ANTONIO GIUSTI, MIO ZIO - PIER PAOLO PASOLINI, POETA - BEPPE FENOGLIO, SCRITTORE

ANTONIO GIUSTI, MIO ZIO - PIER PAOLO PASOLINI, POETA - BEPPE FENOGLIO, SCRITTORE

 

- di Fernando Acitelli -

 

Oggi, 5 marzo 2022, Pier Paolo Pasolini avrebbe compiuto cento anni.

 

Cos’è che può legare queste tre esistenze? L’anno di nascita: il 1922. Dunque sono cento anni per Pasolini, nato a Bologna il 5 marzo; per Beppe Fenoglio, nato ad Alba il giorno 1° marzo; per Giusti Antonio, nato ad Assergi qualche mese più tardi, precisamente il 13 luglio. La vita più quieta ed anche più lunga ha riguardato mio zio Antonio: se n’è andato infatti a 96 anni avvicinandosi all’età della madre che di anni ne aveva 97.

 

Beppe Fenoglio morì nel 1963, dunque a quarant’uno anni ed il primo pensiero è che egli ci avrebbe potuto donare tante altre opere di valore dopo I ventitre giorni della città di Alba e Una questione privata, tanto per citare alcuni suoi libri. Sono da citare infatti anche Il partigiano Johnny, La malora, Primavera di bellezza. Partigiano nelle sue Langhe, profondo studioso della letteratura inglese, soprattutto del ‘600, è divenuto oggi un classico. Sguardo autentico, così bene diviso tra l’amore per la sua terra, il desiderio di quiete, e poi la passione per lo studio e la scrittura. Immagini cult quelle in cui appare con il vestito chiaro e l’inseparabile sigaretta. Lo amo “anche” per questa sua vicinanza anagrafica con mio zio Antonio.

 

Pier Paolo Pasolini se ne andò il 2 Novembre del 1975. Si trattò di omicidio. Da quella tremenda notte all’idroscalo di Ostia, non s’è ancora riusciti a fare luce. Poeta, soprattutto, - Le ceneri di Gramsci, L’usignolo della chiesa cattolica, La religione del mio tempo, Poesia in forma di rosa - ma anche romanziere con Ragazzi di vita, Una vita violenta e Petrolio, quest’ultimo testo uscito molto tempo dopo la sua morte. C’è inoltre da ricordare la sua opera di saggista con Scritti corsari, Passione e ideologia, e la raccolta di articoli Lettere luterane, pubblicata nel 1976. Poeta, certo, ma anche cineasta con la borgata romana portata in luce, si pensi a film come Accattone, Mamma Roma, La ricotta; per passare quindi alla Trilogia della vita con il Decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore delle mille e una notte. Ci fermiamo qui perché la sua opera è vasta come pure la bibliografia su di lui.

 

Pasolini ha rappresentato la coscienza civile del Paese, l’uomo contro il potere, il capitalismo ed il consumismo (quest’ultimo da lui considerato come il nuovo fascismo); l’idea di progresso ma non quella di sviluppo; e inoltre quello che lui osservava di più inquietante, ovvero l’omologazione, tutti gli individui come polli d’allevamento usando proprio il linguaggio della televisione, vero medium di massa. Anche i ragazzi delle borgate, poveri, sarebbero diventati consumatori, piccolo-borghesi, cioè schiavi del capitalismo. E tutto quello che egli profetizzò s’è tristemente avverato. Se oggi fosse ancora vivo, sarebbe terrorizzato da questo mondo.

 

Fu il primo a mettere in piazza la propria omosessualità, a fare outing come oggi si dice, mentre anche quelli che passavano per “progressisti” prendevano le distanze da lui. Pier Paolo non avrebbe mai usato la parola outing, così attento lui al linguaggio che era poi quello del potere. Non ci fu campo di calcio - Pasolini fu anche un bravo calciatore con la Nazionale di attori e cantanti – dove non fosse deriso e offeso. E lui che accettava tutto senza mai reagire. Fu profeta dunque e, rispetto alla società, stava avanti di almeno trent’anni. Ma oggi chi legge Pasolini? Chi vede quel film capolavoro intitolato “Accattone” che apriva gli anni ’60? Rimane il suo sguardo scavato, il ricordo delle notti romane, delle cene alla trattoria Biondo Tevere, l’ultimo luogo prima di terminare la sua vita ad Ostia. E inoltre non mi posso scordare del grande amore per sua madre Susanna Colussi.

 

Per mio zio Antonio un altro tipo di opere ma non per questo meno significative. Prove importanti come mettere su famiglia, educare i figli, custodire i propri genitori in un’epoca cui quest’ultimo aspetto era un evento naturale. Fratello di mia madre e di zia Brigida, ebbe una vita tranquilla e questo malgrado una sorellina morta di difterite a 14 anni, la prima Brigida, e poi la guerra ed il ritorno a casa valicando montagne con astuzia da Matelica, vicino a Macerata, fino ad Assergi. I tedeschi erano in risalita/ritirata verso il nord Italia e la possibilità di essere catturati e passati per le armi era concreta.

 

La casa dove visse per cinquant’anni alla Piazzetta del Forno fu anche il mio rifugio estivo. In quel nucleo famigliare, accanto anche ai miei nonni Lorenzo e Maria, sembrava veramente che la vita non dovesse finire mai. Mi inserivo nei ritmi di quella vita, seguivo mio zio e mio nonno anche in campagna, illudendomi di poter essere utile. In verità per me tutto s’accostava ad un gioco e la spensieratezza era al sommo. La campagna per me s’identificava per lo più in quel fazzoletto di terra alle Pernagnova, ecco, ed era soprattutto lì che rivedo mio zio impegnarsi duramente nella falciatura. Ma lo spettacolo vero era osservarlo all’opera nel cambiare i ferri agli asini e alle mucche. Mentre lui all’interno della bottega provvedeva a scaldare i ferri, poi modellando tutto all’incudine, io ero stato posizionato alla forgia a girare la manovella, ad alimentare dunque la fiamma, ed era stato mio nonno a collocarmi lì nella speranza che rimanessi buono e non li infastidissi con tante domande. Ricordo la fuliggine, l’odore ferroso lì dentro, la bellezza di mio zio Antonio all’opera, a piegare i ferri nel punto in basso quasi a formare dei tacchi per asini, muli e cavalli. La scatola lunga, stretta e color mattone che conteneva le “ciappette”, e poi quel tintinnare del martello sull’incudine in giuste pause durante le quali mio zio Antonio valutava l’esattezza della sua opera. E dopo quel dolce suono, eccolo ancora a colpire con il martello appoggiando il ferro in piano oppure accavallandolo nella parte a punta dell’incudine. E intorno c’era di tutto, da vecchi ferri di cavallo ad arnesi d’ogni genere, ad oggetti fissati nelle pareti di pietra. E inoltre scatole dalla forma allungata e, oltre quelle con le “ciappette”, ce n’erano altre contenenti le “poste”, cioè i chiodi.

 

E nella parete di fronte all’incudine, ecco la luce da fuori, quella che consentiva di cogliere il pulviscolo. Meravigliosa (almeno per me) quella successiva azione dell’immergere l’arroventato ferro in quella piletta solenne, di pietra, che stava tra la forgia e la porta. A quel punto si sollevava del fumo accompagnato da un indimenticabile suono quasi a fischio, lungo.

 

Mio zio si rivolgeva a me in italiano come per una sua gentilezza interiore. Lì, alla bottega, quando mi stavo prendendo troppe libertà ecco che subito mi diceva: «Non mandare troppo forte la manovella perché poi non gira più…». Oppure m’invitava a non avvicinarmi troppo all’asino durante le fasi più delicate che comprendevano anche la pulitura dell’unghia con una sorta di pialla che mi piaceva tanto. In quei momenti volavano nell’intorno lame di unghia fino a che non si vedeva, di nuovo immacolato, il cuore dello zoccolo. Anche mio nonno mi parlava in italiano e quando oggi ci ripenso, m’intenerisco, sono quasi alle lacrime per lui e per mio zio.

 

Oltre all’affetto, zio Antonio dava il meglio di sé nel raccontare ed era a tavola, nella saletta alla Piazzetta del Forno oppure nella sua casa nuova, che componeva sempre con verità fatti lontani, riferibili alla sua infanzia.  Si riferiva spesso anche quando ad Assergi vennero i tedeschi mandando a morte il padre di Emilia in contemporanea con i feroci fatti di Filetto. Sempre presente anche nella nostra vita a Roma, faceva sentire il suo respiro buono anche a distanza. Ma è importante anche parlare della moglie, zia Letizia, che ha portato avanti la famiglia con una tenacia e una propensione al fare che mi sono impresse dentro. Attenta, scrupolosa nelle questioni della sua famiglia, ha mantenuto gli stessi comportamenti anche nei nostri riguardi e francamente non so separare la vita di zio Antonio dallo sguardo di lei. Erano un tutt’uno anche con Renzo, Maria Pia e poi con Chiara.

 

Devo dire che ho sempre provato ammirazione per mio zio, anche per la sua grande versatilità riuscendo egli a faticare ma, nello stesso tempo, ad essere educato, autentico, leale, generoso, raccontatore di storie, a volte arrabbiato ma sempre con delle buone ragioni. Oh, naturalmente anche con il largo sorriso. Quando mi sentiva ridere di cuore, lo ascoltavo da lontano ripetere: «La stessa risata de gliu padre!».

 

Nelle sue stagioni più che adulte, quando lo venivano a prendere affinché si prendesse cura degli zoccoli dei cavalli in più paesi e anche nei maneggi intorno a L’Aquila, per lui erano sempre attestazioni di stima ed anche d’affetto; e questo in virtù delle sue qualità professionali, umane, e anche d’una sorridente disponibilità. Per quelle attestazioni di stima e affetto mio zio era sicuramente felice, mai calandosi comunque al “centro della storia”. E in questo suo figlio Renzo è uguale: eleganza d’animo e sobrietà. Un pomeriggio d’una tarda estate mio zio Antonio mi disse: «Le gambe nen vave chiù…». Lui non sapeva che, negli ultimi tempi, quando lo vedevo commuoversi, mi lacerava il cuore dentro.



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