La Festa di San franco e il dietro le quinte, anzi “sotto le quinte”

La Festa di San franco e il dietro le quinte, anzi “sotto le quinte”

 

 

 

La regina dell’estate, nelle giornate di ferragosto in un momento semiserio di scorribande fanciullesche

- di Marco Ippoliti -

 

Povero, si fa per dire, Antonio Giampaoli, arbitro dei ricordi a lui consegnanti sul prato virtuale, di “Assergi racconta”.

Chi rimembra di più, chi rievoca con esattezza fatti, cronache, nomi e avvenimenti, chi fantastica un po’, chi interpreta le vicende analizzandole dal proprio punto di vista, chi pigramente si mette alla finestra, pardon allo schermo, e le legge, immaginandosi più o meno protagonista e spettatore di quello o di quell’altro succeduto più che avanti ieri.

Si sta instaurando una simpatica gara storico/didascalica dei trascorsi, su quello che si è vissuto tanto tempo fa in questo stupendo paesino abruzzese.

Invidio chi, (leggi Fernando detto Nando), oltre ai fatti, ricorda precisamente e con dovizia di particolari, magari per vincoli di parentela, anche i nomi e i soprannomi che in me si mischiano ai volti e agli indirizzi, in quella simpatica confusione temporale.

Non c’è da decretare chi è più veritiero testimone del tempo, vincitore per circostanze narrate ed evocate.

Anzi, lanciando l’invito che la tenzone narrativa si faccia ancor più frequentata finché ce ne sarà da dire e “raccontare”, tutto sia ben accolto.

C’è solo da sostare qualche minuto, salendo sul treno del passato, per abbandonarsi a quelle sensazioni di ieri, che hanno dipinto il proprio vivere che ormai è corso via.

 

San Franco e la sua legenda hanno radici così radicate e importanti che non mi permetto certo di affrontarle.

Fanno parte del tessuto di Assergi fin dalla notte dei tempi, una comunità montana che si è insediata e radicata nelle pendici del Gran Sasso da tempo immemore, nel compimento del duro lavoro montanaro e contadino, nel culto del proprio venerato Santo a cui affidare speranze e ringraziamenti per l’ottenuto e il desiderato.

Un po’ più superficialmente invece mi soffermo su quelle due o tre giornate che tutti aspettavamo, viste sempre dal punto di vista del “giovane villeggiante” che ero.

 

Se come detto era la banda a dare al paese l’avviso ufficiale della manifestazione religiosa e popolare che stava per cominciare, era il montaggio del palco (che dalle ultime foto dovrebbe essere ancora quello, magari riverniciato), il segno tangibile, qualche giorno prima,  dell’inizio dei festeggiamenti.

E l’arrivo di un paio di bancarelle era la conferma. Le ritrovo ancora oggi in altre sagre, in altre parti di Italia, sempre uguali a se stesse non scalfite dalla modernità.

Si posizionavano l’una con le spalle alla Chiesa, e l’altra di fronte, attaccata al palco, con i loro camioncini che avevano, nella notte, macinato chilometri e già di prima mattina i cavalletti che sostenevano la mercanzia, con stanchi drappi e improbabili paramenti, erano stati sistemati.

Filari di lucette avrebbero illuminato la sera e gli orpelli a ornamento dei lacci di liquirizia, lunghi, corti, arrotolati o a pasticche, sacchetti di bruscolini e lupini, gessetti zuccherati, monetine di surrogato di cioccolato, torrone anche se è estate,  croccante di noccioline e sesamo, le immancabili carrube, in bella mostra sul banchetto.

Ma poi quelle bottigliette trasparenti a forma di orsacchiotti, ripiene di colorato liquido dolciastro, fatto con chissà che cosa, specchietto per pericolose tentazioni dolciarie.

Bamboline, perline, macchinette, braccialetti, anellini, tutto di plastica, fucili e pistole a tappo, variegato allestimento da fiera del paese dei balocchi.

Una di queste, che ritrovavo ogni anno, era gestita da una famiglia di ambulanti nomadi, originari del sud, con il figliolo della nostra stessa età che scalpitava per venire a giocare con noi, anche promettendo un pallone, ma che il papà limitava nel suo voler andare in giro, per la gestione e conduzione di quel “variopinto negozio  itinerante”, fonte per loro, di sostentamento.

Lui piccolo di età, ma adulto nei modi, palesava gesti zingareschi, ingenuamente da duro, che celavano timidezza, fragilità e voglia di essere un bambino normale.

 

Il Palco, il nostro protagonista, pur non grandissimo, con la sua forma ottagonale,  riempiva il sagrato e ne prendeva la scena, e senza disturbare la medievale vestigia, si integrava con la maestosità della Piazza del Santo.

Sarebbe stato il pulpito pagano dove la sera  avrebbe preso vita lo spettacolo musicale ad opera di uno dei vari gruppi folcloristici famosi nella regione.

Di giorno era preso di assalto per un’altra improvvisata palestra di gioco.

Ben assestati spessori di legno nella sua parte posteriore (manufatti con la maestria), assecondavano la asimmetrica pendenza del pavimento, colmandone il dislivello, e con un pericolo, oggi sicuramente non sottovalutato, agevolavano la nostra intromissione al suo interno quale improvvisata tana.

Il “passo del giaguaro”  per la “felicità” dei pantaloncini, delle ginocchia e delle mamme, ci permetteva di penetrare nel suo “sotterraneo” pertugio  e li sotto farneticare in un funzionale rifugio insperato per giochi e nascondini.

Ma attenzione, non solo!

Col beneficio di quello che poteva passare per la testa di noi ragazzini, certo vivaci ma non incalliti malfattori, quel “sotto le quinte” improvvisamente diventava complice per la marachella del secolo.

Giungevamo per la scorribanda all’imbrunire, quasi senza aver cenato, prima dell’avvio del musico intrattenimento, nascosti al suo interno e con la piazza non ancora gremita, arrivavamo fin sotto la bancarella, come detto li addosso allestita, e non visti e coperti alle spalle da cotanta trincea, furbescamente, allungando la mano, “rubacchiavamo” qualcosa di quello esposto, senza un vero e proprio obiettivo, ma con il buon sapore dell’ardita azione.

Una destrezza non certo studiata, ma che aveva, e non tanto per il bottino di infimo valore, ingiustamente sottratto, il buon gusto di conquista.

“Ragazzate” non troppo gravi, ma vorrei rincontrare quel ragazzino, scuro nel corpo per  provenienza e “igiene”, per scusarmi (impunemente autoassolto) e ridere di quei fatti.

 

Alla fine però arrivavano loro!

“Le Sciantose”, forse una delle espressioni dialettali più antiche e apprezzate della storia delle sagre italiane soprattutto del centro sud italiano.

Il termine nasce come una storpiatura, più che un’evoluzione, della parola francese “chanteuse”, ovvero “cantante”.

Tre, quattro, forse cinque “ragazzotte” di paese che ornavano il palco, prima complice involontario e restituito al suo nobile compito per la serata tanto attesa.

Un inutile presentatore, il “mangiafuoco” impresario d’altri tempi, l’immancabile fisarmonica, e una strumentazione non troppo “altamente tecnologica” per il complessino di pseudo Beatles, alla quale nessuno prestava poi tanta retta, davano vita alla serata artistica.

Non ricordo il titolo di una canzone, non ricordo un ritmo, ma ricordo che conquistato il posto sulle scalette, in prima fila quindi, rivolgevo il mio sguardo alla vista delle prime “gambe scoperte” ben tornite, fuoriuscite dai primi “mini short”  che cominciavano ad imporsi nella moda sessantottina  che le suddette dovevano esibire.

Tra un pezzo e l’altro mi giravo osservando la piazza ormai piena secondo una precisa liturgia delle posizioni.

I ragazzini come rumoroso avamposto, i giovincelli come seconda linea, sigarette, ammiccanti sorrisi e spintoni per chissà quale sognata conquista e le compaesane a lanciargli sguardi, iracondi per l’osso rubato.

Le comari ai lati della improvvista guarnigione, a sottobraccio di vicendevole protezione, con gli scialli colorati tirati fuori per l’occasione “…che di sera in piazza fa sempre  fresco” e in alto, appena sotto la sagrestia, i vecchietti, giunti con calma da ‘na Porta, con i loro cappelli, apparentemente “smaliziati” dalla invernale visione delle “Sorelle Kessler” della TV, per chi ne era in possesso, gaudenti di ammirare però quelle vere, nostrali e ruspanti in performance dal vivo, a così poca distanza.

Innocenti e peccaminosi pruriti di altri tempi.

Appena accennati lustrini delle suddette subrette colmavano la loro mancanza di diottrie, ma la decenza della senilità ormai sopraggiunta non permetteva, certo, l’avanzamento delle posizioni per l’ osservazione più ravvicinata e peccaminosa.

Ma ad Assergi abita tutta questa gente? Ma di giorno dove sono?

Non era una gara canora, non veniva proclamata una vincitrice, e non certo per l’abilità canora o la bellezza della canzone, magari in testa alle classifiche che iniziavano a riempire i palinsesti radiofonici, ma di certo, l’eletta reginetta della serata, la più carina, veniva invitata più volte a riprendere la ribalta e a ripetere la sua prestazione, in un tripudio di applausi e innocenti compiacimenti, maliziosi ma mai lesivi offensivi.

Le luci si spegnevano con tutti che tornavano alle proprie case, sgranocchiando l’ultima nocciolina, appena ieri avevamo visto il film proiettato sul lenzuolo sul muro, steso e pendente sotto le campane, tutto era stato intenso, veloce.

Tutto Assergi, chi più chi meno, era stato coinvolto, e avendo rispettato la ritualità della tradizione, già si pensava al ferragosto successivo con San Franco in processione nell’atto di ammansire la bestia feroce.



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