva per buona parte del pomeriggio seduto dinanzi all’uscio di casa poggiandosi con i gomiti sulle ginocchia e rivolgendo lo sguardo in terra. Naturalmente valutavo quel suo silenzio come proficuo e chissà quali e quanti scenari attraversava ogni giorno con la mente stando seduto in quella posizione. Particolare da non sottovalutare: teneva le scarpe slacciate con i lacci a finire con la punta in terra. Si trattava dunque d’un completo abbandono, da stoico, da uno che sopporta i dolori della vita con impassibilità. Non poteva interessargli più nulla, almeno da quella sua posizione potevo cogliere questo.

Ora, i silenzi di Giannatt erano sostenuti da quelli del dirimpettaio Giovanni gliu Turche, e così la disfatta della vita si poteva cogliere proprio da simili accoppiamenti: chi era magari impossibilitato a parlare e chi vi aveva definitivamente rinunciato per motivi interiori e per me tutto questo mi chiariva tante cose alle quali i due personaggi erano già arrivati: l’insensatezza del mondo. Se li avessi scossi, anche lievemente, magari per farli un po’ parlare, ero sicuro che la loro risposta sarebbe state: «Vattenne, sa!».

Anche un altro silenzio s’avvertiva dalla vicina casa di Milord, dove abitava la famiglia di Peppe d’Adame, ed era impensabile che costui alzasse la voce né che lo potessero fare Adamo, Rita e Mimina.

E tutto questo contrastava con le voci che provenivano dalla casa di Zì Antunine, dove la voce di Silvestro s’imponeva senza che i cognati potessero intervenire e in quei momenti ciò che valeva era la fase diplomatica di Maria contro la quale neppure un iroso Silvestro poteva nulla: doveva trovare un cantuccio anche lui sebbene continuasse a chiamare in scena tutti i santi. In quei momenti sarebbe stato interessante osservare gli sguardi di Antonio e Checco, lontani anni luce dalle urla, non predisposti alle contumelie e votati sempre (parrà strano ai più) alla riflessione. Antonio specialmente doveva curare e aggiornare tutte le medagliette di santi che teneva fissate sul lato sinistro della giacca, sotto il taschino.

E così si può dire che ogni rione di Assergi si divideva in piccole sezioni ed in ognuna di queste accadevano dei fatti e così la storia di tutto il paese avrebbe dovuto tenere conto di simili avvenimenti anche per poter ricostruire vicende e personaggi. Ad esempio prima dell’arco degli Zì Giocond, ovvero dalla casa di Domenico Giampaoli, ‘u Papa, era un silenzio continuo e giù scendendo esso si manteneva integro fino alla Piazzetta del Forno dove, tra l’altro, Angela Rosa rivolgendosi al suo nipote Dino parlava sempre a bassa voce e con la mano dinanzi alla bocca, e questo per non far cogliere nemmeno una parola a passanti e avvistatori tutt’intorno, né che questi potessero cogliere le frasi dal labiale.

Questo è un paese che non c’è più ma che non si può dimenticare, sarebbe come non recarsi più al cimitero dove i nostri cari ci attendono con ansia.



Condividi

    



Commenta L'Articolo